Aspettando “Gauguin a Tahiti. Il Paradiso Perduto”, al cinema dal 25 al 27 marzo
Come un romanzo: in viaggio sulle orme di Gauguin
Paul Gauguin, Autoritratto, 1889, National Gallery of Art, Washington
Francesca Grego
11/03/2019
Sembra un libro di avventura, invece è la vita di uno dei più grandi artisti di sempre. Dal 25 al 27 marzo Gauguin a Tahiti. Il Paradiso Perduto porterà sul grande schermo il viaggio esistenziale del pittore francese, tra dipinti che sembrano visioni, contributi di autorevoli studiosi e sorprendenti testimonianze dei suoi discendenti polinesiani, una dei quali - incredibile ma vero - fa conoscenza con i capolavori dell’antenato proprio in occasione del docufilm.
Accompagnati dalla voce di Adriano Giannini, torneremo sulle orme del maestro post-impressionista, dalla nascita a Parigi alle peregrinazioni verso cui lo spinse uno spirito inquieto, a vantaggio di chi oggi si perde nei suoi sogni tra le sale dei più grandi musei del mondo.
Ma chi era Paul Gauguin? Quali corrispondenze legano una pittura dal fascino innegabile alle vicende di un uomo fuori dal comune? In attesa di scoprirlo nel film prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital con il sostegno di Intesa Sanpaolo, per la regia di Claudio Poli su soggetto di Marco Goldin e Matteo Moneta, ci gettiamo sulle tracce dell’artista per ripercorrerne storia e leggenda.
Può sembrare strano, ma l’amore tra Paul Gauguin e l’arte scoppia relativamente tardi, dopo i 30 anni. Prima di allora è un giovane inquieto, refrattario agli studi, incerto su che fare di se stesso. Ha girato il mondo imbarcandosi come marinaio, si è arricchito lavorando per 11 anni alla Borsa di Parigi, ha vissuto come un buon borghese accanto alla moglie Mette Gad, che gli ha dato cinque figli.
Ma non può bastargli, perché il viaggio e un certo istinto alla ribellione sono quasi scritti nel suo DNA.
La madre Aline Marie Chazal discende da una prestigiosa famiglia spagnola con diramazioni in Perù, la nonna Flora Tristan è stata una scrittrice controcorrente - di idee socialiste, femminista ante litteram e sostenitrice del libero amore - mentre il padre, Clovis Gauguin, è un giornalista dal solido credo repubblicano in attrito con il regime di Napoleone III. Nato a Parigi, il piccolo Paul viene portato a Lima a soli 14 mesi, dove trascorrerà l’infanzia tra tate meticce, domestiche cinesi e colori tropicali: in seguito sosterrà con fermezza la propria parentela con gli Aztechi. Tornare in Francia non sarà indolore: se all’inizio i compagni lo derideranno per il suo accento spagnolo, anche da uomo si sentirà sempre fuori posto tra le costrizioni della civiltà.
La capitale francese vive un’epoca di grande fermento: la rete elettrica, nuovi monumenti, parchi e boulevard la trasformano in una metropoli moderna, mentre nell’arte decolla la grande stagione dell’Impressionismo. Gauguin entra in contatto con gli ultimi ritrovati della pittura grazie all’ex compagno della madre, Gustave Arosa, che colleziona opere di Corot, Courbet, Pissarro. E sarà proprio Camille Pissarro a iniziarlo ai segreti della pittura della luce, che lo avvicinerà poi a Cézanne e Degas.
Da passatempo domenicale, dipingere diventa presto una passione dirompente. Complice la crisi della borsa, Paul lascia il suo impiego per dedicare ogni energia a tele e pennelli, nonostante l’opposizione della moglie, che tornerà nella natìa Danimarca. Il 1881 segna il suo primo successo: quando espone il quadro Suzanne che cuce in una mostra impressionista, l’influente scrittore Joris-Karl Huysmans gli riconosce “un indiscutibile temperamento di pittore moderno”.
Ma Paul è diverso da tutti gli altri. Il richiamo dell’altrove che si porta dentro dalla nascita lo spinge a cercare lontano la propria essenza, nell’ambizioso tentativo di risalire delle origini dell’arte e dell’umanità: prima nella selvaggia Bretagna, dove sopravvivono riti e tradizioni risalenti ai celti, poi nella luce caraibica della Martinica e, infine, nella leggendaria Tahiti, che conosce attraverso a un libro di Pierre Loti - Il matrimonio a Tahiti - consigliatogli da un altro grande del suo tempo, Vincent Van Gogh.
