Vincenzo Colucci. 1898-1970
Dal 22 Maggio 2015 al 31 Maggio 2015
Roma
Luogo: Galleria “Il Mondo dell’Arte” - Palazzo Margutta
Indirizzo: via Margutta 55
Orari: dal martedì alla domenica 10.30-13 / 16-20
E-Mail info: paola_pacchiani@yahoo.it
Dal 22 al 31 maggio, la Galleria “Il Mondo dell’Arte” ospita nella storica sede di Palazzo Margutta (Via Margutta, 55) una mostra antologica dal titolo “Vincenzo Colucci. 1898 – 1970” dedicata a un artista dalla personalità tanto straordinaria ed eccezionale quanto affascinante, dotato di una educazione estetica unica, ma soprattutto “in possesso di una libera concezione degli schemi compositivi, quale può ritrovarsi soltanto in un pittore che ha della realtà un’idea poetica totalitaria”, come scrive Carlo Carrà.
Capace di avvicinarsi a luoghi, cose e persone dosando sapientemente il cuore dell’uomo e l’occhio del pittore, Colucci è dotato di un talento innato e naturale, caratterizzato da una significativa capacità espressiva e comunicativa, e arricchito da un margine di invenzione spontanea e casuale, da una tecnica immediata e virtuosa, da una notevole vivacità cromatica, da una semplicità e da una solidità della costruzione che gli regalano il lusso di non dover ripudiare neanche l’uso di una tavolozza fatta di colori elementari. A lasciar traccia sull’autentica vocazione di questo pittore prolifico, geniale e raffinato al tempo stesso, incapace di dipingere sotto i dettami di una scuola, gli artisti della tradizione napoletana, Utrillo, i paesaggisti lagunari del Settecento, diversi pittori neo-impressionisti (da Parquet a De Pisis, da Dufy a Van Dongen) ma anche Cezanne e Morandi o le grandi firme del filone della pittura intimistica e decadente, che ha il suo più geniale esponente in Mario Mafai.Che siano vedute, marine, ritratti o nature morte, realizzate quasi sempre con la tecnica dell’olio su tela o su legno, egli dimostra “di perseguire un principio d’arte che, se non può dirsi avanguardiero nel senso corrente della parola, mira alla salvezza ed omogeneità pittorica, il che conta anche di più, se la pittura deve essere quella che fu sempre nelle buone epoche della storia”, come scrive ancora Carlo Carrà.
Sicuro analizzatore del paesaggio, Vincenzo Colucci ritorna da ogni viaggio con un grosso carico di dipinti: la Liguria, la Toscana, Napoli, Roma ma anche la Francia, l’Inghilterra, il Belgio, l’Olanda, la Svizzera, la Tripolitania e ancora l’America e il Giappone. A costituire i temi dominanti l’intera sua produzione sono, però, soprattutto Venezia e Ischia: la prima amata per la sua intima essenza di vita; la seconda osservata con goethiana serenità, evitando la facile commozione della nostalgia sentimentale verso il mondo della sua infanzia. E’ proprio con la presa di contatto con il paesaggio lagunare che arriva la svolta decisiva nella sua pittura: è allora che il colore si schiarisce, gli orizzonti si allargano, prendendo profondità, la luce diventa protagonista del quadro e il taglio si raffina.
Nell’esposizione con la quale la nipote Annamaria Petti ha scelto di rendergli omaggio un’ampia raccolta di opere pittorichecaratterizzate da un solido impianto tonale, studiato sulla scia dei pittori della generazione precedente alla sua, all’interno del quale, a seconda dei momenti, la pennellata è più leggera o tenace mentre il cromatismo più chiaro, delicato e vivace, arriva ad assumere toni più grevi. Tuttiquesti lavori offrono al pubblico la possibilità di ammirare uno spaccato importante della vasta e ricca attività di quest’esponente di spicco della scuola napoletana, generando un percorso che dagli esordi arriva fino alla piena maturità artistica e testimonia la poliedricità di tematiche che caratterizza questo pittore: paesaggi e vedute marine, in cui l’artista riesce a trasportare i suoi stati d’animo, ritratti e figure umane, nature morte e fiori, genere nel quale più chiaramente si colgono i caratteri della sua sensibilità e in cui la verve di Colucci ha modo di esprimersi con maggiore libertà.
