Le committenze urbinati di Piero della Francesca
Piero della Francesca
12/10/2001
Gli anni trascorsi da Piero della Francesca alla corte di Urbino hanno portato l’artista biturgense alla realizzazione di alcune pale celeberrime. Di quelle tavole alcune sono ancora conservate nelle Marche, altre hanno vissuto vicende che le hanno portate fuori dalla regione in cui sono nate.
La prima testimonianza del lavoro di Piero per Federico III da Montefeltro è la “Flagellazione di Cristo”, piccola tavoletta ancora oggi in Palazzo Ducale, realizzata nella seconda metà del sesto decennio del ‘400. L’opera vede il primo piano nettamente scisso dal secondo, ma allo stesso tempo i due episodi sono in relazione. Tale connessione non va solo intesa sul piano spaziale (collegati sulla stessa linea di fuga) ma anche tematica: nel giovane biondo sulla destra si è ipotizzato un possibile ritratto di Oddantonio, il predecessore di Federico III, circondato da alcuni consiglieri traditori che ne avrebbero favorito la caduta; sullo sfondo la flagellazione che dà il titolo al quadro con Pilato che nei confronti di Cristo svolge lo stesso ruolo dei traditori di Oddantonio. Ma oggi l’interpretazione corrente è un’altra, quella che vede nella commissione un tentativo di riconciliazione tra la Chiesa d’oriente e la Chiesa d’occidente, in vista dell’attacco turco a Costantinopoli. Con entrambe le letture può essere associata la frase latina convenerunt in unum, citazione biblica che fino al XIX secolo si leggeva nella parte bassa della tavola.
Intorno al 1465-66 risalgono i ritratti del duca d’Urbino e di sua moglie Battista Sforza, oggi custoditi agli Uffizi, ma chiaramente nati nel contesto urbinate. Le due effigi dei duchi, dipinte di profilo, sono caratterizzate da un’attenzione ai particolari, che denuncia un’influenza fiamminga affiancata dalla semplificazione dei volumi. Una visio perspicua d’oltralpe che è ancora più evidente nello sfondo su cui i ritratti si stagliano: il paesaggio delle colline del Montefeltro mostra dettagli come alberi, specchi d’acqua e piccole imbarcazioni. Tale ambientazione è ripresa anche nella parte retrostante della pala in cui vengono dipinti ancora i due duchi, stavolta presentati in trionfo su carri allegorici. Interessante ricordare che fino all’800 i due ritratti sono stati scambiati come immagini raffiguranti Petrarca e Laura o Sigismondo Malatesta e Isotta.
Altra importante opera di quegli anni è la cosiddetta “Madonna di Senigallia” (1470), dipinta per la chiesa di S. Maria delle Grazie ad Urbino, ma oggi nella Galleria di Palazzo Ducale: ancora una volta sintesi perfetta tra arte fiamminga (minuziosa indagine della luce, resa dei dettagli, senso descrittivo della realtà) e italiana (simmetria e geometricità). La Vergine ha in braccio il Bambino e ai suoi lati due angeli con le braccia conserte. L’ambiente è quello di un interno palatino, forse proprio Palazzo Ducale, illuminato da una luce proveniente dalle grandi finestre sullo sfondo. Il quadro, tra quelli dipinti da Piero, è quello che si sofferma in maniera più attenta sulle trasparenze generate dalla luce tra i capelli e nelle pieghe delle vesti dei personaggi.
Nella Pinacoteca milanese di Brera compare un altro frutto del soggiorno urbinate di Piero della Francesca: la “Pala Montefeltro” (1472-74) presenta in primo piano, di fronte alla Madonna circondata da santi, il duca Federico inginocchiato in preghiera. La tavola, originariamente dipinta per la chiesa di San Bernardino a Urbino, è stata più volte definita il dipinto-simbolo della pittura italiana del Quattrocento per ambientazione, architettura e il citatissimo uovo che pende sullo sfondo, forse legato all’origine della vita, ma certamente sorta di misura prima a livello proporzionale.
Un simbolo accomuna la Madonna di Senigallia e la Pala Montefeltro: il Bambino, in entrambi i casi, ha al collo una collana di corallo, elemento indissolubilmente connesso alla rigenerazione e quindi presago della resurrezione.
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