Gauguin incrocia la strada del pittore olandese a Parigi, ma sarà ad Arles, in Provenza, che si consumerà la loro tumultuosa amicizia. Forti incompatibilità caratteriali e differenti vedute artistiche faranno naufragare il sogno dell’Atelier du Midi, con cui Van Gogh sperava di dare il via, insieme, a un nuovo corso della pittura. Mentre l’amico si taglia un orecchio e dipinge sconsolato la sua sedia vuota, Gauguin fugge alla volta dell’Oceania. Due mesi di navigazione lo separano da una terra a cui legherà indissolubilmente il proprio nome.
Intanto la sua arte è andata ben oltre la fascinazione impressionista degli esordi: “stiamo torturando l’Impressionismo”, ha scritto in una lettera dalla Bretagna. Colori piatti e assenza di profondità hanno segnato il distacco dalla rappresentazione naturalistica della realtà, mentre l’influenza delle stampe giapponesi, il cloisonnisme delle vetrate medievali e una serie di suggestioni arcaiche - dai mostri scolpiti nelle chiese bretoni agli oggetti esotici ammirati nelle Esposizioni Universali - si sono fuse in un’arte nuova e primordiale al tempo stesso. Capolavori come Il Cristo giallo, La visione dopo il sermone e La belle Angéle sono esempi lampanti di questa fase.
Ma il meglio deve ancora venire: “Credo che la mia arte, che voi ammirate tanto, non sia che un germoglio e credo di poterla coltivare laggiù per me stesso allo stato primitivo e selvaggio”, scrive Gauguin all’amico simbolista Odilon Redon, che cerca di dissuaderlo dal partire.
A Tahiti arriva grazie al sostegno economico dell’odiato governo francese, con l’incarico di “fissare il carattere e la luce della regione” in una sorta di reportage pittorico: una delle tante iniziative volte a nobilitare con intenti culturali l’immagine del colonialismo. Una volta sbarcato, il disgusto per le conseguenze della presenza francese lo assale: impossibile non notare la repressione dei costumi locali, la diffusione violenta del cattolicesimo, l’ipocrisia di missionari e funzionari. Dalla capitale Papeete la ricerca di una dimensione più autentico lo spinge nel remoto villaggio di Mataiea, che descriverà tra biografia e romanzo nel libro Noa Noa.
Qui vive in una capanna di bambù di fronte all’Oceano e si immerge nella società indigena con la compagna tredicenne Tehamana: ispirato dalla natura rigogliosa, da una dimensione fisica dell’esistenza, dai gesti “antichi e solenni” delle donne dipinge una sfilza di capolavori iconici, nessuno dei quali è rimasto sull’isola. “La civiltà mi sta abbandonando”, scrive, ma non può cancellare la sua forma mentis di uomo e artista occidentale: solo per fare qualche esempio, se Ia Orana Maria - oggi al Metropolitan Museum di New York - riunisce immagini esotiche e topos cristiani, Manao tupapau – Lo spirito dei morti veglia, fiore all’occhiello dell’Albright-Knox Art Gallery di Buffalo, mette in scena il terrore dei polinesiani per i fantasmi in una rappresentazione che per molti aspetti ricorda l’Olympia di Manet.
Da quel geniale colorista qual è, Gauguin trova nella luce di Tahiti il proprio elemento naturale: colori saturi e brillanti, contrasti tra tonalità calde e fredde donano ai suoi quadri un’energia senza precedenti. Donne quiete e sensuali rinnovano il mito di Eva, mentre l’Eden primigenio torna a vivere in un giardino di fiori e piante tropicali: miracoli di un eccezionale alchimista, capace di trasformare la realtà coloniale in un paradiso perfetto di pace e felicità.
Tuttavia, se guardiamo oltre i dipinti, la sua versione mostra più di una crepa: alle difficoltà economiche che tornano periodicamente a tormentarlo si aggiungono presto i disagi della sifilide, eredità del passato in Europa. Così il pittore torna in Francia per curarsi e vendere i suoi quadri. A Parigi allestisce un atelier con statuette maori, stoffe polinesiane, arredi esotici e un pappagallo: l’esperienza di eccentrico artista in viaggio diventa una strategia per attrarre l’attenzione dei critici e del pubblico. In giro con una scimmietta e con la nuova giovanissima amante indonesiana non passa certo inosservato: in Bretagna lo scandalo sfocia in una rissa e Gauguin finisce in ospedale. Annah la Giavanese approfitta dell’assenza del compagno per fuggire con i suoi soldi.