A curare la mostra, che ripercorre attraverso un’ampia raccolta dei suoi lavori e alcune preziose testimonianze sia la sua carriera artistica che le fasi più significative della sua vita, il Maestro Elvino Echeoni e Remo Panacchia, soci fondatori de “Il Mondo dell’Arte”,che da anni propone, nella sede espositiva di Via Margutta, Maestri che hanno portato l’arte italiana nel mondo. All’allestimento ha contribuito anche il gallerista Adriano Chiusuri.
L’appuntamento per il vernissage è fissato per venerdì 22 maggio 2015 dalle 18.30 alle 21.30.
Nasce a Ischia nel 1898, dove il padre Giuseppe, sbarcato per una gita e affascinato dalla bellezza del luogo, decide di fermarsi, rinunciando al lavoro di scenografo al teatro San Carlo di Napoli. Terzo di cinque figli, Vincenzo è irrequieto, ribelle e insofferente alle costrizioni tanto da essere ritirato dalla scuola. I suoi unici momenti di tranquillità sono quelli in cui, da autodidatta, con un gessetto o un carboncino si ferma a dipingere velieri, pescatori e altre scene di vita isolana o dà libero sfogo al suo estro imbrattando qualsiasi superficie gli offra questa possibilità. Intuendo il talento autentico del figlio, il padre decide di assecondarne l’inclinazione all’arte e gli regala un’attrezzatura completa da pittore. Ha inizio così l’affannosa ricerca dei “motivi” che lo porta a percorrere instancabilmente strade impervie e spiagge dell’isola. E’ tra i suoi villeggianti che il giovane artista incontra Giuseppe Casciaro. Alla partenza del Maestro da Ischia, Colucci si trasferisce a Napoli, dove inizia a frequentare la scuola serale di nudo e a vendere i suoi quadri. Risalgono ad allora l’amicizia con Luigi Crisconio e le prime esposizioni insieme ai più noti pittori napoletani, che gli consentono di affermarsi come uno dei più promettenti artisti della nuova generazione. Non ancora ventenne Colucci viene chiamato alle armi. Nonostante la guerra, trova il tempo di dipingere. Dopo il congedo, riprende a pieno il lavoro e trasforma la sua casa-studio in un luogo di ritrovoper amatori d’arte, giornalisti, letterati, uomini di teatro e critici, tra cui Di Giacomo, Ferdinando Russo, Ernesto Murolo. Inizia intanto un girovagare per il mondo: Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda, Svizzera, Tripolitania, America e Giappone, ma anche luoghi più vicini come la Liguria, la Toscana, Roma e Venezia. E’ nella città lagunare che decide di partecipare all’impresa fiumana divenendo il pittore ufficiale della Repubblica del Carnaro. L’avventura di Fiume fu un gesto da esteta, un modo per entrare nella leggenda e lasciò nell’artista – così come nel fratello Eduardo, anche lui pittore - strascichi dannunziani, come accogliere gli ospiti nei “Vittoriali privati” o compiere gesti bonariamente teatrali. Tratto dannunziano del carattere di Vincenzo fu la galanteria, la costante adorazione per la bellezza muliebre, la disponibilità per improvvisi e travolgenti amori. Nel 1931 conosce Aureliana Maestripieri, che diviene poi sua moglie. Il rapporto con questa donna dura e volitiva non fu mai facile e i due vissero quasi sempre separati fino alla morte di lei, avvenuta nel 1971. Intanto nel 1929, alla Galleria Vanessa di Napoli, si tiene la prima grande mostra personale dedicata a Vincenzo Colucci. Nel 1934 apre a Ischia una bottega d’arte, la prima iniziativa del genere che sia stata presa nell’isola, che ospitò mostre di artisti italiani e stranieri di notevole levatura. Contemporaneamente alla galleria, entrambi i fratelli Colucci aprono le rispettive case ad amici illustri: da Toscanini a Montale, da Comisso a Visconti e ancora Jean Anouilh, De Chirico, Campigli, Eduardo e Peppino De Filippo, De Sica, Comencini, oltre che alla colonia di artisti