Dal 16 giugno al 30 luglio in mostra all’Aria Art Gallery di Firenze
Toxic Cadmium, il lato oscuro del colore – Intervista a Tarik Berber
Tarik Berber nel suo studio
Francesca Grego
16/06/2017
Firenze - “Non ti ricordi com’è iniziata, ma sai che non puoi farne a meno”: è la risposta di Tarik Berber quando gli si chiede di raccontare le origini di un dipinto, o del suo percorso artistico tout court.
Sparsi per la stanza, rettangoli rosso intenso s’impongono agli occhi. Dal fondo di ogni quadro emergono i volumi di corpi eloquenti, pelli tessute di luce, sguardi che trafiggono anche quando sono volti altrove.
Dopo cinque anni a Londra, Berber torna a Firenze dal 16 giugno al 30 luglio con Toxic Cadmium, 39 nuove opere che non passano inosservate. A ospitarle, l’Aria Art Gallery, insolito giardino d’inverno costruito nel primo Novecento in uno storico spazio verde tra gli edifici rinascimentali di Borgo Santissimi Apostoli.
“Toxic Cadmium – spiega Tarik – è una serata finita male, l’istante esatto in cui la situazione sta per precipitare, un momento ambiguo, torbido, sensuale da cui ormai è impossibile tornare indietro. Ma è anche il rosso di cadmio, il colore proibito, ottenuto attraverso un pigmento di brillantezza impareggiabile, pericoloso e costosissimo.
In questa serie puoi trovare l’atleta annegata Samia Yusuf Omar, a cui ho dedicato un quadro intitolato Don’t tell me you’re afraid, storie alla Meredith Kercher e Amanda Knox, suggestioni dagli affreschi di Pompei, iconografie di Masaccio e Piero della Francesca, l’astrazione di Henry Moore o di Mark Rothko”.
Un interessante intreccio di epoche e stili. Che tipo di rapporto hai con la storia e con l’arte del passato?
“La storia dell’arte è il primo, grande amore, ma le ispirazioni sono sempre diverse, un po’ come scegliere il vestito da mettere in base all’umore con cui ti sei svegliato.
Se una volta il riferimento è all’Annunziata di Antonello da Messina, con la testa coperta dal velo azzurro e le mani di una santa, poco dopo posso pensare alle serie dei rossi di Rothko, con cui condivido la ricerca sulle vibrazioni del colore, la spinta a dargli vita nuova attraverso le sue stesse sfumature, indipendentemente dalle ovvie differenze tra un pittore figurativo e uno astratto.
Insomma, mi sembra naturale che in un dipinto si incrocino epoche diverse, che acquistano senso solo quando nella mia ricerca si trasformano in qualcosa di personale e contemporaneo”.
Tarik scarta i suoi quadri con cura quasi materna, la stessa impiegata per imballarli prima del viaggio da Londra a Firenze: “Anche impacchettare i quadri è un’arte”, dice.
Vederli rinascere sotto strati di tessuto, cartone e nastro adesivo è un momento epifanico, una rivelazione. Un dono.
Cosa vuol dire essere un pittore nel XXI secolo?
“Moltissimo. È assurdo quando qualcuno ti guarda con aria di sufficienza, come se la pittura fosse un relitto del passato, una pratica nostalgica con cui è impossibile fare ricerca.
Ho sperimentato altri linguaggi, come l’animazione, ma non credo che l’arte possa risolversi nel sollevare un pianoforte, lasciarlo sospeso e dire che è un’installazione.
Personalmente mi piace avere con gli strumenti del mio lavoro un rapporto da bottega, che privilegi la manualità. Per esempio preparare la colla di coniglio per trattare la tela o dipingere a pennello secco dopo aver completato perfettamente il disegno, come faceva Velàsquez.
Per i colori un mio grande riferimento è ancora Cennino Cennini, autore del primo trattato sulla pittura dell’arte italiana: quasi un manuale di alchimia, che oltre alle ricette fornisce indicazioni su dove reperire i pigmenti naturali per creare una buona tavolozza. Con ogni probabilità, la grotta toscana dove Cennini consigliava di raccogliere la polvere verde adatta alla pelle di un Cristo morente oggi non esiste più, ma quello che mi interessa è il metodo: i classici tubetti di colore non so nemmeno cosa siano”.
Tra la dimensione contemporanea di una metropoli come Londra, l’influsso rinascimentale di Firenze e l’ispirazione di artisti di ogni tempo, dove va la tua ricerca oggi?
