Il film “Hitler contro Picasso e gli altri” sarà al cinema il 13 e 14 marzo
Il lato oscuro della storia – L’Arte Pura del Reich
Adolf Ziegler, I quattro elementi: Fuoco, Terra e Acqua, Aria, 1937, Monaco di Baviera, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Pinakothek der Moderne.
Francesca Grego
21/02/2018
“L’arte deve proclamare imponenza e bellezza, rappresentare purezza e benessere. Fino all’ascesa al potere del Nazionalsocialismo c’era in Germania un’arte cosiddetta ‘moderna’, cioè, com’è appunto nell’essenza di questa parola, ogni anno un’arte diversa. Ma la Germania nazionalsocialista vuole di nuovo un’arte ‘tedesca’, ed essa deve essere e sarà, come tutti i valori creativi di un popolo, un’arte eterna”.
Così si esprimeva Adolf Hitler nel 1935 durante il Congresso della Cultura. Per avere un esempio concreto, basta visitare la collezione della Pinakothek der Moderne di Monaco di Baviera: paesaggi invernali, scene bucoliche, nudi improntati a un’ideale di perfezione classica dominano la scena. Nulla a che vedere con le ricerche rivoluzionarie delle avanguardie che oggi rappresentano lo spirito del Novecento.
Grande Rassegna di Arte Germanica, Monaco di Baviera, 1937 | Courtesy of © Nexo Digital
Il dipinto più noto è certamente I Quattro Elementi di Adolf Ziegler, un’icona che all’epoca circolò attraverso giornali e cartoline illustrate e che, in versione originale, campeggiava sul caminetto della residenza del Fürher a Monaco. Sulla tela quattro nudi scultorei sono le allegorie degli elementi primigeni, ma anche l’incarnazione degli ideali di razza e femminilità del regime, sacralizzati attraverso la forma cristiana del trittico.
Amico, consigliere e pittore preferito di Hitler, Ziegler presiedette la Camera delle Belle Arti del Reich, impegnandosi a fondo nella censura e nella propaganda contro le avanguardie e i loro esponenti. Se già tra i contemporanei era conosciuto con l’ironico soprannome di “maestro del pelo pubico tedesco”, nel dopoguerra fu colpito da un pesante marchio d’infamia insieme al suo capolavoro, che subì il sequestro degli Alleati.
Sebbene, come scrivono i curatori del museo, il quadro appartenga “a un capitolo della storia dell’arte del XX secolo che non può più essere ignorato, soppresso o demonizzato” e insieme alle altre opere esposte alimenti “la discussione su cosa sia esattamente l’arte moderna, chi la definisca e quali siano i suoi confini”, i successivi sviluppi della ricerca artistica novecentesca sembrano indicare che, anche in campo estetico, il Fürher abbia perso la sua scommessa con l’eternità.
Ma le politiche culturali del Nazionalsocialismo, finora in secondo piano di fronte alle atrocità perpetrate in altri settori, sono di nuovo sotto le luci della ribalta.
Il clamoroso ritrovamento nel 2011 in un appartamento di Monaco di 1500 opere di altissimo valore sottratte dal regime a musei e collezionisti privati ha fornito lo spunto per risalire la china del tempo e dipanarne i fili rimasti nell’ombra: il 13 e il 14 marzo il documentario di Claudio Poli Hitler contro Picasso e gli altri. L'Ossessione Nazista per l'Arte , prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital, racconterà al pubblico cinematografico italiano il rapporto ossessivo dei nazisti con l’arte attraverso documenti originali, immagini d’epoca, contributi critici e testimonianze dei discendenti di chi visse in prima persona questa pagina oscura della storia occidentale.
L’ARTE PURA DEL NAZIONALSOCIALISMO
Se Espressionismo, Bauhaus, Blaue Reiter, Dadaismo, Nuova Oggettività, Cubismo, Surrealismo sono banditi con violenza dal Reich sotto l’etichetta di “Entartete Kunst” (Arte Degenerata), quali sono i confini entro i quali un artista può muoversi negli anni del Nazionalsocialismo?
