Elisabetta Viarengo Miniotti. Meditazioni. Sulla natura delle cose
Dal 22 Febbraio 2014 al 23 Marzo 2014
Avigliana | Torino
Luogo: Galleria “Arte per Voi”
Indirizzo: piazza Conte Rosso 3
Orari: sabato e domenica 15-19
Curatori: Luigi Castagna, Paolo Nesta
Enti promotori:
- Città di Avigliana
Telefono per informazioni: +39 339 2523791 / 333 8710636
E-Mail info: lcastagna@artepervoi.it
Sito ufficiale: http://www.artepervoi.it/
Per inaugurare la nuova sede in Piazza Conte Rosso n.3, ad Avigliana (TO), “Arte per Voi” ha invitato Elisabetta Viarengo Miniotti ad esporre dal 22 febbraio al 23 marzo 2014 una piccola antologia di suoi dipinti recenti, dal 2010 al 2013, affiancata da un’ampia selezione di calcografie, dal 1978 al 2013.
Il titolo della mostra “Meditazioni. Sulla natura delle cose.” richiede una precisazione, un ulteriore chiarimento sulla finalità meditativa, che è già di per sé un dato costitutivo, profondo e intimo dell’opera della artista, che si esercita costantemente sulla realtà, sulla natura delle cose. Ma “La natura delle cose” non è altro, nella mia intenzione, che la traduzione del titolo del poema latino De Rerum Natura, di Tito Lucrezio Caro; perché, riflettendo di fronte alle opere di Elisabetta, credo che il rimando a quel poeta non sia per nulla fuori luogo. Infatti, come in quei versi antichi, dalle sue tele e nei suoi fogli, allo stesso modo, trapela il senso della ricerca di appigli, se non di certezze, morali e di pensiero, necessarie a tacitare l’ansia della conoscenza e della comprensione e, forse anche, le intime inquietudini, compresi gli stati angosciosi, dell’animo, suo e nostro. L’occhio che osserva la natura, nella sua apparente freddezza conoscitiva, è però lo stesso che invece sa animarsi, accendersi e soffrire, scrutando l’umanità, i suoi drammi. Qui si manifesta il nodo inscindibile in cui si avviluppa, senza scampo, la condizione dell’individuo, involto entro le inesorabili leggi del cosmo. La sensibilità indagatrice per tutto ciò che è, soffre e si trasforma, ispirando passioni e poesia, non è solo una virtù moderna, dal momento che credo coincida con l’antico sentimento della ‘pietas’.
Se osserviamo le opere, nella continuità del fare artistico, di Elisabetta Viarengo Miniotti attraverso le reiterate ricerche condotte attorno al suo “Ciclo delle acque”, tra il 1994 e il 2003/2004, ma così bene anticipate nel “Ciclo dei boschi e delle cortecce”, dal 1990 al 1992, vi è tutta esplicita quella tensione amorosa per le passioni pietose e, là dove occorra, per le sventure, umane. E, allargando lo sguardo, essa si mostra identicamente operosa di qui, da questi fogli, sia a ritroso, fino al 1978, sia in avanti, al 2013. Forse, più ancora delle opere pittoriche - cui siamo, ma temo solo apparentemente più avvezzi - l’analisi ravvicinata dei fogli incisi ci può indurre a comprenderne in proprio e di riflesso, i valori profondi, per intendere proprio quanto sia fitto il dialogo che essi intrattengono con le tele dipinte. Tralasciando per un momento temi e soggetti racchiusi in quelle carte, occorre provare ad accostarci ai puri valori segnici, alle soluzioni dinamiche e alle intense suggestioni materiche con cui sono eseguiti e da cui scaturisce l’intera composizione.
Osserviamo, o meglio ancora, lasciamoci affascinare a contemplare in libertà le trame dei segni che, intrecciandosi, si vanno infittendo fino a quelle perfette campiture di nero intenso e vellutato – il “noir de velours” descritto negli antichi trattati tecnici di incisione – o si distendono in morbidi grigi , o quelle tessiture di segni a tracce sovrapposte e fittamente incrociate, intervallate e contrappuntate da cupe “sgocciolature” di nero puro, di hartunghiana memoria, o quegli effetti spaziali, ottenuti per progressive costruzioni “tonali” che esaltano, per deliberate opposizioni, improvvisi squarci di luce. Se guardiamo ancora più da vicino potremo scoprire come essi siano frutto di un mestiere consumatissimo, che si avvale, a vantaggio della ricreazione di un linguaggio assolutamente personale e lungamente sperimentato, dei più diversi e appropriati espedienti tecnici, messi a punto dalla tradizione plurisecolare dell’arte calcografica nella lavorazione della matrice metallica (e, in più, inchiostrati e stampati ottimamente)iii.