tedeschi che hanno avuto un ruolo di primo piano nei movimenti artistici europei (da Hans Purmann a Rudolf Levi, Warner Gilles, Karly Sohn-Rethel, Kurt Kraemer). Sempre nello stesso anno Vincenzo è a Tripoli, con altri artisti italiani, per lavorare in preparazione della mostra coloniale che si tenne l’anno successivo al Maschio Angioino e che fu una delle esposizioni più qualificate che siano state allestite a Napoli nel corso del ventennio. A metà degli anni ’30 mise uno studio a Roma, in Via Margutta. Tuttavia, non sapendo stare senza dipingere, trasporta ovunque con sé il cavalletto viaggiante. Nel 1939 torna in Libia per preparare una personale che avrebbe dovuto inserirsi nel quadro delle manifestazioni della Triennale d’Oltremare e che non fu mai inaugurata. Due anni dopo ebbe la nomina a titolare della cattedra di figura disegnata al Liceo artistico di Palermo e quasi contemporaneamente fu richiamato alle armi come illustratore di azioni belliche e imbarcato sulle navi della marina militare. Tra una spedizione e l’altra Colucci tornò a Ischia dove aveva iniziato a costruire il suo “Villaggio”, un piccolo complesso architettonico da lui ideato e realizzato, fermamente contrastato dalle autorità locali e nazionali. Dal 1948 in poi Colucci riprese i suoi viaggi, tornando a lavorare nei luoghi a lui più cari: dalla Francia al Belgio, dall’Olanda all’Inghilterra, dalla Svizzera alle tante regioni italiane che più lo ispiravano. Compì anche negli anni ’70 i suoi grandi viaggi intercontinentali: Giappone, India, Africa e America. Poi nel 1968, avvertendo i primi sintomi di quel male che lo avrebbe ucciso, tornò a Ischia. Dopo un intervento chirurgico, riprese il lavoro. Morì il 2 ottobre 1970.
Di lui hanno detto: “La pittura di Vincenzo Colucci può dirsi quasi sempre improntata con naturali attitudini a concetti di serietà di una evidenza persuasiva. In particolar modo le attitudini realizzatrici del Colucci si rivelano attraverso l’uso del colore e nelle morbidezze dei rapporti tonali. Ma se è nella colorazione che il Colucci ha meglio progredito e dove egli trova la sua maggior ragione d’essere distinto, non mancano neanche i fermenti di una volontà stimolata verso la costruzione del quadro. Questo è il punto centrale che bisogna mettere davanti alla valutazione di questa pittura, la quale, pur connettendosi ad un concetto naturalistico, cerca non di meno di superarlo. Dire qui in qual grado egli riesca a superare quello che noi definiamo col termine di naturalismo, sarebbe un lungo discorso. A noi, del resto, basta un richiamo sommario, per quel tanto che può servire alla nostra asserzione, su quei dipinti, tra i molti raccolti, che può rispecchiano la sua accennata tendenza, e cito “Paesaggio a Villa Borghese”, “Paesaggio toscano” e “Studio all’aria aperta – fiori” che mi sembrano i più significativi. Basterà riconoscere i dati particolari che si riscontrano in queste tre tele per ammettere che vi è in questo artista il possesso di una libera concezione degli schemi compositivi, quale può ritrovarsi soltanto in un pittore che ha della realtà un’idea poetica totalitaria. Nessun intoppo oggettivo raffredda quindi la visione dell’artista che, con spontaneità, prospetta soluzioni inaspettate. Nessun intoppo oggettivo raffredda quindi la visione che l’indole artistica di Colucci potrebbe assumere nelle successive esperienze. Noi volevamo soltanto far chiaro in quello che abbiamo trovato in queste sue tele, nelle quali, ancorché non sempre selezionate con rigore unitario, definite in uno stile scevro di incertezze, sono il prodotto di un temperamento pittorico nativo, e per ciò stesso, apprezzabile. In più, il Colucci mostra di perseguire un principio d’arte che, se non può dirsi avanguardiero nel senso corrente della parola, mira alla salvezza ed omogeneità pittorica, il che conta anche di più, se la pittura deve essere quella che fu sempre nelle buone epoche della storia”. (Carlo Carrà)