“Impossibile dirlo! Non lavoro mai con una direzione predeterminata. Sicuramente è indispensabile mettermi in un mood introspettivo, attivare il flusso dei pensieri e lavorare su ciò che mi coinvolge e mi emoziona, perché solo così posso sperare di trasmettere qualcosa a chi guarderà i miei quadri.
Ogni volta è una scommessa a lungo termine: per questa mostra sono stati necessari due anni di lavoro quotidiano, una conversazione ininterrotta con me stesso. Senza nessuna certezza, perché quando prendi una strada non sai dove ti porterà e quando guardi indietro non sai nemmeno più da dove sei partito.
Toxic Cadmium, per esempio, nasce da una variazione sul tema di BeBop Diary, un altro progetto che presento in questa mostra: una serie di ritratti su legno a tempo di jazz, realizzati a partire dagli scarti di lavorazione del laboratorio di falegnameria che si trova accanto al mio studio.
La costante è la ricerca di una forma di poesia, di bellezza interiore e perciò misteriosa: una sfida alle nostre capacità di comprensione”.
Provieni da una famiglia di artisti, che peso ha avuto questo background nelle tue scelte e nella tua carriera?
Mio padre era architetto e pittore, mio zio Mersad Berber, un pittore molto noto in Bosnia, il mio paese d’origine. Sono cresciuto tra i pennelli, questo mi ha portato ad avvicinarmi alla pittura in modo molto naturale fin da bambino, ma è stata anche una sfida. Una volta ho disegnato la mia mano e l’ho mostrata a mio padre, che ha commentato: ‘Che bravo! Ora portamene altre cento’. Sul momento ci sono rimasto male, poi ne ho fatte altre cento davvero. E ho imparato tantissimo.”
Qual è il ruolo del visitatore nelle tue mostre?
Un quadro non finisce mai. Solo chi lo osserva può chiudere il cerchio. Alla fantasia di chi guarda spetta il compito di far luce nel mistero, districarsi tra spunti, indizi e storie possibili che sono nel dipinto ma non lo esauriscono.
Per questo scelgo l’incertezza dell’opera aperta, per dire allo spettatore: fermati e prendi tempo. Adesso sei tu a decidere”.
Vedi anche:
• FOTO: La vertigine rosso cadmio di Tarik Berber
• Arte.it arriva a Firenze con la mostra di Tarik Berber
• Le opere di Tarik Berber in mostra alla Darren Baker Gallery di Londra
• Toxic Cadmium
#tarikberber
#toxiccadmium
Media partner: ARTE.it
Sparsi per la stanza, rettangoli rosso intenso s’impongono agli occhi. Dal fondo di ogni quadro emergono i volumi di corpi eloquenti, pelli tessute di luce, sguardi che trafiggono anche quando sono volti altrove.
Dopo cinque anni a Londra, Berber torna a Firenze dal 16 giugno al 30 luglio con Toxic Cadmium, 39 nuove opere che non passano inosservate. A ospitarle, l’Aria Art Gallery, insolito giardino d’inverno costruito nel primo Novecento in uno storico spazio verde tra gli edifici rinascimentali di Borgo Santissimi Apostoli.
“Toxic Cadmium – spiega Tarik – è una serata finita male, l’istante esatto in cui la situazione sta per precipitare, un momento ambiguo, torbido, sensuale da cui ormai è impossibile tornare indietro. Ma è anche il rosso di cadmio, il colore proibito, ottenuto attraverso un pigmento di brillantezza impareggiabile, pericoloso e costosissimo.
In questa serie puoi trovare l’atleta annegata Samia Yusuf Omar, a cui ho dedicato un quadro intitolato Don’t tell me you’re afraid, storie alla Meredith Kercher e Amanda Knox, suggestioni dagli affreschi di Pompei, iconografie di Masaccio e Piero della Francesca, l’astrazione di Henry Moore o di Mark Rothko”.
Un interessante intreccio di epoche e stili. Che tipo di rapporto hai con la storia e con l’arte del passato?
“La storia dell’arte è il primo, grande amore, ma le ispirazioni sono sempre diverse, un po’ come scegliere il vestito da mettere in base all’umore con cui ti sei svegliato.
Se una volta il riferimento è all’Annunziata di Antonello da Messina, con la testa coperta dal velo azzurro e le mani di una santa, poco dopo posso pensare alle serie dei rossi di Rothko, con cui condivido la ricerca sulle vibrazioni del colore, la spinta a dargli vita nuova attraverso le sue stesse sfumature, indipendentemente dalle ovvie differenze tra un pittore figurativo e uno astratto.
