Al via il progetto SuperaMenti di Collezione Peggy Guggenheim
Oltre il muro: un workshop online con la street artist Alice Pasquini
Alice Pasquini, Rome 2018. Courtesy Alice Pasquini
Francesca Grego
11/11/2020
Venezia - Come nasce un’opera di street art? Come può cambiare la nostra vita quotidiana? Si può fare street art a distanza? Dov’è il confine tra arte urbana e vandalismo? E qual è il ruolo delle donne nel mondo dei graffiti? Sono alcuni degli interrogativi che troveranno risposta nel workshop Oltre il muro: arte e contesto, che Alice Pasquini terrà a fine novembre per Collezione Peggy Guggenheim. Gli imprevisti di quest’anno non trovano impreparato il museo veneziano, che con il progetto SuperaMenti. Pratiche artistiche per un nuovo presente conferma la sua antica vocazione di fucina d’arte e di idee imperniata sul contemporaneo: “servire il futuro invece di registrare il passato”, era il motto della vulcanica Peggy.
Dalla scultura all’installazione, dalla street art al disegno, i linguaggi dell’arte raccolgono ora una nuova sfida: sotto la guida di noti artisti italiani e internazionali, ragazzi dai 16 ai 25 anni impareranno a lavorare sulla creatività come veicolo di scambio, interazione e appartenenza, capace di superare i limiti del difficile momento che stiamo attraversando e inventare una “nuova normalità”. Pensato inizialmente in formula ibrida, con attività da remoto e laboratori in presenza, alla luce degli ultimi eventi Oltre il muro trasloca interamente online con due incontri su Zoom aperti a tutti (il 16 e il 19 novembre) e sei giornate di workshop a distanza tra il 20 e il 29 novembre.
Alice Pasquini from the Farnesina Collection I Courtesy Alice Pasquini
L’emergenza Covid, per fortuna, non ferma la street art: “Nel mio lavoro il rapporto con le persone è fondamentale e a volte entro quasi nelle loro case, potremmo prendere un caffè insieme dalla finestra. Ma per me è normalissimo lavorare con la maschera, isolata in cima a un braccio meccanico”, dice Alice ad ARTE.it. Classe 1980, la street artist romana ha all’attivo progetti da Londra a Buenos Aires, dall’Australia a Berlino. Ha collaborato con prestigiose istituzioni culturali come i Musei Capitolini, ha realizzato importanti opere di arte pubblica in tutto il mondo e si è messa in gioco nei contesti più diversi, dall’illustrazione alla scenografia, dal 3D ai grandi murales e ai piccoli arredi urbani. è nota inoltre per la sua attenzione all’universo femminile, di cui tiene a trasmettere un’immagine vitale e fuori dagli stereotipi.
“Ho appena terminato un muro di 25 metri per 10 nella periferia romana di Casal Bertone”, racconta: “è la prima tappa di un progetto dedicato all’avvocatessa e attivista turca Ebru Timtik, che quest’estate si è lasciata morire in carcere lottando per la giustizia e la libertà di espressione. Il progetto si chiama One City e si ispira al bonus civis di Cicerone, a valori come l’humanitas o la dignitas che dovrebbero essere condivisi in una società. Per il Policlinico Gemelli, invece, ho realizzato da poco un omaggio all’impegno profuso dai medici in questi mesi. Inizialmente avevo pensato a una scena con persone che si abbracciavano, ma pare che al momento gli abbracci siano un tabù. Così, avendo a disposizione due muri separati ma vicini, ho disegnato da un lato una dottoressa dallo sguardo pensieroso, forse alla fine del suo turno, e dall’altro una bambina che le porge un fiore i cui petali volano da un muro all’altro. A me non sembrava una scena particolarmente originale, ma ho ricevuto delle email veramente forti dal punto di vista emotivo. È il bello della street art: c’è sempre un confronto diretto, immediato con le persone, in questo caso particolarmente intenso”.
Alice Pasquini, Civita Street Fest I Foto Alessia Di Risio I Courtesy Alice Pasquini
Secondo la tua lunga esperienza, qual è l’impatto della street art sulla vita di una quartiere, di un paese o di una città?