In verità sono piuttosto angusti. Da ex pittore Hitler è ben consapevole dell’importanza dell’arte come strumento di dominio delle coscienze.
Un popolo è egemone rispetto agli altri quando impone il proprio modo di vedere e rappresentare la realtà: perciò bando a ogni dubbio cervellotico o deformazione decadente “di stampo semita”, a “bevitori d’assenzio e giocatori di roulette” e via libera alla celebrazione del paesaggio della campagna tedesca, a corpi splendenti e ben irrorati di sangue, in cui le proporzioni classiche si innestano su fisionomie nordiche. A volti e figure contadine, fanciulle e madri in salute pronte a donare i propri figli alla nazione, soldati eroici, famiglie etnicamente omogenee, uomini intenti a “mestieri naturali” - pastori, boscaioli, cacciatori - o industriali, riscattati dalla condizione di proletari dall’appartenenza alla razza ariana e dal lavoro per il trionfo di una civiltà schiettamente superiore. Tutto ciò che glorifica la patria e le tradizioni è benvenuto.
Poiché la forma deve coincidere con il contenuto e l’arte ha il compito di servire la verità, l’unico linguaggio consentito è quello della figurazione realista, aperta a metafore mitologiche e iconografie classicheggianti.
Una novità radicale? Non del tutto: già nel primo dopoguerra il “ritorno all’ordine” era nell’aria, promosso in Germania dall’ala classicista della Nuova Oggettività, che a sua volta si ispirava al movimento italiano Valori Plastici. Una reazione alle spericolate sperimentazioni delle avanguardie, destinata anch’essa, tuttavia, a cadere nelle maglie della censura nazista.
Nella visione ideologica del regime la secolare passione dei tedeschi per la classicità si salda con lo “spirito del popolo” di matrice romantica e va a incarnare l’ideale di un’arte fuori dal tempo caro al Fürher. Non solo: come le scene di caccia, il richiamo agli splendori dell’antico - per i quali il collezionista Hitler fece follie - colma il desiderio di nobiltà dei nazisti, quasi tutti di estrazione borghese e affascinati dal mito dell’aristocrazia.
Ma il Nazionalsocialismo non si limita a enunciare teorie: alla figura del critico si sostituisce quella del “redattore d’arte”, una figura che, afferma il ministro della propaganda Joseph Goebbels, “richiede tatto, cultura, adeguato animo e rispetto per le direttive artistiche” del regime. I suoi resoconti sono “più una descrizione che un’interpretazione, quindi un omaggio” e la sua carica è subordinata ad autorizzazioni particolari.
Gli artisti e i direttori dei musei diventano sorvegliati speciali, le collezioni sono epurate dalle opere non conformi ai dettami governativi, ai mercanti d’arte - molti dei quali di origine ebraica - vengono confiscati migliaia di quadri e sculture, che vanno incontro a roghi esemplari o sono venduti a beneficio delle casse del Reich.
STORIE DI ARTISTI SOTTO IL REGIME
La Camera della Cultura del Reich, emanazione del ministero presieduto da Goebbels, stabilisce senza appello quali artisti possano lavorare e quali opere possano essere mostrate in pubblico.
Perfino Emil Nolde, membro del Partito nonché dichiaratamente xenofobo e antisemita, è interdetto dall’esercizio dell’insegnamento e della pittura a causa della “militanza” espressionista. Gli è proibito anche tenere in casa l’occorrente per dipingere. Così, per non essere tradito dall’odore dei colori a olio in caso di visite della Gestapo, ripiega sugli acquerelli che usa chiamare “quadri non dipinti”.
Per continuare a lavorare molti artisti fuggono all’estero, alcuni si rifugiano in campagna, come Otto Dix, che sul Lago di Costanza abbandona i soggetti graffianti e antiborghesi per la pittura di paesaggio.
