Le sezioni della mostra

Paese incantato
 

27/09/2001

Sono tredici le sezioni che compongono il percorso allestito nelle Fruttiere di Palazzo Te. Si parte dagli autoritratti e dai ritratti dei pittori che dipingono en plein air sullo scorcio del Settecento, tutti effigiati mentre sono immersi nella natura, seduti su un seggiolino pieghevole, la scatola dei colori sulle ginocchia, strani parasoli per schermare la luce e attenuare il riverbero mediterraneo. Abbandonati gli atelier (dove ancora componevano quadri di paesaggio artisti quali Philipp Hackert), essi si avventurano lungo i sentieri della natura indicati da Rousseau e dai Naturphilosophen e sostituiscono agli sfondi classici (quelli dei quadri di Pompeo Batoni, per intenderci) cascate, ruscelli, dirupi scoscesi, morbidi pendii. In altri casi l’espediente della finestra aperta verso la luce diurna e diffusa fa entrare nello spazio chiuso della stanza la campagna, caricando così l’atmosfera e l’animo dei personaggi di solarità e leggerezza. Il percorso prosegue con i pittori inglesi, i primi ad apprezzare del paesaggio italiano anche gli aspetti antieroici, senza il filtro della mitologia, della storia, delle rovine. Prediligono l’acquerello e l’olio su carta, tecniche veloci e sintetiche che spogliano l’immagine dei dettagli narrativi. I lavori di Robert Cozens (1752-1797) trasformano in visioni oniriche i dintorni di Napoli; quelli di Thomas Jones, datati al 1782, ritraggono scorci minimali della città partenopea: muri di tufo, panni stesi ad asciugare, cupole e terrazze periferiche, una realtà quotidiana di cui il pittore svela le geometrie segrete e l’astratta elementare purezza. L’occhio dell’intellettuale illuminista può pure guardare la stessa realtà puntando sull’analisi e la resa minuziosa del dettaglio: operazione perfettamente riuscita a Giovan Battista Lusieri (1755-1821), “il primo pittore d’Italia” secondo Lord Elgin. Egli, attivo tra Roma e Napoli, si sottoponeva ogni giorno a sedute estenuanti dal vero per ottenere immagini il più possibile vicine alla realtà, straordinarie “fotografie” del tempo. Dagli anni Ottanta del Settecento sono i pittori francesi ad occupare la scena. Se Hubert Robert e Simon Denis si muovono ancora all’interno di un’interpretazione pittoresca della natura, Pierre-Henri de Valenciennes (1750-1819) si concentra sulla rappresentazione dello stesso scorcio di paesaggio in più ore del giorno, registrando così la modificazione delle forme. “E’ bene dipingere la stessa veduta a diverse ore del giorno – scriveva – per osservare la differenza che la luce produce sulle forme. I cambiamenti sono così sorprendenti che si fa fatica a riconoscere gli stessi oggetti”. I suoi tetti di Roma sono tra i più originali documenti del paesaggismo settecentesco. Meno scientifiche e più sentimentali sono le vedute della valle dell’Arno di Louis Gauffier (1762-801), cariche di umori romantici. Nel primo ventennio dell’Ottocento sono i pittori tedeschi ad animare la scena (principalmente quella romana). Essi rifiutano per lo più i tempi di posa veloci e il “virtuosismo del pennello” dei loro colleghi francesi e inglesi e prediligono una visione della natura analitica e minuziosa. La campagna romana è il luogo da loro prediletto: scoprono Olevano, il borgo montano aspro a Sud-Est della capitale, Ariccia e Velletri, antichissimi luoghi di villeggiatura dell’aristocrazia capitolina. Si spingono spesso fino a Napoli e alle località della costa sorrentina, scenari irrinunciabili dell’en plein air. La nuova visione della natura è condivisa da pochi pittori italiani: Massimo D’Azeglio a Torino, Giovan Battista Bassi a Roma, entrambi educati sui modelli francesi. Tra il 1820 e il 1830 sono gli artisti del Nord, russi, tedeschi, scandinavi, ad intrattenere con l’Italia un rapporto più confidenziale e soggettivo. La loro visione “ha la seduzione di un racconto informale, che esprime lo stesso incantato stupore davanti alle aristocratiche ville di Roma o ai cortili segreti delle piccole case, alle selvagge paludi Pontine o al verde curato dei parchi, quando le città confinavano con i boschi ed i fiumi, libere dal cerchio soffocante delle periferie” (Ottani Cavina). “E’ quasi impossibile astenersi dal dipingere la natura” confessava al suo arrivo in Italia il pittore danese Christoffer Wilhelm Eckersberg, autore di splendidi “ritratti” dei giardini e della campagna romana. Intorno al 1820 avviene così il passaggio definitivo alla rappresentazione “sensibile” del paesaggio. William Turner traduce sulla tela e sulla carta l’impeto della propria turbolenta passione per l’Italia; Camille Corot, già nel primo soggiorno italiano del 1825-'28, dipinge piccole tavole, lontane sia dalla visione di genere sia dagli stilemi del paesaggio storico e tutte improntate a una luminosa verità di visione. La mostra si chiude sul Viandante del pittore norvegese Martinus Rorbye (1803-1848), ritratto di un uomo che, seduto su una sgangherata seggiola, guarda malinconicamente il corso del Tevere, nei pressi della fontana dell’Acqua Acetosa, quintessenza dei luoghi italiani che gli artisti stavano per abbandonare per sempre.

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