Alle variabili, messe in campo da un pluridecennale percorso tecnico formale e dai suoi variegati riflessi tematici in sede di articolazioni creative, cui si è fin qui brevemente fatto cenno, la valutazione complessiva dell’opera di Elisabetta Viarengo Miniotti non può prescindere dalla sua posizione di primo piano nel contesto artistico contemporaneo. Si tratta, in questo caso, di un ordine di considerazioni che meriterebbe ben altro spazio di analisi rispetto a questo e su cui si dovrà, comunque e al più presto, indirizzare una più sistematica attenzione. Le linee guida su cui si impernia il suo percorso creativo sembrano tuttavia già abbastanza ben delineate attraverso, in particolare, un paio di interventi critici che la riguardano direttamente. Mi riferisco in primo luogo alla presentazione dell’artista, a cura di Franco Fanelli, del 1998, in cui sono espliciti i rinvii ad una continuità, nello specifico storico della tradizione dell’arte incisoria piemontese, di un fare artistico che si riconosce in straordinari maestri, come Mario Calandri, Giacomo Soffiantino e Francesco Franco. Pino Mantovani, poi, nel 2004, approfondisce l’analisi della relazione tra maestro e allieva, dialetticamente vissuta tra Giacomo Soffiantino ed Elisabetta Viarengo Miniotti, fin dai tempi, all’Accademia Albertina, della Scuola del Nudo. A me sembra, anche se in un’estrema e del tutto provvisoria sintesi, che si debba allargare, almeno ancora un poco, l’orizzonte di queste riflessioni, fino a spingerci, da una parte, a recuperare - nello specifico ambito della tradizione calcografica piemontese - il senso e il valore (ovviamente fatto non solo di saperi tecnici) di una tradizione, sul piano delle acquisizioni tecnico-formali, che affonda ancora più in là le proprie origini, forse ancora oltre, a Torino, a Marcello Boglione, predecessore di Calandri all’Accademia Albertina, per sfiorare i primi decenni del XX secolo. E quindi, mi pare, il discorso non può che allargarsi alla storia delle acquisizioni tecnico-culturali e creative, che, da quei decenni del secolo scorso, accanto alla torinese Accademia Albertina, ha a che vedere in particolare con alcune altre istituzioni italiane, tra cui direi: Venezia, Milano, Urbino e Roma. Dall’altra parte, fin dagli anni Cinquanta, proprio a Torino, non si può trascurare il ruolo decisivo assunto da tre maestri: Piero Ruggeri, Sergio Saroni e Giacomo Soffiantino: come a dire, l’Informale, o se vogliamo, l’espressionismo astratto . Ma anche, sebbene di fatto del tutto fuori dal contesto torinese, proprio guardando le incisioni di Elisabetta, mi sembra difficile dimenticare le occasioni di parallelo, di confronto, forse attraverso lo stesso rassicurante filtro della grafica di Mario Calandri, con i fogli incisi di Renzo Vespignani o di Federica Galli.
Paolo Nesta
Il titolo della mostra “Meditazioni. Sulla natura delle cose.” richiede una precisazione, un ulteriore chiarimento sulla finalità meditativa, che è già di per sé un dato costitutivo, profondo e intimo dell’opera della artista, che si esercita costantemente sulla realtà, sulla natura delle cose. Ma “La natura delle cose” non è altro, nella mia intenzione, che la traduzione del titolo del poema latino De Rerum Natura, di Tito Lucrezio Caro; perché, riflettendo di fronte alle opere di Elisabetta, credo che il rimando a quel poeta non sia per nulla fuori luogo. Infatti, come in quei versi antichi, dalle sue tele e nei suoi fogli, allo stesso modo, trapela il senso della ricerca di appigli, se non di certezze, morali e di pensiero, necessarie a tacitare l’ansia della conoscenza e della comprensione e, forse anche, le intime inquietudini, compresi gli stati angosciosi, dell’animo, suo e nostro. L’occhio che osserva la natura, nella sua apparente freddezza conoscitiva, è però lo stesso che invece sa animarsi, accendersi e soffrire, scrutando l’umanità, i suoi drammi. Qui si manifesta il nodo inscindibile in cui si avviluppa, senza scampo, la condizione dell’individuo, involto entro le inesorabili leggi del cosmo. La sensibilità indagatrice per tutto ciò che è, soffre e si trasforma, ispirando passioni e poesia, non è solo una virtù moderna, dal momento che credo coincida con l’antico sentimento della ‘pietas’.