Anche lultima vendita dei quadri non dà i risultati sperati e Gauguin “piange come un bambino”. Nulla lo trattiene in Francia: ripartirà per la Polinesia dove, nonostante la salute sempre più malferma, continuerà a vivere con le sue spose bambine, a creare quadri di straordinaria potenza, a lottare con sempre maggiore vis polemica contro la Chiesa e l’oppressione coloniale accattivandosi le simpatie degli indigeni. Perfino il tentativo di suicidio del 1897, causato dai debiti e dalla morte della figlia Aline per una polmonite, si rivela un’occasione per ricominciare più battagliero che mai: realizza in questo periodo un’impressionante mole di opere, tra cui l’immensa tela Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, oggi tra i capolavori del Museum of Fine Arts di Boston.
Dei suoi ultimi anni di vita, trascorsi a Hiva Oa nelle Isole Marchesi, è anche la Maison du Jouir, di cui si possono ammirare i pannelli decorativi al Musée d’Orsay di Parigi: una casa-atelier dedicata provocatoriamente ai piaceri dei sensi, che l’artista costruisce e adorna con le proprie mani da cima a fondo con statue ispirate all’arte locale, incisioni, quadri coloratissimi, riproduzioni di capolavori dell’arte europea, giapponese ed egiziana, fregi ispirati al Partenone e al tempio indonesiano di Borobudur. Una testimonianza della creatività poliedrica e sfaccettata di Gauguin, capace di esprimersi sulla tela in ceramiche, sculture, stampe e disegni con la medesima passione e abilità.
La morte per sifilide lo coglie a 55 anni. Un amico gli ha sconsigliato di tornare ancora una volta a curarsi in Europa: lì è già passato alla storia come pioniere di un’arte altra e la sua presenza fisica di malato ne distruggerebbe il mito. Quantomeno evita di finire in prigione: ha accusato di traffico di schiavi un gendarme francese e sulla sua testa pende una condanna per calunnia e sovversione.
Ritenute oscene e blasfeme, molte delle sue opere vengono bruciate per volere del vescovo Rogatien-Joseph Martin, che per ironia della sorte riposa a pochi passi dalla tomba del pittore, nel cimitero della missione che intravediamo nella tela Donne e cavallo bianco.
Ma a inseguire il sogno di Gauguin, rielaborandolo ciascuno a modo proprio, restano schiere di artisti: dai Simbolisti ai sostenitori dell’Art Nouveau, dagli Espressionisti ai Fauves, fino a Picasso.
Leggi anche:
• Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto - La nostra recensione
• Matteo Moneta e Claudio Poli raccontano il loro Paul Gauguin, tra sogno e disincanto
• FOTO - Il Paradiso Perduto di Gauguin
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Accompagnati dalla voce di Adriano Giannini, torneremo sulle orme del maestro post-impressionista, dalla nascita a Parigi alle peregrinazioni verso cui lo spinse uno spirito inquieto, a vantaggio di chi oggi si perde nei suoi sogni tra le sale dei più grandi musei del mondo.
Ma chi era Paul Gauguin? Quali corrispondenze legano una pittura dal fascino innegabile alle vicende di un uomo fuori dal comune? In attesa di scoprirlo nel film prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital con il sostegno di Intesa Sanpaolo, per la regia di Claudio Poli su soggetto di Marco Goldin e Matteo Moneta, ci gettiamo sulle tracce dell’artista per ripercorrerne storia e leggenda.
Può sembrare strano, ma l’amore tra Paul Gauguin e l’arte scoppia relativamente tardi, dopo i 30 anni. Prima di allora è un giovane inquieto, refrattario agli studi, incerto su che fare di se stesso. Ha girato il mondo imbarcandosi come marinaio, si è arricchito lavorando per 11 anni alla Borsa di Parigi, ha vissuto come un buon borghese accanto alla moglie Mette Gad, che gli ha dato cinque figli.
Ma non può bastargli, perché il viaggio e un certo istinto alla ribellione sono quasi scritti nel suo DNA.
