Il mondo che non c'era. L'arte precolombiana nella Collezione Ligabue

Il mondo che non c'era. L'arte precolombiana nella Collezione Ligabue

 

Dal 12 Gennaio 2018 al 30 Giugno 2018

Venezia

Luogo: Palazzo Loredan

Indirizzo: Campo Santo Stefano, San Marco 2945

Orari: Mar - Dom 9 - 17 | Lun chiuso

Curatori: Jacques Blazy, André Delpuech

Enti promotori:

  • Fondazione Giancarlo Ligabue
  • Patrocinio di Regione Veneto e Città di Venezia

Costo del biglietto: Intero 8 € | Ridotto 7 € | Ridotto speciale 4 € (bambini dai 4 ai 12 anni compiuti)

Telefono per informazioni: +39 041 2705616

E-Mail info: prenotazioni@fondazioneligabue.it

Sito ufficiale: http://www.fondazioneligabue.it



L’arte, ci ricorda Octavio Paz, non è mai piatta “descrizione di quello che vedono i nostri occhi, è bensì rivelazione di ciò che è oltre l’apparenza...” È una metafora, una religione, un’idea dell’uomo e del cosmo.
(Jacques Blazy, curatore della mostra)

Tra la fine del XV e gli albori del XVI secolo l’Europa viene scossa da una scoperta epocale: le “Indie” - secondo Cristoforo Colombo che approda il 12 ottobre 1492 sulle coste delle nuove terre - in ogni caso “Il mondo che non c’era”.

Un fatto che scardina la visione culturale del tradizionale asse Roma - Grecia - Oriente; l’incontro di un nuovo continente che, secondo l’antropologo Claude Lévi-Strauss, è forse l’evento più importante nella storia dell’umanità. Alcuni anni dopo il 1492 fu il grande esploratore Amerigo Vespucci a comprendere per primo che le terre incontrate da Colombo non erano isole indiane al largo del Cipango (Giappone) e neppure le ricercate porte dell’Eden, ma un “Mundus Novus”, un nuovo continente che pochi anni dopo alcuni geografi che lavoravano a Saint-Denis des Voges vollero chiamare, in suo onore, “America”.

Palazzo Loredan sede dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, ospiterà a partire dal 12 gennaio 2018 e fino al 30 giugno la mostra Il mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue, straordinaria esposizione dedicata alle tante e diverse civiltà precolombiane che avevano prosperato per migliaia di anni nel continente americano prima dell’incontro con gli Europei.

L’incontro di due civiltà che sono parte della medesima umanità.

Un’umanità fatta di comunanze e differenze di cui ci si rende ben conto grazie alle opere esposte nella mostra promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue, con main sponsor Ligabue Group, che racconta le antiche culture della cosiddetta Mesoamerica (gran parte del Messico, Guatemala, Belize, una parte dell’Honduras e del Salvador), il territorio di Panama, le Ande (Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, no a Cile e Argentina): dalla cultura Chavin a Tiahuanaco e Moche, fino agli Inca.

Un corpus di capolavori straordinari appartenenti una delle collezioni più complete e importanti in quest’ambito in Italia - la Collezione Ligabue - esposti al pubblico per la prima volta grazie a questo progetto. 
Ideata poco dopo la scomparsa di Giancarlo Ligabue (1931- 2015) - imprenditore ma anche paleontologo, studioso di archeologia e antropologia, esploratore e appassionato collezionista - questa esposizione ha inteso essere anche un omaggio alla sua cura da parte del figlio Inti Ligabue, che con la “Fondazione Giancarlo Ligabue” da lui creata continua l’impegno nell’attività culturale, nella ricerca scientifica e nella divulgazione dopo l’esperienza del Centro Studi e Ricerche fondato oltre 40 anni fa dal padre Giancarlo.

Oltre infatti ad aver organizzato più di 130 spedizioni in tutti i continenti, partecipando personalmente agli scavi e alle esplorazioni - con ritrovamenti memorabili conservati ora nelle collezioni museali dei diversi paesi - Giancarlo Ligabue ha anche dato vita negli anni, con acquisti mirati, a un’importante collezione d’oggetti d’arte, espressione di moltissime culture.
Una parte di questa collezione è il cuore della mostra curata da Jacques Blazy specialista delle arti pre-ispaniche della Mesoamerica e dell’America del Sud. Tra i membri del comitato scientifico anche André Delpuech, Direttore del Musée de l’Homme - Muséum d’Histoire Nationale Naturelle di Parigi e già responsabile delle Collezioni delle Americhe al Musée du quai Branly e l’archeologo peruviano Federico Kauffmann Doig, entrambi anche componenti del comitato scientifico della Fondazione Giancarlo Ligabue.