Per chi resta, portare avanti una ricerca autonoma è una sfida ardua e l’imprevisto è sempre dietro l’angolo. Nel valutare l’operato degli artisti, scrivono i curatori della Pinakothek di Monaco, “è difficile tracciare una netta linea di demarcazione tra opportunismo, lealtà verso tradizione, escapismo e critica”.
Il contesto, al di là di una programmatica rimozione del dubbio, è dominato da ambivalenze e contraddizioni. A partire dallo stesso Goebbels, inizialmente appassionato estimatore dell’arte moderna, poi suo ferocissimo persecutore e collezionista in gran segreto.
Un pittore contro come Max Beckmann, d’altra parte, fu subito censurato come artista degenerato, ma i suoi quadri restarono appesi nei salotti buoni di Berlino, frequentati dagli alti ranghi del Partito.
Georg Schrimpf, Natura morta con gatto, Pinakothek der Modern, Monaco di Baviera
I casi di Georg Schrimpf e Günther Grassmann, entrambi nella collezione della Pinakothek der Modern di Monaco di Baviera, sono emblematici della confusione, delle strumentalizzazioni e delle pressioni che condizionarono carriere ed esistenze.
Il primo, appartenente all’ala classicista della Nuova Oggettività, pur avendo un passato anarchico fu amato dal regime e additato come esempio: i suoi paesaggi sobri, realizzati con linguaggio pittorico tradizionale ma almeno in origine senza risvolti ideologici, furono esaltati come esempi dell’estetica del Reich. Schrimpf fu ricompensato con un incarico al Collegio d’Arte di Schöneberg a Berlino, per essere esautorato quando i suoi trascorsi divennero palesi.
La storia della Fattoria di Chiemgau di Grassmann, invece, mostra come la stessa opera possa essere stata prima un’importante acquisizione delle Collezioni Statali di Pittura bavaresi e poi un ripugnante esempio di Arte Degenerata, per vedere il proprio status mutare ancora qualche anno più tardi.
A far cambiare idea ai funzionari nazisti fu in prima istanza una protesta di Grassmann durante un discorso dello storico dell’arte di regime Paul Schultze-Naumburg.
Ma poco dopo il pittore fu assoldato insieme a un gruppo di artisti “degenerati” per decorare le caserme bavaresi e la piscina Nordbad di Monaco. Grazie a questi lavori, Grassmann fu riconosciuto come “uno dei migliori pittori di affreschi monumentali” del Reich e in seguito divenne direttore della Stadel School di Francoforte, nonché, naturalmente, membro del Partito.
LA GRANDE RASSEGNA DI ARTE GERMANICA DEL '37
Per celebrare i traguardi estetici del Nazionalsocialismo, nel 1937 fu allestita a Monaco di Baviera la prima Grande Rassegna di Arte Germanica: una pomposa riunione di nudi asettici e dipinti di genere dallo stile un po' antiquato, in cui le opere intrinsecamente "naziste" sono una minoranza. La differenza sta nelle didascalie: una famiglia diventa "una famiglia tedesca", un paesaggio è necessariamente "germanico".
Nel film di Poli, lo storico Olaf Peters racconta che quando Hitler vide in anteprima il corpus selezionato per l’allestimento ne rimase profondamente deluso. Fu Goebbels a placarne l’ira con una proposta inattesa: affiancare alla mostra un’esposizione che ne rappresentasse la controparte negativa, un evento “educativo” costruito apposta per mettere in ridicolo le “mostruosità” dell’Arte Degenerata.
Nonostante le opere fossero disposte in maniera caotica, accompagnate da scritte oltraggiose e accostate a realizzazioni di pazienti psichiatrici, Entartete Kunst riscosse un successo eclatante che, con tre milioni di visitatori in quattro anni e in 12 città diverse, rischiò di mettere in ombra la rassegna ufficiale. Tra i protagonisti, Max Beckmann, Paul Klee, Marc Chagall, Otto Dix, Vasilij Kandinskij, George Grosz, Ernst Ludwig Kirchner, Franz Marc, Edvard Munch, Franz Marc, Oskar Kokoschka, Kurt Schwitters, Vincent van Gogh.