“….Certi suoi paesaggi potrebbero richiamare alla mente le prose liriche dei poeti impressionisti; quelle, ad esempio, di un Soffici dell’Arlecchino, dove è possibile avvertire la felicità dei suoni e dei colori; e potrebbero altresì far pensare a De Pisis delle vedute veneziane; per quanto uno spirito settecentesco di eleganza e di delicata poesia sia del tutto proprio della natura di Vincenzo Colucci. Per il quale il dipingere è un bisogno o per essere più esatti una felicità. Niente drammi. Niente problemi più o meno astrusi da risolvere. La sua pittura cresce e si sviluppa all’aria aperta come le piante tra tristezza di nuvole e festosità di sole. Non conosce meditazioni; e nemmeno elucubrazioni. E’ un dono dell’istinto. E’ una forza dei sensi e della fantasia. Colucci, anche se lo proponesse, non potrebbe mai dipingere secondo i dettami di una scuola o di una tendenza. Sceglie le parole nel famoso vocabolario della natura, e dà ad esse sempre un significato nuovo. Tutte queste considerazioni sulla sua arte faceva sin dal 1934, anno del nostro incontro ed inizio della nostra amicizia. Vincenzo Colucci nella storia della pittura italiana sarà considerato un «enfant prodige»”. (Piero Girace)
“Colucci sa innanzitutto interpretare il paesaggio. La luminosità solare,piena, lievemente stanca di Ischia, dei centro del golfo di Napoli, dove ci sono mare e cielo protagonisti, si accompagna con certe vedute liguri più tenui, più trasparenti, primaverili: nuova conquista sono le nevi invernali di Cortina d’Ampezzo. L’olio si maschera quasi da acquerello nei panorami e nei particolari umidi o, a volte, polverosi di Villa Borghese. La Toscana, la Lombardia, Venezia, con altrettanta esattezza, sono rappresentate documentariamente: ma è una esattezza, ma è un documento di indole assolutamente pittorica. La verità ambientale non è tanto perseguita per mezzo dei particolari, di facili richiami folcloristici, di trovare ‘contenutistiche’, quanto nell’accezione immediata di quello che è il colore dell’uno o dell’altro paese: in ciò Colucci può considerarsi ‘cosmopolita’…” (Ruggero Orlando)
Capace di avvicinarsi a luoghi, cose e persone dosando sapientemente il cuore dell’uomo e l’occhio del pittore, Colucci è dotato di un talento innato e naturale, caratterizzato da una significativa capacità espressiva e comunicativa, e arricchito da un margine di invenzione spontanea e casuale, da una tecnica immediata e virtuosa, da una notevole vivacità cromatica, da una semplicità e da una solidità della costruzione che gli regalano il lusso di non dover ripudiare neanche l’uso di una tavolozza fatta di colori elementari. A lasciar traccia sull’autentica vocazione di questo pittore prolifico, geniale e raffinato al tempo stesso, incapace di dipingere sotto i dettami di una scuola, gli artisti della tradizione napoletana, Utrillo, i paesaggisti lagunari del Settecento, diversi pittori neo-impressionisti (da Parquet a De Pisis, da Dufy a Van Dongen) ma anche Cezanne e Morandi o le grandi firme del filone della pittura intimistica e decadente, che ha il suo più geniale esponente in Mario Mafai.Che siano vedute, marine, ritratti o nature morte, realizzate quasi sempre con la tecnica dell’olio su tela o su legno, egli dimostra “di perseguire un principio d’arte che, se non può dirsi avanguardiero nel senso corrente della parola, mira alla salvezza ed omogeneità pittorica, il che conta anche di più, se la pittura deve essere quella che fu sempre nelle buone epoche della storia”, come scrive ancora Carlo Carrà.