Insomma, mi sembra naturale che in un dipinto si incrocino epoche diverse, che acquistano senso solo quando nella mia ricerca si trasformano in qualcosa di personale e contemporaneo”.
Tarik scarta i suoi quadri con cura quasi materna, la stessa impiegata per imballarli prima del viaggio da Londra a Firenze: “Anche impacchettare i quadri è un’arte”, dice.
Vederli rinascere sotto strati di tessuto, cartone e nastro adesivo è un momento epifanico, una rivelazione. Un dono.
Cosa vuol dire essere un pittore nel XXI secolo?
“Moltissimo. È assurdo quando qualcuno ti guarda con aria di sufficienza, come se la pittura fosse un relitto del passato, una pratica nostalgica con cui è impossibile fare ricerca.
Ho sperimentato altri linguaggi, come l’animazione, ma non credo che l’arte possa risolversi nel sollevare un pianoforte, lasciarlo sospeso e dire che è un’installazione.
Personalmente mi piace avere con gli strumenti del mio lavoro un rapporto da bottega, che privilegi la manualità. Per esempio preparare la colla di coniglio per trattare la tela o dipingere a pennello secco dopo aver completato perfettamente il disegno, come faceva Velàsquez.
Per i colori un mio grande riferimento è ancora Cennino Cennini, autore del primo trattato sulla pittura dell’arte italiana: quasi un manuale di alchimia, che oltre alle ricette fornisce indicazioni su dove reperire i pigmenti naturali per creare una buona tavolozza. Con ogni probabilità, la grotta toscana dove Cennini consigliava di raccogliere la polvere verde adatta alla pelle di un Cristo morente oggi non esiste più, ma quello che mi interessa è il metodo: i classici tubetti di colore non so nemmeno cosa siano”.
Tra la dimensione contemporanea di una metropoli come Londra, l’influsso rinascimentale di Firenze e l’ispirazione di artisti di ogni tempo, dove va la tua ricerca oggi?
“Impossibile dirlo! Non lavoro mai con una direzione predeterminata. Sicuramente è indispensabile mettermi in un mood introspettivo, attivare il flusso dei pensieri e lavorare su ciò che mi coinvolge e mi emoziona, perché solo così posso sperare di trasmettere qualcosa a chi guarderà i miei quadri.
Ogni volta è una scommessa a lungo termine: per questa mostra sono stati necessari due anni di lavoro quotidiano, una conversazione ininterrotta con me stesso. Senza nessuna certezza, perché quando prendi una strada non sai dove ti porterà e quando guardi indietro non sai nemmeno più da dove sei partito.
Toxic Cadmium, per esempio, nasce da una variazione sul tema di BeBop Diary, un altro progetto che presento in questa mostra: una serie di ritratti su legno a tempo di jazz, realizzati a partire dagli scarti di lavorazione del laboratorio di falegnameria che si trova accanto al mio studio.
La costante è la ricerca di una forma di poesia, di bellezza interiore e perciò misteriosa: una sfida alle nostre capacità di comprensione”.
Provieni da una famiglia di artisti, che peso ha avuto questo background nelle tue scelte e nella tua carriera?
Mio padre era architetto e pittore, mio zio Mersad Berber, un pittore molto noto in Bosnia, il mio paese d’origine. Sono cresciuto tra i pennelli, questo mi ha portato ad avvicinarmi alla pittura in modo molto naturale fin da bambino, ma è stata anche una sfida. Una volta ho disegnato la mia mano e l’ho mostrata a mio padre, che ha commentato: ‘Che bravo! Ora portamene altre cento’. Sul momento ci sono rimasto male, poi ne ho fatte altre cento davvero. E ho imparato tantissimo.”
Qual è il ruolo del visitatore nelle tue mostre?
Un quadro non finisce mai. Solo chi lo osserva può chiudere il cerchio. Alla fantasia di chi guarda spetta il compito di far luce nel mistero, districarsi tra spunti, indizi e storie possibili che sono nel dipinto ma non lo esauriscono.
Per questo scelgo l’incertezza dell’opera aperta, per dire allo spettatore: fermati e prendi tempo. Adesso sei tu a decidere”.
Vedi anche:
• FOTO: La vertigine rosso cadmio di Tarik Berber
• Arte.it arriva a Firenze con la mostra di Tarik Berber
• Le opere di Tarik Berber in mostra alla Darren Baker Gallery di Londra
• Toxic Cadmium
#tarikberber
#toxiccadmium
Media partner: ARTE.it
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