Ma c’è un nome che compare in entrambi gli elenchi, in un ultimo, eloquente paradosso: quello dello scultore Rudolf Belling, presente all’esposizione dell’Arte Degenerata con le opere espressioniste La Triade e La Testa e nella Rassegna di Arte Germanica con Der Boxer, il busto del pugile tedesco Max Schmeling, che da poco aveva messo KO il “bombardiere nero” americano Joe Louis diventando l’eroe della razza ariana.
L’imbarazzo fu risolto rimuovendo le sculture di Belling dalla selezione dell’Entartete Kunst. Il bronzo di Schmeling continuò a troneggiare come un dio greco nella Casa dell’Arte Tedesca appena inaugurata, mentre la figura di un versatile sperimentatore come Belling, esule prima in America, poi in Turchia, di idee politiche liberali e padre di un ragazzo ebreo, si appiattiva in mezzo a un tripudio di svastiche.
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Così si esprimeva Adolf Hitler nel 1935 durante il Congresso della Cultura. Per avere un esempio concreto, basta visitare la collezione della Pinakothek der Moderne di Monaco di Baviera: paesaggi invernali, scene bucoliche, nudi improntati a un’ideale di perfezione classica dominano la scena. Nulla a che vedere con le ricerche rivoluzionarie delle avanguardie che oggi rappresentano lo spirito del Novecento.
Grande Rassegna di Arte Germanica, Monaco di Baviera, 1937 | Courtesy of © Nexo Digital
Il dipinto più noto è certamente I Quattro Elementi di Adolf Ziegler, un’icona che all’epoca circolò attraverso giornali e cartoline illustrate e che, in versione originale, campeggiava sul caminetto della residenza del Fürher a Monaco. Sulla tela quattro nudi scultorei sono le allegorie degli elementi primigeni, ma anche l’incarnazione degli ideali di razza e femminilità del regime, sacralizzati attraverso la forma cristiana del trittico.
Amico, consigliere e pittore preferito di Hitler, Ziegler presiedette la Camera delle Belle Arti del Reich, impegnandosi a fondo nella censura e nella propaganda contro le avanguardie e i loro esponenti. Se già tra i contemporanei era conosciuto con l’ironico soprannome di “maestro del pelo pubico tedesco”, nel dopoguerra fu colpito da un pesante marchio d’infamia insieme al suo capolavoro, che subì il sequestro degli Alleati.
Sebbene, come scrivono i curatori del museo, il quadro appartenga “a un capitolo della storia dell’arte del XX secolo che non può più essere ignorato, soppresso o demonizzato” e insieme alle altre opere esposte alimenti “la discussione su cosa sia esattamente l’arte moderna, chi la definisca e quali siano i suoi confini”, i successivi sviluppi della ricerca artistica novecentesca sembrano indicare che, anche in campo estetico, il Fürher abbia perso la sua scommessa con l’eternità.
Ma le politiche culturali del Nazionalsocialismo, finora in secondo piano di fronte alle atrocità perpetrate in altri settori, sono di nuovo sotto le luci della ribalta.
Il clamoroso ritrovamento nel 2011 in un appartamento di Monaco di 1500 opere di altissimo valore sottratte dal regime a musei e collezionisti privati ha fornito lo spunto per risalire la china del tempo e dipanarne i fili rimasti nell’ombra: il 13 e il 14 marzo il documentario di Claudio Poli Hitler contro Picasso e gli altri. L'Ossessione Nazista per l'Arte , prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital, racconterà al pubblico cinematografico italiano il rapporto ossessivo dei nazisti con l’arte attraverso documenti originali, immagini d’epoca, contributi critici e testimonianze dei discendenti di chi visse in prima persona questa pagina oscura della storia occidentale.