“Ti rispondo con qualche esempio. Ultimamente ho lavorato nella periferia di Taranto, in un quartiere popolare che si chiama Paolo VI. Lì a tutte le ore vedi per strada bambini di ogni età, teppistelli che all’inizio hanno provato a terrorizzare anche gli artisti. Alla fine erano diventati i nostri assistenti, seguivano il lavoro dalla mattina alla sera. E poi per la prima volta nel quartiere è arrivata gente da fuori perché gli abitanti invitavano gli altri a vedere i palazzi di cui prima si vergognavano.
Ancora più forte è l’esempio di Civitacampomarano, un meraviglioso paesino medievale del Molise dove da sei anni organizzo un festival di street art. Tutto è iniziato per caso, da una ragazza che mi ha vista in tv e mi ha scritto, senza sapere che quello era il paese di mio nonno. Ci sono andata e ho trovato ormai quasi disabitato un luogo della mia infanzia. Così ho iniziato a dipingere sulle porte e sui muri abbandonati. La cosa è finita in tv e sui giornali e sono arrivati i primi turisti. È nata di qui l’idea di un festival che ha portato a Civita tanti artisti, molti dei quali di fama internazionale. All’inizio non c’erano alberghi e ristoranti: le persone, in prevalenza anziane, hanno aperto le proprie case e cucinato per gli ospiti. Poi sono nati negozi e bed and breakfast, e il turismo ha continuato a svilupparsi. La forza di quest’arte è accendere una luce. Non è più il movimento di rottura degli inizi, ma serve ad andare oltre il muro stesso.
E poi ci sono muri pesanti, significativi di per sé: come quelli di un carcere femminile o della Barriera Reale di Melilla, dove pure ho lavorato: dipingerli significa condividere con gli altri una situazione di isolamento”.
Come si svolgerà Oltre il muro, il workshop che hai pensato per Collezione Peggy Guggenheim?
“Inizialmente il workshop doveva svolgersi a Venezia: l’idea era quella di proporre una visione diversa della città, incentrata su una mappatura alternativa rispetto ai consueti itinerari turistici. Speravo di poter camminare per le strade con i ragazzi per cercare i luoghi adatti, parlare con i passanti, immaginare insieme interventi non solo decorativi ma volti a risolvere con la creatività problematiche urbane reali. Con il trasferimento delle attività online ho elaborato un programma diverso. Ci sarà una parte teorica in cui parleremo dell’evoluzione della street art, delle diverse tecniche - stencil, graffiti, poster, installazioni... - e una parte pratica in cui i ragazzi cercheranno nelle loro città i luoghi giusti per realizzare un'opera. Dove possibile, lo faranno parlando con le persone per produrre un lavoro veramente legato al contesto, che possa stare lì e non altrove, influenzato dalla forma del muro, dalla cultura del luogo, dalle storie e dalle esigenze di chi lo abita. Un muro non è come una tela e chi lavora in uno spazio pubblico ha una responsabilità diversa da chi dipinge in studio: non può semplicemente dare libero sfogo alla propria espressività. I ragazzi saranno divisi in gruppi per progettare delle opere di arte pubblica che, quando l’emergenza sarà finita, speriamo di realizzare tutti insieme. Credo che avremo ospiti interessanti. Ma il corso che prenderanno i lavori dipende anche dalle caratteristiche dei ragazzi che si sono iscritti, dalle loro aspettative, competenze, interessi. So che sono in tanti e aspetto di conoscerli”.
Alice Pasquini, Belo Horizonte, 2019 I Courtesy Alice Pasquini
Come si può fare street art a distanza?
“Io l’ho presa un po’ come una sfida. Se la fantasia c’è, le limitazioni di natura pratica non sono in grado di bloccare l’arte. Anzi, possono essere l’occasione per sviluppare strade alternative. È quello che è successo a Civitacampomarano quest’anno. Avevamo annullato l’edizione del festival perché non volevamo portare il Covid in un paesino pieno di anziani, ma alla fine è stata proprio la popolazione a insistere. Così sono state create delle opere a distanza, pensate insieme agli artisti e realizzate dai cittadini. È stata un’edizione molto interessante dal punto di vista concettuale”.