Sicuro analizzatore del paesaggio, Vincenzo Colucci ritorna da ogni viaggio con un grosso carico di dipinti: la Liguria, la Toscana, Napoli, Roma ma anche la Francia, l’Inghilterra, il Belgio, l’Olanda, la Svizzera, la Tripolitania e ancora l’America e il Giappone. A costituire i temi dominanti l’intera sua produzione sono, però, soprattutto Venezia e Ischia: la prima amata per la sua intima essenza di vita; la seconda osservata con goethiana serenità, evitando la facile commozione della nostalgia sentimentale verso il mondo della sua infanzia. E’ proprio con la presa di contatto con il paesaggio lagunare che arriva la svolta decisiva nella sua pittura: è allora che il colore si schiarisce, gli orizzonti si allargano, prendendo profondità, la luce diventa protagonista del quadro e il taglio si raffina.
Nell’esposizione con la quale la nipote Annamaria Petti ha scelto di rendergli omaggio un’ampia raccolta di opere pittorichecaratterizzate da un solido impianto tonale, studiato sulla scia dei pittori della generazione precedente alla sua, all’interno del quale, a seconda dei momenti, la pennellata è più leggera o tenace mentre il cromatismo più chiaro, delicato e vivace, arriva ad assumere toni più grevi. Tuttiquesti lavori offrono al pubblico la possibilità di ammirare uno spaccato importante della vasta e ricca attività di quest’esponente di spicco della scuola napoletana, generando un percorso che dagli esordi arriva fino alla piena maturità artistica e testimonia la poliedricità di tematiche che caratterizza questo pittore: paesaggi e vedute marine, in cui l’artista riesce a trasportare i suoi stati d’animo, ritratti e figure umane, nature morte e fiori, genere nel quale più chiaramente si colgono i caratteri della sua sensibilità e in cui la verve di Colucci ha modo di esprimersi con maggiore libertà.
A curare la mostra, che ripercorre attraverso un’ampia raccolta dei suoi lavori e alcune preziose testimonianze sia la sua carriera artistica che le fasi più significative della sua vita, il Maestro Elvino Echeoni e Remo Panacchia, soci fondatori de “Il Mondo dell’Arte”,che da anni propone, nella sede espositiva di Via Margutta, Maestri che hanno portato l’arte italiana nel mondo. All’allestimento ha contribuito anche il gallerista Adriano Chiusuri.
L’appuntamento per il vernissage è fissato per venerdì 22 maggio 2015 dalle 18.30 alle 21.30.
Nasce a Ischia nel 1898, dove il padre Giuseppe, sbarcato per una gita e affascinato dalla bellezza del luogo, decide di fermarsi, rinunciando al lavoro di scenografo al teatro San Carlo di Napoli. Terzo di cinque figli, Vincenzo è irrequieto, ribelle e insofferente alle costrizioni tanto da essere ritirato dalla scuola. I suoi unici momenti di tranquillità sono quelli in cui, da autodidatta, con un gessetto o un carboncino si ferma a dipingere velieri, pescatori e altre scene di vita isolana o dà libero sfogo al suo estro imbrattando qualsiasi superficie gli offra questa possibilità. Intuendo il talento autentico del figlio, il padre decide di assecondarne l’inclinazione all’arte e gli regala un’attrezzatura completa da pittore. Ha inizio così l’affannosa ricerca dei “motivi” che lo porta a percorrere instancabilmente strade impervie e spiagge dell’isola. E’ tra i suoi villeggianti che il giovane artista incontra Giuseppe Casciaro. Alla partenza del Maestro da Ischia, Colucci si trasferisce a Napoli, dove inizia a frequentare la scuola serale di nudo e a vendere i suoi quadri. Risalgono ad allora l’amicizia con Luigi Crisconio e le prime esposizioni insieme ai più noti pittori napoletani, che gli consentono di affermarsi come uno dei più promettenti