L’ARTE PURA DEL NAZIONALSOCIALISMO
Se Espressionismo, Bauhaus, Blaue Reiter, Dadaismo, Nuova Oggettività, Cubismo, Surrealismo sono banditi con violenza dal Reich sotto l’etichetta di “Entartete Kunst” (Arte Degenerata), quali sono i confini entro i quali un artista può muoversi negli anni del Nazionalsocialismo?
In verità sono piuttosto angusti. Da ex pittore Hitler è ben consapevole dell’importanza dell’arte come strumento di dominio delle coscienze.
Un popolo è egemone rispetto agli altri quando impone il proprio modo di vedere e rappresentare la realtà: perciò bando a ogni dubbio cervellotico o deformazione decadente “di stampo semita”, a “bevitori d’assenzio e giocatori di roulette” e via libera alla celebrazione del paesaggio della campagna tedesca, a corpi splendenti e ben irrorati di sangue, in cui le proporzioni classiche si innestano su fisionomie nordiche. A volti e figure contadine, fanciulle e madri in salute pronte a donare i propri figli alla nazione, soldati eroici, famiglie etnicamente omogenee, uomini intenti a “mestieri naturali” - pastori, boscaioli, cacciatori - o industriali, riscattati dalla condizione di proletari dall’appartenenza alla razza ariana e dal lavoro per il trionfo di una civiltà schiettamente superiore. Tutto ciò che glorifica la patria e le tradizioni è benvenuto.
Poiché la forma deve coincidere con il contenuto e l’arte ha il compito di servire la verità, l’unico linguaggio consentito è quello della figurazione realista, aperta a metafore mitologiche e iconografie classicheggianti.
Una novità radicale? Non del tutto: già nel primo dopoguerra il “ritorno all’ordine” era nell’aria, promosso in Germania dall’ala classicista della Nuova Oggettività, che a sua volta si ispirava al movimento italiano Valori Plastici. Una reazione alle spericolate sperimentazioni delle avanguardie, destinata anch’essa, tuttavia, a cadere nelle maglie della censura nazista.
Nella visione ideologica del regime la secolare passione dei tedeschi per la classicità si salda con lo “spirito del popolo” di matrice romantica e va a incarnare l’ideale di un’arte fuori dal tempo caro al Fürher. Non solo: come le scene di caccia, il richiamo agli splendori dell’antico - per i quali il collezionista Hitler fece follie - colma il desiderio di nobiltà dei nazisti, quasi tutti di estrazione borghese e affascinati dal mito dell’aristocrazia.
Ma il Nazionalsocialismo non si limita a enunciare teorie: alla figura del critico si sostituisce quella del “redattore d’arte”, una figura che, afferma il ministro della propaganda Joseph Goebbels, “richiede tatto, cultura, adeguato animo e rispetto per le direttive artistiche” del regime. I suoi resoconti sono “più una descrizione che un’interpretazione, quindi un omaggio” e la sua carica è subordinata ad autorizzazioni particolari.
Gli artisti e i direttori dei musei diventano sorvegliati speciali, le collezioni sono epurate dalle opere non conformi ai dettami governativi, ai mercanti d’arte - molti dei quali di origine ebraica - vengono confiscati migliaia di quadri e sculture, che vanno incontro a roghi esemplari o sono venduti a beneficio delle casse del Reich.
STORIE DI ARTISTI SOTTO IL REGIME
La Camera della Cultura del Reich, emanazione del ministero presieduto da Goebbels, stabilisce senza appello quali artisti possano lavorare e quali opere possano essere mostrate in pubblico.
Perfino Emil Nolde, membro del Partito nonché dichiaratamente xenofobo e antisemita, è interdetto dall’esercizio dell’insegnamento e della pittura a causa della “militanza” espressionista. Gli è proibito anche tenere in casa l’occorrente per dipingere. Così, per non essere tradito dall’odore dei colori a olio in caso di visite della Gestapo, ripiega sugli acquerelli che usa chiamare “quadri non dipinti”.