La madre Aline Marie Chazal discende da una prestigiosa famiglia spagnola con diramazioni in Perù, la nonna Flora Tristan è stata una scrittrice controcorrente - di idee socialiste, femminista ante litteram e sostenitrice del libero amore - mentre il padre, Clovis Gauguin, è un giornalista dal solido credo repubblicano in attrito con il regime di Napoleone III. Nato a Parigi, il piccolo Paul viene portato a Lima a soli 14 mesi, dove trascorrerà l’infanzia tra tate meticce, domestiche cinesi e colori tropicali: in seguito sosterrà con fermezza la propria parentela con gli Aztechi. Tornare in Francia non sarà indolore: se all’inizio i compagni lo derideranno per il suo accento spagnolo, anche da uomo si sentirà sempre fuori posto tra le costrizioni della civiltà.
La capitale francese vive un’epoca di grande fermento: la rete elettrica, nuovi monumenti, parchi e boulevard la trasformano in una metropoli moderna, mentre nell’arte decolla la grande stagione dell’Impressionismo. Gauguin entra in contatto con gli ultimi ritrovati della pittura grazie all’ex compagno della madre, Gustave Arosa, che colleziona opere di Corot, Courbet, Pissarro. E sarà proprio Camille Pissarro a iniziarlo ai segreti della pittura della luce, che lo avvicinerà poi a Cézanne e Degas.
Da passatempo domenicale, dipingere diventa presto una passione dirompente. Complice la crisi della borsa, Paul lascia il suo impiego per dedicare ogni energia a tele e pennelli, nonostante l’opposizione della moglie, che tornerà nella natìa Danimarca. Il 1881 segna il suo primo successo: quando espone il quadro Suzanne che cuce in una mostra impressionista, l’influente scrittore Joris-Karl Huysmans gli riconosce “un indiscutibile temperamento di pittore moderno”.
Ma Paul è diverso da tutti gli altri. Il richiamo dell’altrove che si porta dentro dalla nascita lo spinge a cercare lontano la propria essenza, nell’ambizioso tentativo di risalire delle origini dell’arte e dell’umanità: prima nella selvaggia Bretagna, dove sopravvivono riti e tradizioni risalenti ai celti, poi nella luce caraibica della Martinica e, infine, nella leggendaria Tahiti, che conosce attraverso a un libro di Pierre Loti - Il matrimonio a Tahiti - consigliatogli da un altro grande del suo tempo, Vincent Van Gogh.
Gauguin incrocia la strada del pittore olandese a Parigi, ma sarà ad Arles, in Provenza, che si consumerà la loro tumultuosa amicizia. Forti incompatibilità caratteriali e differenti vedute artistiche faranno naufragare il sogno dell’Atelier du Midi, con cui Van Gogh sperava di dare il via, insieme, a un nuovo corso della pittura. Mentre l’amico si taglia un orecchio e dipinge sconsolato la sua sedia vuota, Gauguin fugge alla volta dell’Oceania. Due mesi di navigazione lo separano da una terra a cui legherà indissolubilmente il proprio nome.
Intanto la sua arte è andata ben oltre la fascinazione impressionista degli esordi: “stiamo torturando l’Impressionismo”, ha scritto in una lettera dalla Bretagna. Colori piatti e assenza di profondità hanno segnato il distacco dalla rappresentazione naturalistica della realtà, mentre l’influenza delle stampe giapponesi, il cloisonnisme delle vetrate medievali e una serie di suggestioni arcaiche - dai mostri scolpiti nelle chiese bretoni agli oggetti esotici ammirati nelle Esposizioni Universali - si sono fuse in un’arte nuova e primordiale al tempo stesso. Capolavori come Il Cristo giallo, La visione dopo il sermone e La belle Angéle sono esempi lampanti di questa fase.
Ma il meglio deve ancora venire: “Credo che la mia arte, che voi ammirate tanto, non sia che un germoglio e credo di poterla coltivare laggiù per me stesso allo stato primitivo e selvaggio”, scrive Gauguin all’amico simbolista Odilon Redon, che cerca di dissuaderlo dal partire.
A Tahiti arriva grazie al sostegno economico dell’odiato governo francese, con l’incarico di “fissare il carattere e la luce della regione” in una sorta di reportage pittorico: una delle tante iniziative volte a nobilitare con intenti culturali l’immagine del colonialismo. Una volta sbarcato, il disgusto per le conseguenze della presenza francese lo assale: impossibile non notare la repressione dei costumi locali, la diffusione violenta del cattolicesimo, l’ipocrisia di missionari e funzionari. Dalla capitale Papeete la ricerca di una dimensione più autentico lo spinge nel remoto villaggio di Mataiea, che descriverà tra biografia e romanzo nel libro Noa Noa.
