La arquitectura sin sombra
25/02/2004
La mostra La arquitectura sin sombra organizzata e prodotta dal Centro Andaluz de Arte Contemporàneo de Sevilla con il Centre de Cultura Contemporània de Barcelona, dove finisce il 10 dicembre e soprattutto la pubblicazione realizzata, sono l’occasione per parlare di alcuni temi che riguardano l’arte nei suoi aspetti più recenti.
La mostra, a cura di Gloria Moure, presenta le foto di emblematici edifici di alcuni dei più grandi architetti del novecento realizzate dagli artisti Balthasar Burkhard, Günter Förg, Andreas Gursky, Candida Höfer, Thomas Ruff, Hiroshi Sugimoto, Jeff Wall. Questi artisti visivi utilizzano alcuni edifici simbolo del Movimento moderno per porre una critica al positivismo e proporre nuovi modi di affrontare la lettura del mondo. Queste “interpretazioni” che sono alla base della comprensione di qualsiasi opera d’arte, hanno provocato anche un nuovo modo di presentare le mostre. E’ finito il concetto di museo ottocentesco con una catalogazione cronologica per “conoscere”. Gli accostamenti utilizzati di recente nel progettare una esposizione, superando ogni intento storicistico, sono volti a spiegare un concetto, una idea, attraverso le opere, spesso anche con l’uso di discipline diverse inserite nel percorso. L’orientamento delle più recenti esposizioni, così come del nuovo allestimento del Beauburg di Parigi o della Tate Modern di Londra è quello di privilegiare le tematiche. Questo tipo di allestimento, che non rispetta le date di esecuzione, le tecniche, le correnti a cui appartengono le opere, ne privilegia il senso, il significato e rompe le distanze tra i diversi linguaggi per mettere insieme pittura e installazioni, videoarte e oggetti: quello che è importante non è l’aspetto formale ma il contenuto. Gli artisti di oggi hanno abbandonato il ricorso alla simbologia per rivolgersi alla realtà, anzi alla quotidianità nei suoi molteplici aspetti, uno dei quali è il vivere nelle nostre grandi metropoli. Il tema della metropoli interessa non solo gli artisti figurativi, ma i fotografi, i registi e i videomakers e ne descrivono la solitudine o la multirazzialità o ne prendono spunto per partire verso più oniriche visioni. Il modello della città occidentale è stato infatti sostituito da agglomerati urbani di difficile catalogazione. Ne sono esempi le grandi metropoli con milioni di abitanti che si sviluppano malgrado la totale assenza di infrastrutture o di servizi pubblici, alcuni insediamenti di popolazioni del sud est asiatico che occupano interi quartieri trasformandone la configurazione con templi, magazzini, ristoranti, mercati, per non parlare delle vere e proprie città di confine che nascono tra un paese e l’altro, agglomerati senza un centro ma costituiti da una fila continua di fabbriche, alberghi, baraccopoli, stazioni di servizio, centri commerciali. L’architettura si è rivelata troppo lenta nel comprendere una realtà di gran lunga più stimolante, fluida e contradditoria. Tutto questo ha portato anche sui giornali ad un dibattito sul ruolo dell’architetto che dovrebbe rimettere in gioco la natura stessa delle sue competenze e dei suoi interessi deve dimostrarsi disposto a discutere i fondamenti stessi della sua disciplina, deve smettere di rispecchiare la sua concezione storica dello spazio urbano aprendosi a nuove e più rivoluzionarie soluzioni. Questo dibattito dovrebbe allargarsi a tutto il sistema dell’arte sia al lavoro degli artisti che riflettono sulla comprensione della realtà sia a quello dei critici o curatori nel proporre mostre o allestimenti di musei.
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La mostra L’arquitectura sin sombra pone l’accento su taluni di questi problemi.
Da una parte si pone una precisa tematica per parlare della quale sono chiamati alcuni artisti, dall’altra si rivolge all’ architettura come ultima delle utopie del pensiero moderno.