Per continuare a lavorare molti artisti fuggono all’estero, alcuni si rifugiano in campagna, come Otto Dix, che sul Lago di Costanza abbandona i soggetti graffianti e antiborghesi per la pittura di paesaggio.
Per chi resta, portare avanti una ricerca autonoma è una sfida ardua e l’imprevisto è sempre dietro l’angolo. Nel valutare l’operato degli artisti, scrivono i curatori della Pinakothek di Monaco, “è difficile tracciare una netta linea di demarcazione tra opportunismo, lealtà verso tradizione, escapismo e critica”.
Il contesto, al di là di una programmatica rimozione del dubbio, è dominato da ambivalenze e contraddizioni. A partire dallo stesso Goebbels, inizialmente appassionato estimatore dell’arte moderna, poi suo ferocissimo persecutore e collezionista in gran segreto.
Un pittore contro come Max Beckmann, d’altra parte, fu subito censurato come artista degenerato, ma i suoi quadri restarono appesi nei salotti buoni di Berlino, frequentati dagli alti ranghi del Partito.
Georg Schrimpf, Natura morta con gatto, Pinakothek der Modern, Monaco di Baviera
I casi di Georg Schrimpf e Günther Grassmann, entrambi nella collezione della Pinakothek der Modern di Monaco di Baviera, sono emblematici della confusione, delle strumentalizzazioni e delle pressioni che condizionarono carriere ed esistenze.
Il primo, appartenente all’ala classicista della Nuova Oggettività, pur avendo un passato anarchico fu amato dal regime e additato come esempio: i suoi paesaggi sobri, realizzati con linguaggio pittorico tradizionale ma almeno in origine senza risvolti ideologici, furono esaltati come esempi dell’estetica del Reich. Schrimpf fu ricompensato con un incarico al Collegio d’Arte di Schöneberg a Berlino, per essere esautorato quando i suoi trascorsi divennero palesi.
La storia della Fattoria di Chiemgau di Grassmann, invece, mostra come la stessa opera possa essere stata prima un’importante acquisizione delle Collezioni Statali di Pittura bavaresi e poi un ripugnante esempio di Arte Degenerata, per vedere il proprio status mutare ancora qualche anno più tardi.
A far cambiare idea ai funzionari nazisti fu in prima istanza una protesta di Grassmann durante un discorso dello storico dell’arte di regime Paul Schultze-Naumburg.
Ma poco dopo il pittore fu assoldato insieme a un gruppo di artisti “degenerati” per decorare le caserme bavaresi e la piscina Nordbad di Monaco. Grazie a questi lavori, Grassmann fu riconosciuto come “uno dei migliori pittori di affreschi monumentali” del Reich e in seguito divenne direttore della Stadel School di Francoforte, nonché, naturalmente, membro del Partito.
LA GRANDE RASSEGNA DI ARTE GERMANICA DEL '37
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Nonostante le opere fossero disposte in maniera caotica, accompagnate da scritte oltraggiose e accostate a realizzazioni di pazienti psichiatrici, Entartete Kunst riscosse un successo eclatante che, con tre milioni di visitatori in quattro anni e in 12 città diverse, rischiò di mettere in ombra la rassegna ufficiale. Tra i protagonisti, Max Beckmann, Paul Klee, Marc Chagall, Otto Dix, Vasilij Kandinskij, George Grosz, Ernst Ludwig Kirchner, Franz Marc, Edvard Munch, Franz Marc, Oskar Kokoschka, Kurt Schwitters, Vincent van Gogh.
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L’imbarazzo fu risolto rimuovendo le sculture di Belling dalla selezione dell’Entartete Kunst. Il bronzo di Schmeling continuò a troneggiare come un dio greco nella Casa dell’Arte Tedesca appena inaugurata, mentre la figura di un versatile sperimentatore come Belling, esule prima in America, poi in Turchia, di idee politiche liberali e padre di un ragazzo ebreo, si appiattiva in mezzo a un tripudio di svastiche.
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