Dalle rarissime maschere in pietra di Teotihucan, la più grande città della Mesoamerica, primo vero centro urbano del Messico Centrale, ai vasi Maya d’epoca classica preziose fonti d’informazione, con le loro decorazioni e iscrizioni, sulla civiltà e la scrittura di questa popolazione; dalle statuette antropomorfe della cultura Olmeca, che tanto affascinarono anche i pittori Diego Rivera, la moglie Frida Kahlo e diversi artisti surrealisti (con la loro evidente deformazione cranica, elaborate acconciature e il corpo appena abbozzato) alle sculture Mezcala tanto enigmatiche nella loro semplicità quanto misteriose nelle origini, al punto che ne restarono profondamente suggestionati divenendone collezionisti anche André Breton, Paul Eluard e lo scultore Henry Moore.

E poi, sempre dal Messico, statuette policrome di ceramica cava della cultura di Chupicuaro, il cui apogeo si situa tra il 400 e il 100 a.C. - notevole esemplare in mostra la Grande Venere con la mani congiunte sul ventre - urne cinerarie (dal 200 a.C. al 200 d.C.) della cultura Zapoteca con effige spesso antropomorfa, sculture Azteche, esempi pregevoli delle Veneri ecuadoriane di Valdivia (la prima ceramica prodotta in SudAmerica nel III millennio a.C.), oggetti Inca, tessuti e vasi della regione di Nazca, manufatti dell’affascinante cultura Moche, straordinari oggetti in oro.

Si tratta in realtà di culture che in molta parte devono ancora essere e studiate e comprese: annientate, annichilite e ignorate per lunghi anni dopo la scoperta di quelle terre, da parte dei Conquistatores ammaliati solo dalle ricchezze materiali, autori di stragi e razzie.

L’oro, come quello dei Tairona (puro o in una lega con rame chiamata “tumbaga”) spingerà nelle Ande spagnoli ed avventurieri alla ricerca dell’“El Dorado”, uno dei grandi miti che alimentarono la Conquista.

In pochi decenni dall’arrivo di Colombo (nessuno degli oggetti da lui riportati si è conservato) le culture degli Aztechi e degli Inca saranno schiacciate con le armi e con la schiavitù e quella dei Taino praticamente annientata: già verso il 1530, secondo gli storici, non esisteva più un solo Taino vivente. Milioni di indio moriranno anche a causa delle malattie arrivate dal Vecchio Mondo. 
Dovranno passare almeno quattro secoli, prima che l’Europa prenda nuovamente coscienza della grandezza dell’arte dell’America antica e ancora oggi sfuggono molti aspetti di queste culture.

Tantissimi dunque gli spunti tematici che una mostra come questa suggerisce, mostrando i diversi aspetti della vita e della cultura sviluppatisi al di là degli Oceani, ma anche i “debiti”, in termini di nuove tradizioni e colture, che l’Europa avrà nei confronti del Nuovo Mondo: pensiamo ad alcuni alimenti (cacao, pomodori, patate) che sono arrivati per mediazione delle cucine della Corte spagnola nella tradizione alimentare italiana e anche veneta, ma anche al gioco con il pallone “di gomma” che scopriamo - grazie alle opere in mostra e alle raffigurazioni sul tema - essere profondamente e anticamente radicato nella civiltà e nella ritualità mesoamericana.

Quella sfera “misteriosa” stupì gli Europei quando, per la prima volta, videro esibirsi dei giocatori aztechi condotti da Cortés alla corte di Carlo V.

Particolare invece il riferimento al mais, che troviamo addirittura personificato in mostra e che sul finire del Cinquecento era riportato nell’edizione veneziana dell’opera del medico spagnolo Nicolás Monardes, dedicata alle piante medicinali americane.
Importato a Venezia dalla Spagna da Andrea Navagero alla fine degli anni ’20, il mais - che secondo Ramusio era coltivato nel Polesine sin dal 1554 - divenne l’ingrediente principale di polente preparate però ignorando le tecniche elaborate dagli indigeni americani (pur descritte dagli autori veneti) causando così la diffusione endemica della pellagra.

E se Venezia, pure estranea alla corsa al nuovo Continente, finì in realtà con il “conquistare” quelle terre grazie alla forza del proprio immaginario, al punto che nelle cronache del tempo tante città sull’acqua le furono paragonate o vennero chiamate da esploratori e conquistatori rifacendosi alla città veneta - in particolare la capitale azteca di Tenochtitlan fu spesso definita “un’altra Venezia” e raffigurata accanto ad essa - sarà la Serenissima uno dei principali centri propulsori di quella che potremmo definire come la “scoperta letteraria” delle Americhe -.

Gli stampatori veneziani furono infatti tra i principali protagonisti della rapida e massiccia diffusione europea delle notizie che giungevano dal Nuovo Mondo (Venezia venne superata solo da Parigi per numero di testi sulle Americhe pubblicati nel Cinquecento) e in alcuni casi i testi veneziani rappresentano le fonti più antiche, essendo andati perduti i relativi manoscritti.

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