Il lavoro di Balthasar Burkard (nato a Berna nel 1944), Ricola Laufen di Herzog & de Meuron pone l’accento, con l’uso del bianco e nero, su alcuni particolari dettagli architettonici. L’ingrandimento degli elementi, la messa a fuoco della loro serialità, e delle relazioni tra di essi mette in evidenza la complessità della ripetizione di un tema architettonico mutuato dalla complessità del sistema della natura che si perpetua attraverso le forme più semplici arrivando, con moltiplicazioni esponenziali, a quelle più complesse. Burkard, con un tema caro a molti artisti, quali Sol LeWitt, ci parla della complessità del mondo e della possibilità, attraverso le coordinate della razionalità, di comprenderne e controllarne le regole.
Günther Förg (nato a Fössen nel 1952) attraverso i grandi formati, presenta alcuni lavori realizzati dall’architetto modernista Alejandro de La Sota. Con l’apparenza di documentare edifici di funzione sociale, ormai già storicizzati, ne evidenzia il degrado e la trasformazione. Un gruppo di questi, contrassegnati con la sigla CENIM, vengono ripresi mettendone in luce la visibile mutazione delle facciate provocata dall’inserimento dei condizionatori che ripetuti serialmente assurgono a motivo decorativo e parlano, come le altre foto sfocate e dai particolari tagli prospettici, della lenta e inevitabile trasformazione della natura.
Le foto di Andreas Gursky (Leipzig 10955) grande protagonista della recente scena artistica internazionale, sono iperrealiste. Gursky enfatizza infatti le forme e le strutture manipolando digitalmente le immagini. Le sue foto dalla Stockolm Library di Gunnar Asplund, dell’Hong Kong Shangai Bank di Norman Forster o quella di Times Square di John Portman, rappresentano una visione del mondo globalizzato, chiuso dentro griglie di comportamenti e desideri standardizzati, parlano della razionalizzazione eccessiva del tempo del lavoro e del piacere. L’elemento umano è visibile solo dopo un attento sguardo a questo complesso sistema che schiaccia e uniforma.
Candida Höfer (Eberswalde, 1944) nelle sue foto in bianco e nero di opere famose di alcuni dei maestri dell’architettura, e tra tutte citiamo il College of Architecture Chicago di Mies van der Rohe, o la Bauhaus Dessau di Walter Gropius, propone di guardare l’architettura come spazio interiore piuttosto che come forma esteriore. Riprende luoghi dove generalmente si studia, si ascolta musica, si discute, “luoghi dello spirito” e il loro uso enfatizza di per sé un tempo sospeso. Le luci danno una tensione, una energia che emerge dalle strutture compositive dei materiali. La sua opera vuole sottolineare la forza del pensiero, unica a sollecitare energia positiva e cambiamento.
Thomas Ruff (Zell am Hamersbach, 1958) si identifica con gli architetti Jacques Herzog y Pierre de Meuron, per dimostrare provocatoriamente che la superficie dell’edificio, così come la sua forma ne determina l’uso. Si sofferma infatti con nitidezza e semplicità sulla perfetta resa formale di alcune loro realizzazioni per esaltarne la funzionalità. La visione orientale di Hiroshi Sugimoto (Tokio, 1948) trasforma alcuni degli edifici simbolo, il Fagus Shoe Last Factory di Walter Gropius, la Casa Batlò di Antoni Gaudì, il Guggenheim Museum New York di Frank Lloyd Wright per esempio,attraverso giochi di ombre e chiaroscuri per arrivare a parlarci di altri e nuovi modi di vedere le cose. Il puro concetto architettonico si evolve lasciando l’apertura ad un panteismo umano. Morning Cleaning del Barcelona Pavillon di Mies van der Rohe per l’Esposizione Universale di Barcellona del ’29 di Jeff Wall (Vancouver, 1946), realizzata in grandissima scala tanto da coinvolgere lo spettatore è in realtà un collage di differenti foto elaborata al computer. La visione così ottenuta, all’apparenza così reale, è invece il risultato di una composizione di diverse foto e sottolinea l’illusione di conoscere una realtà tanto frammentata invitando ad inglobare altro nella nostra ristretta visione delle cose.
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