La street art è l’arte giovane per eccellenza. Come ti senti quando "sali in cattedra"?
“Ho incontrato spesso studenti dei licei e delle università, sia in Italia che all’estero, e poi ho condotto un laboratorio all’Hangar Bicocca di Milano. È una cosa che mi piace molto. Ho avuto molti cattivi professori e all’epoca pensavo che chi insegna è un artista fallito. Ora che sono riuscita a fare quello che mi piace, insegnare è come tornare indietro e sollevare la Alice adolescente dalle paure che i prof suscitavano in lei. D’altra parte penso che il confronto con chi ha più esperienza sia importante, ma nessuno può credere in te se tu stesso non ci credi. Bisogna essere molto motivati, anche se i tempi sono cambiati rispetto a quando ho iniziato: nessuno condivideva i miei disegni sui social, già era tanto se qualcuno faceva una foto e la attaccava sul diario…”.
Alice Pasquini, Nothing Lost Cover I Courtesy Alice Pasquini
Che effetto ti fa collaborare con la Collezione Peggy Guggenheim, erede di una mecenate che ha promosso alcuni dei massimi innovatori dell’arte di sempre?
“Sono lusingata e molto felice di poter lavorare con loro. Peggy Guggenheim ha investito con coraggio in quanto di più nuovo esistesse ai suoi tempi e il contemporaneo continua a essere nelle corde della Collezione. In questo momento è fondamentale fare qualcosa che aggreghi, che aiuti a condividere esperienze che viviamo sempre più in solitudine. L’arte si presta bene a questo scopo”.
Nel tuo lavoro sei molto attenta all’universo femminile e Peggy è stata una donna dalla personalità molto forte, insolita per i suoi tempi…
“È vero, Peggy era forte come molte delle donne che dipingo. Mi piace ritrarre delle persone vere con dei sentimenti reali. Raramente in pittura le donne sono state rappresentate da un punto di vista femminile. Ed è bizzarro che mi si chieda spesso perché dipingo le donne: agli artisti uomini nessuno si è mai sognato di chiederlo. Abbiamo bisogno di narrazioni al femminile e nei graffiti ancora di più perché per molto tempo in questo settore le ragazze sono state molto poche. è per questo che da sempre mi firmo col mio vero nome, una cosa un po’ anomala nel mondo dei graffiti, perché guardando le mie opere si sappia subito che sono una donna. Nel panorama urbano la rappresentazione della donna si rifà quasi sempre allo stile delle eroine sexy dei fumetti. Così a volte la normalità diventa scioccante: mi è successo disegnando donne arrabbiate, bambine impertinenti e soprattutto con il murales di ragazza che faceva pipì per strada. Ma le donne si identificano nei miei personaggi, forse perché non sono una ritrattista, rappresento soprattutto un sentimento, un’emozione in cui specchiarsi”.
Alice Pasquini, Strasbourg, 2019 I Courtesy Alice Pasquini
Leggi anche:
• I SuperaMenti della Guggenheim: il museo come laboratorio di idee attraverso il potere rigenerativo dell'arte
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Alice Pasquini from the Farnesina Collection I Courtesy Alice Pasquini
L’emergenza Covid, per fortuna, non ferma la street art: “Nel mio lavoro il rapporto con le persone è fondamentale e a volte entro quasi nelle loro case, potremmo prendere un caffè insieme dalla finestra. Ma per me è normalissimo lavorare con la maschera, isolata in cima a un braccio meccanico”, dice Alice ad ARTE.it. Classe 1980, la street artist romana ha all’attivo progetti da Londra a Buenos Aires, dall’Australia a Berlino. Ha collaborato con prestigiose istituzioni culturali come i Musei Capitolini, ha realizzato importanti opere di arte pubblica in tutto il mondo e si è messa in gioco nei contesti più diversi, dall’illustrazione alla scenografia, dal 3D ai grandi murales e ai piccoli arredi urbani. è nota inoltre per la sua attenzione all’universo femminile, di cui tiene a trasmettere un’immagine vitale e fuori dagli stereotipi.