artisti della nuova generazione. Non ancora ventenne Colucci viene chiamato alle armi. Nonostante la guerra, trova il tempo di dipingere. Dopo il congedo, riprende a pieno il lavoro e trasforma la sua casa-studio in un luogo di ritrovoper amatori d’arte, giornalisti, letterati, uomini di teatro e critici, tra cui Di Giacomo, Ferdinando Russo, Ernesto Murolo. Inizia intanto un girovagare per il mondo: Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda, Svizzera, Tripolitania, America e Giappone, ma anche luoghi più vicini come la Liguria, la Toscana, Roma e Venezia. E’ nella città lagunare che decide di partecipare all’impresa fiumana divenendo il pittore ufficiale della Repubblica del Carnaro. L’avventura di Fiume fu un gesto da esteta, un modo per entrare nella leggenda e lasciò nell’artista – così come nel fratello Eduardo, anche lui pittore - strascichi dannunziani, come accogliere gli ospiti nei “Vittoriali privati” o compiere gesti bonariamente teatrali. Tratto dannunziano del carattere di Vincenzo fu la galanteria, la costante adorazione per la bellezza muliebre, la disponibilità per improvvisi e travolgenti amori. Nel 1931 conosce Aureliana Maestripieri, che diviene poi sua moglie. Il rapporto con questa donna dura e volitiva non fu mai facile e i due vissero quasi sempre separati fino alla morte di lei, avvenuta nel 1971. Intanto nel 1929, alla Galleria Vanessa di Napoli, si tiene la prima grande mostra personale dedicata a Vincenzo Colucci. Nel 1934 apre a Ischia una bottega d’arte, la prima iniziativa del genere che sia stata presa nell’isola, che ospitò mostre di artisti italiani e stranieri di notevole levatura. Contemporaneamente alla galleria, entrambi i fratelli Colucci aprono le rispettive case ad amici illustri: da Toscanini a Montale, da Comisso a Visconti e ancora Jean Anouilh, De Chirico, Campigli, Eduardo e Peppino De Filippo, De Sica, Comencini, oltre che alla colonia di artisti tedeschi che hanno avuto un ruolo di primo piano nei movimenti artistici europei (da Hans Purmann a Rudolf Levi, Warner Gilles, Karly Sohn-Rethel, Kurt Kraemer). Sempre nello stesso anno Vincenzo è a Tripoli, con altri artisti italiani, per lavorare in preparazione della mostra coloniale che si tenne l’anno successivo al Maschio Angioino e che fu una delle esposizioni più qualificate che siano state allestite a Napoli nel corso del ventennio. A metà degli anni ’30 mise uno studio a Roma, in Via Margutta. Tuttavia, non sapendo stare senza dipingere, trasporta ovunque con sé il cavalletto viaggiante. Nel 1939 torna in Libia per preparare una personale che avrebbe dovuto inserirsi nel quadro delle manifestazioni della Triennale d’Oltremare e che non fu mai inaugurata. Due anni dopo ebbe la nomina a titolare della cattedra di figura disegnata al Liceo artistico di Palermo e quasi contemporaneamente fu richiamato alle armi come illustratore di azioni belliche e imbarcato sulle navi della marina militare. Tra una spedizione e l’altra Colucci tornò a Ischia dove aveva iniziato a costruire il suo “Villaggio”, un piccolo complesso architettonico da lui ideato e realizzato, fermamente contrastato dalle autorità locali e nazionali. Dal 1948 in poi Colucci riprese i suoi viaggi, tornando a lavorare nei luoghi a lui più cari: dalla Francia al Belgio, dall’Olanda all’Inghilterra, dalla Svizzera alle tante regioni italiane che più lo ispiravano. Compì anche negli anni ’70 i suoi grandi viaggi intercontinentali: Giappone, India, Africa e America. Poi nel 1968, avvertendo i primi sintomi di quel male che lo avrebbe ucciso, tornò a Ischia. Dopo un intervento chirurgico, riprese il lavoro. Morì il 2 ottobre 1970.