Qui vive in una capanna di bambù di fronte all’Oceano e si immerge nella società indigena con la compagna tredicenne Tehamana: ispirato dalla natura rigogliosa, da una dimensione fisica dell’esistenza, dai gesti “antichi e solenni” delle donne dipinge una sfilza di capolavori iconici, nessuno dei quali è rimasto sull’isola. “La civiltà mi sta abbandonando”, scrive, ma non può cancellare la sua forma mentis di uomo e artista occidentale: solo per fare qualche esempio, se Ia Orana Maria - oggi al Metropolitan Museum di New York - riunisce immagini esotiche e topos cristiani, Manao tupapau – Lo spirito dei morti veglia, fiore all’occhiello dell’Albright-Knox Art Gallery di Buffalo, mette in scena il terrore dei polinesiani per i fantasmi in una rappresentazione che per molti aspetti ricorda l’Olympia di Manet.
Da quel geniale colorista qual è, Gauguin trova nella luce di Tahiti il proprio elemento naturale: colori saturi e brillanti, contrasti tra tonalità calde e fredde donano ai suoi quadri un’energia senza precedenti. Donne quiete e sensuali rinnovano il mito di Eva, mentre l’Eden primigenio torna a vivere in un giardino di fiori e piante tropicali: miracoli di un eccezionale alchimista, capace di trasformare la realtà coloniale in un paradiso perfetto di pace e felicità.
Tuttavia, se guardiamo oltre i dipinti, la sua versione mostra più di una crepa: alle difficoltà economiche che tornano periodicamente a tormentarlo si aggiungono presto i disagi della sifilide, eredità del passato in Europa. Così il pittore torna in Francia per curarsi e vendere i suoi quadri. A Parigi allestisce un atelier con statuette maori, stoffe polinesiane, arredi esotici e un pappagallo: l’esperienza di eccentrico artista in viaggio diventa una strategia per attrarre l’attenzione dei critici e del pubblico. In giro con una scimmietta e con la nuova giovanissima amante indonesiana non passa certo inosservato: in Bretagna lo scandalo sfocia in una rissa e Gauguin finisce in ospedale. Annah la Giavanese approfitta dell’assenza del compagno per fuggire con i suoi soldi.
Anche lultima vendita dei quadri non dà i risultati sperati e Gauguin “piange come un bambino”. Nulla lo trattiene in Francia: ripartirà per la Polinesia dove, nonostante la salute sempre più malferma, continuerà a vivere con le sue spose bambine, a creare quadri di straordinaria potenza, a lottare con sempre maggiore vis polemica contro la Chiesa e l’oppressione coloniale accattivandosi le simpatie degli indigeni. Perfino il tentativo di suicidio del 1897, causato dai debiti e dalla morte della figlia Aline per una polmonite, si rivela un’occasione per ricominciare più battagliero che mai: realizza in questo periodo un’impressionante mole di opere, tra cui l’immensa tela Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, oggi tra i capolavori del Museum of Fine Arts di Boston.
Dei suoi ultimi anni di vita, trascorsi a Hiva Oa nelle Isole Marchesi, è anche la Maison du Jouir, di cui si possono ammirare i pannelli decorativi al Musée d’Orsay di Parigi: una casa-atelier dedicata provocatoriamente ai piaceri dei sensi, che l’artista costruisce e adorna con le proprie mani da cima a fondo con statue ispirate all’arte locale, incisioni, quadri coloratissimi, riproduzioni di capolavori dell’arte europea, giapponese ed egiziana, fregi ispirati al Partenone e al tempio indonesiano di Borobudur. Una testimonianza della creatività poliedrica e sfaccettata di Gauguin, capace di esprimersi sulla tela in ceramiche, sculture, stampe e disegni con la medesima passione e abilità.
La morte per sifilide lo coglie a 55 anni. Un amico gli ha sconsigliato di tornare ancora una volta a curarsi in Europa: lì è già passato alla storia come pioniere di un’arte altra e la sua presenza fisica di malato ne distruggerebbe il mito. Quantomeno evita di finire in prigione: ha accusato di traffico di schiavi un gendarme francese e sulla sua testa pende una condanna per calunnia e sovversione.
Ritenute oscene e blasfeme, molte delle sue opere vengono bruciate per volere del vescovo Rogatien-Joseph Martin, che per ironia della sorte riposa a pochi passi dalla tomba del pittore, nel cimitero della missione che intravediamo nella tela Donne e cavallo bianco.
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