Se osserviamo le opere, nella continuità del fare artistico, di Elisabetta Viarengo Miniotti attraverso le reiterate ricerche condotte attorno al suo “Ciclo delle acque”, tra il 1994 e il 2003/2004, ma così bene anticipate nel “Ciclo dei boschi e delle cortecce”, dal 1990 al 1992, vi è tutta esplicita quella tensione amorosa per le passioni pietose e, là dove occorra, per le sventure, umane. E, allargando lo sguardo, essa si mostra identicamente operosa di qui, da questi fogli, sia a ritroso, fino al 1978, sia in avanti, al 2013. Forse, più ancora delle opere pittoriche - cui siamo, ma temo solo apparentemente più avvezzi - l’analisi ravvicinata dei fogli incisi ci può indurre a comprenderne in proprio e di riflesso, i valori profondi, per intendere proprio quanto sia fitto il dialogo che essi intrattengono con le tele dipinte. Tralasciando per un momento temi e soggetti racchiusi in quelle carte, occorre provare ad accostarci ai puri valori segnici, alle soluzioni dinamiche e alle intense suggestioni materiche con cui sono eseguiti e da cui scaturisce l’intera composizione.
Osserviamo, o meglio ancora, lasciamoci affascinare a contemplare in libertà le trame dei segni che, intrecciandosi, si vanno infittendo fino a quelle perfette campiture di nero intenso e vellutato – il “noir de velours” descritto negli antichi trattati tecnici di incisione – o si distendono in morbidi grigi , o quelle tessiture di segni a tracce sovrapposte e fittamente incrociate, intervallate e contrappuntate da cupe “sgocciolature” di nero puro, di hartunghiana memoria, o quegli effetti spaziali, ottenuti per progressive costruzioni “tonali” che esaltano, per deliberate opposizioni, improvvisi squarci di luce. Se guardiamo ancora più da vicino potremo scoprire come essi siano frutto di un mestiere consumatissimo, che si avvale, a vantaggio della ricreazione di un linguaggio assolutamente personale e lungamente sperimentato, dei più diversi e appropriati espedienti tecnici, messi a punto dalla tradizione plurisecolare dell’arte calcografica nella lavorazione della matrice metallica (e, in più, inchiostrati e stampati ottimamente)iii.
Alle variabili, messe in campo da un pluridecennale percorso tecnico formale e dai suoi variegati riflessi tematici in sede di articolazioni creative, cui si è fin qui brevemente fatto cenno, la valutazione complessiva dell’opera di Elisabetta Viarengo Miniotti non può prescindere dalla sua posizione di primo piano nel contesto artistico contemporaneo. Si tratta, in questo caso, di un ordine di considerazioni che meriterebbe ben altro spazio di analisi rispetto a questo e su cui si dovrà, comunque e al più presto, indirizzare una più sistematica attenzione. Le linee guida su cui si impernia il suo percorso creativo sembrano tuttavia già abbastanza ben delineate attraverso, in particolare, un paio di interventi critici che la riguardano direttamente. Mi riferisco in primo luogo alla presentazione dell’artista, a cura di Franco Fanelli, del 1998, in cui sono espliciti i rinvii ad una continuità, nello specifico storico della tradizione dell’arte incisoria piemontese, di un fare artistico che si riconosce in straordinari maestri, come Mario Calandri, Giacomo Soffiantino e Francesco Franco. Pino Mantovani, poi, nel 2004, approfondisce l’analisi della relazione tra maestro e allieva, dialetticamente vissuta tra Giacomo Soffiantino ed Elisabetta Viarengo Miniotti, fin dai tempi, all’Accademia Albertina, della Scuola del Nudo. A me sembra, anche se in un’estrema e del tutto provvisoria sintesi, che si debba allargare, almeno ancora un poco, l’orizzonte di queste riflessioni, fino a spingerci, da una parte, a recuperare - nello specifico ambito della tradizione calcografica piemontese - il senso e il valore (ovviamente fatto non solo di saperi tecnici) di una tradizione, sul piano delle acquisizioni tecnico-formali, che affonda ancora più in là le proprie origini, forse ancora oltre, a Torino, a Marcello Boglione, predecessore di Calandri all’Accademia Albertina, per sfiorare i primi decenni del XX secolo. E quindi, mi pare, il discorso non può che allargarsi alla storia delle acquisizioni tecnico-culturali e creative, che, da quei decenni del secolo scorso, accanto alla torinese Accademia Albertina, ha a che vedere in particolare con alcune altre istituzioni italiane, tra cui direi: Venezia, Milano, Urbino e Roma. Dall’altra parte, fin dagli anni Cinquanta, proprio a Torino, non si può trascurare il ruolo decisivo assunto da tre maestri: Piero Ruggeri, Sergio Saroni e Giacomo Soffiantino: come a dire, l’Informale, o se vogliamo, l’espressionismo astratto . Ma anche, sebbene di fatto del tutto fuori dal contesto torinese, proprio guardando le incisioni di Elisabetta, mi sembra difficile dimenticare le occasioni di parallelo, di confronto, forse attraverso lo stesso rassicurante filtro della grafica di Mario Calandri, con i fogli incisi di Renzo Vespignani o di Federica Galli.
Paolo Nesta
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