Di lui hanno detto: “La pittura di Vincenzo Colucci può dirsi quasi sempre improntata con naturali attitudini a concetti di serietà di una evidenza persuasiva. In particolar modo le attitudini realizzatrici del Colucci si rivelano attraverso l’uso del colore e nelle morbidezze dei rapporti tonali. Ma se è nella colorazione che il Colucci ha meglio progredito e dove egli trova la sua maggior ragione d’essere distinto, non mancano neanche i fermenti di una volontà stimolata verso la costruzione del quadro. Questo è il punto centrale che bisogna mettere davanti alla valutazione di questa pittura, la quale, pur connettendosi ad un concetto naturalistico, cerca non di meno di superarlo. Dire qui in qual grado egli riesca a superare quello che noi definiamo col termine di naturalismo, sarebbe un lungo discorso. A noi, del resto, basta un richiamo sommario, per quel tanto che può servire alla nostra asserzione, su quei dipinti, tra i molti raccolti, che può rispecchiano la sua accennata tendenza, e cito “Paesaggio a Villa Borghese”, “Paesaggio toscano” e “Studio all’aria aperta – fiori” che mi sembrano i più significativi. Basterà riconoscere i dati particolari che si riscontrano in queste tre tele per ammettere che vi è in questo artista il possesso di una libera concezione degli schemi compositivi, quale può ritrovarsi soltanto in un pittore che ha della realtà un’idea poetica totalitaria. Nessun intoppo oggettivo raffredda quindi la visione dell’artista che, con spontaneità, prospetta soluzioni inaspettate. Nessun intoppo oggettivo raffredda quindi la visione che l’indole artistica di Colucci potrebbe assumere nelle successive esperienze. Noi volevamo soltanto far chiaro in quello che abbiamo trovato in queste sue tele, nelle quali, ancorché non sempre selezionate con rigore unitario, definite in uno stile scevro di incertezze, sono il prodotto di un temperamento pittorico nativo, e per ciò stesso, apprezzabile. In più, il Colucci mostra di perseguire un principio d’arte che, se non può dirsi avanguardiero nel senso corrente della parola, mira alla salvezza ed omogeneità pittorica, il che conta anche di più, se la pittura deve essere quella che fu sempre nelle buone epoche della storia”. (Carlo Carrà)
“….Certi suoi paesaggi potrebbero richiamare alla mente le prose liriche dei poeti impressionisti; quelle, ad esempio, di un Soffici dell’Arlecchino, dove è possibile avvertire la felicità dei suoni e dei colori; e potrebbero altresì far pensare a De Pisis delle vedute veneziane; per quanto uno spirito settecentesco di eleganza e di delicata poesia sia del tutto proprio della natura di Vincenzo Colucci. Per il quale il dipingere è un bisogno o per essere più esatti una felicità. Niente drammi. Niente problemi più o meno astrusi da risolvere. La sua pittura cresce e si sviluppa all’aria aperta come le piante tra tristezza di nuvole e festosità di sole. Non conosce meditazioni; e nemmeno elucubrazioni. E’ un dono dell’istinto. E’ una forza dei sensi e della fantasia. Colucci, anche se lo proponesse, non potrebbe mai dipingere secondo i dettami di una scuola o di una tendenza. Sceglie le parole nel famoso vocabolario della natura, e dà ad esse sempre un significato nuovo. Tutte queste considerazioni sulla sua arte faceva sin dal 1934, anno del nostro incontro ed inizio della nostra amicizia. Vincenzo Colucci nella storia della pittura italiana sarà considerato un «enfant prodige»”. (Piero Girace)
“Colucci sa innanzitutto interpretare il paesaggio. La luminosità solare,piena, lievemente stanca di Ischia, dei centro del golfo di Napoli, dove ci sono mare e cielo protagonisti, si accompagna con certe vedute liguri più tenui, più trasparenti, primaverili: nuova conquista sono le nevi invernali di Cortina d’Ampezzo. L’olio si maschera quasi da acquerello nei panorami e nei particolari umidi o, a volte, polverosi di Villa Borghese. La Toscana, la Lombardia, Venezia, con altrettanta esattezza, sono rappresentate documentariamente: ma è una esattezza, ma è un documento di indole assolutamente pittorica. La verità ambientale non è tanto perseguita per mezzo dei particolari, di facili richiami folcloristici, di trovare ‘contenutistiche’, quanto nell’accezione immediata di quello che è il colore dell’uno o dell’altro paese: in ciò Colucci può considerarsi ‘cosmopolita’…” (Ruggero Orlando)
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