“Ho appena terminato un muro di 25 metri per 10 nella periferia romana di Casal Bertone”, racconta: “è la prima tappa di un progetto dedicato all’avvocatessa e attivista turca Ebru Timtik, che quest’estate si è lasciata morire in carcere lottando per la giustizia e la libertà di espressione. Il progetto si chiama One City e si ispira al bonus civis di Cicerone, a valori come l’humanitas o la dignitas che dovrebbero essere condivisi in una società. Per il Policlinico Gemelli, invece, ho realizzato da poco un omaggio all’impegno profuso dai medici in questi mesi. Inizialmente avevo pensato a una scena con persone che si abbracciavano, ma pare che al momento gli abbracci siano un tabù. Così, avendo a disposizione due muri separati ma vicini, ho disegnato da un lato una dottoressa dallo sguardo pensieroso, forse alla fine del suo turno, e dall’altro una bambina che le porge un fiore i cui petali volano da un muro all’altro. A me non sembrava una scena particolarmente originale, ma ho ricevuto delle email veramente forti dal punto di vista emotivo. È il bello della street art: c’è sempre un confronto diretto, immediato con le persone, in questo caso particolarmente intenso”.
Alice Pasquini, Civita Street Fest I Foto Alessia Di Risio I Courtesy Alice Pasquini
Secondo la tua lunga esperienza, qual è l’impatto della street art sulla vita di una quartiere, di un paese o di una città?
“Ti rispondo con qualche esempio. Ultimamente ho lavorato nella periferia di Taranto, in un quartiere popolare che si chiama Paolo VI. Lì a tutte le ore vedi per strada bambini di ogni età, teppistelli che all’inizio hanno provato a terrorizzare anche gli artisti. Alla fine erano diventati i nostri assistenti, seguivano il lavoro dalla mattina alla sera. E poi per la prima volta nel quartiere è arrivata gente da fuori perché gli abitanti invitavano gli altri a vedere i palazzi di cui prima si vergognavano.
Ancora più forte è l’esempio di Civitacampomarano, un meraviglioso paesino medievale del Molise dove da sei anni organizzo un festival di street art. Tutto è iniziato per caso, da una ragazza che mi ha vista in tv e mi ha scritto, senza sapere che quello era il paese di mio nonno. Ci sono andata e ho trovato ormai quasi disabitato un luogo della mia infanzia. Così ho iniziato a dipingere sulle porte e sui muri abbandonati. La cosa è finita in tv e sui giornali e sono arrivati i primi turisti. È nata di qui l’idea di un festival che ha portato a Civita tanti artisti, molti dei quali di fama internazionale. All’inizio non c’erano alberghi e ristoranti: le persone, in prevalenza anziane, hanno aperto le proprie case e cucinato per gli ospiti. Poi sono nati negozi e bed and breakfast, e il turismo ha continuato a svilupparsi. La forza di quest’arte è accendere una luce. Non è più il movimento di rottura degli inizi, ma serve ad andare oltre il muro stesso.
E poi ci sono muri pesanti, significativi di per sé: come quelli di un carcere femminile o della Barriera Reale di Melilla, dove pure ho lavorato: dipingerli significa condividere con gli altri una situazione di isolamento”.
Come si svolgerà Oltre il muro, il workshop che hai pensato per Collezione Peggy Guggenheim?
“Inizialmente il workshop doveva svolgersi a Venezia: l’idea era quella di proporre una visione diversa della città, incentrata su una mappatura alternativa rispetto ai consueti itinerari turistici. Speravo di poter camminare per le strade con i ragazzi per cercare i luoghi adatti, parlare con i passanti, immaginare insieme interventi non solo decorativi ma volti a risolvere con la creatività problematiche urbane reali. Con il trasferimento delle attività online ho elaborato un programma diverso. Ci sarà una parte teorica in cui parleremo dell’evoluzione della street art, delle diverse tecniche - stencil, graffiti, poster, installazioni... - e una parte pratica in cui i ragazzi cercheranno nelle loro città i luoghi giusti per realizzare un'opera. Dove possibile, lo faranno parlando con le persone per produrre un lavoro veramente legato al contesto, che possa stare lì e non altrove, influenzato dalla forma del muro, dalla cultura del luogo, dalle storie e dalle esigenze di chi lo abita. Un muro non è come una tela e chi lavora in uno spazio pubblico ha una responsabilità diversa da chi dipinge in studio: non può semplicemente dare libero sfogo alla propria espressività. I ragazzi saranno divisi in gruppi per progettare delle opere di arte pubblica che, quando l’emergenza sarà finita, speriamo di realizzare tutti insieme. Credo che avremo ospiti interessanti. Ma il corso che prenderanno i lavori dipende anche dalle caratteristiche dei ragazzi che si sono iscritti, dalle loro aspettative, competenze, interessi. So che sono in tanti e aspetto di conoscerli”.
Alice Pasquini, Belo Horizonte, 2019 I Courtesy Alice Pasquini
Come si può fare street art a distanza?
“Io l’ho presa un po’ come una sfida. Se la fantasia c’è, le limitazioni di natura pratica non sono in grado di bloccare l’arte. Anzi, possono essere l’occasione per sviluppare strade alternative. È quello che è successo a Civitacampomarano quest’anno. Avevamo annullato l’edizione del festival perché non volevamo portare il Covid in un paesino pieno di anziani, ma alla fine è stata proprio la popolazione a insistere. Così sono state create delle opere a distanza, pensate insieme agli artisti e realizzate dai cittadini. È stata un’edizione molto interessante dal punto di vista concettuale”.
La street art è l’arte giovane per eccellenza. Come ti senti quando "sali in cattedra"?
“Ho incontrato spesso studenti dei licei e delle università, sia in Italia che all’estero, e poi ho condotto un laboratorio all’Hangar Bicocca di Milano. È una cosa che mi piace molto. Ho avuto molti cattivi professori e all’epoca pensavo che chi insegna è un artista fallito. Ora che sono riuscita a fare quello che mi piace, insegnare è come tornare indietro e sollevare la Alice adolescente dalle paure che i prof suscitavano in lei. D’altra parte penso che il confronto con chi ha più esperienza sia importante, ma nessuno può credere in te se tu stesso non ci credi. Bisogna essere molto motivati, anche se i tempi sono cambiati rispetto a quando ho iniziato: nessuno condivideva i miei disegni sui social, già era tanto se qualcuno faceva una foto e la attaccava sul diario…”.
Alice Pasquini, Nothing Lost Cover I Courtesy Alice Pasquini
Che effetto ti fa collaborare con la Collezione Peggy Guggenheim, erede di una mecenate che ha promosso alcuni dei massimi innovatori dell’arte di sempre?
“Sono lusingata e molto felice di poter lavorare con loro. Peggy Guggenheim ha investito con coraggio in quanto di più nuovo esistesse ai suoi tempi e il contemporaneo continua a essere nelle corde della Collezione. In questo momento è fondamentale fare qualcosa che aggreghi, che aiuti a condividere esperienze che viviamo sempre più in solitudine. L’arte si presta bene a questo scopo”.
Nel tuo lavoro sei molto attenta all’universo femminile e Peggy è stata una donna dalla personalità molto forte, insolita per i suoi tempi…
“È vero, Peggy era forte come molte delle donne che dipingo. Mi piace ritrarre delle persone vere con dei sentimenti reali. Raramente in pittura le donne sono state rappresentate da un punto di vista femminile. Ed è bizzarro che mi si chieda spesso perché dipingo le donne: agli artisti uomini nessuno si è mai sognato di chiederlo. Abbiamo bisogno di narrazioni al femminile e nei graffiti ancora di più perché per molto tempo in questo settore le ragazze sono state molto poche. è per questo che da sempre mi firmo col mio vero nome, una cosa un po’ anomala nel mondo dei graffiti, perché guardando le mie opere si sappia subito che sono una donna. Nel panorama urbano la rappresentazione della donna si rifà quasi sempre allo stile delle eroine sexy dei fumetti. Così a volte la normalità diventa scioccante: mi è successo disegnando donne arrabbiate, bambine impertinenti e soprattutto con il murales di ragazza che faceva pipì per strada. Ma le donne si identificano nei miei personaggi, forse perché non sono una ritrattista, rappresento soprattutto un sentimento, un’emozione in cui specchiarsi”.
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