Empire State. Arte a New York oggi
Dal 23 Aprile 2013 al 21 Luglio 2013
Roma
Luogo: Palazzo delle Esposizioni
Indirizzo: via Nazionale 194
Orari: martedì, mercoledì, giovedì e domenica 10- 20; venerdì e sabato 10-22.30
Curatori: Norman Rosenthal, Alex Gartenfeld
Costo del biglietto: intero € 12.50, ridotto € 10, scuole € 4
Telefono per informazioni: +39 06 39967500
E-Mail info: info.pde@palaexpo.it
Sito ufficiale: http://www.palazzoesposizioni.it
Il 23 aprile 2013, al Palazzo delle Esposizioni di Roma, apre al pubblico “Empire State. Arte a New York oggi”, una mostra che si propone di esplorare i miti e le realtà mutevoli della città di New York intesa come “la nuova Roma”.
L’ambiziosa rassegna intergenerazionale che occuperà le sale del Palazzo delle Esposizioni proporrà al pubblico le opere di venticinque artisti newyorkesi, tra emergenti e affermati, ciascuno dei quali sarà presentato in modo approfondito anche grazie alla presenza di lavori inediti, qui esposti per la prima volta.
Il percorso espositivo suggerirà i diversi modi in cui è possibile per gli artisti re-immaginare il rapporto tra la loro comunità e la città, focalizzando l’attenzione sulle eterogenee reti di potere che ne condizionano la vita. Tramite la pittura, la scultura, la fotografia, i video e le installazioni, gli artisti di “Empire State” esaminano il ruolo di New York nel contesto globale, in un momento in cui la vita urbana è ovunque oggetto di una ridefinizione sempre più veloce.
Concepita da Alex Gartenfeld, curatore indipendente, scrittore ed editor residente a New York, nominato quest’anno curatore presso il Museum of Contemporary Art (MoCA) di Miami, e dal curatore britannico Sir Norman Rosenthal, “Empire State” rimarrà aperta al pubblico fino al 21 luglio 2013.
Questo l’elenco degli artisti presenti in mostra: Michele Abeles, Uri Aran, Darren Bader, Antoine Catala, Moyra Davey, Keith Edmier, LaToya Ruby Frazier, Dan Graham, Renée Green, Wade Guyton, Shadi Habib Allah, Jeff Koons, Nate Lowman, Daniel McDonald, Bjarne Melgaard, John Miller, Takeshi Murata, Virginia Overton, Joyce Pensato, Adrian Piper, Rob Pruitt, R. H. Quaytman, Tabor Robak, Julian Schnabel e Ryan Sullivan. Le opere esposte sono per la maggior parte frutto di nuove commissioni, integrate dai lavori più significativi eseguiti in anni recenti.
“Manhattan è un accumulo di possibili disastri che non avvengono mai”, ha scritto il celebre architetto e teorico Rem Koolhaas. Riguardo a New York, la leggenda più diffusa di un possibile disastro è quella della sua eclisse. Eppure, nell’era della globalizzazione, mentre gli esperti ne annunciano regolarmente il declino, la Grande Mela rimane una forza egemone delle arti visive, in costante dialogo e interazione con la più eterogenea concentrazione di artisti, musei, organizzazioni, gallerie e spazi pubblici. Dall’interno di questa struttura sociale e creativa, gli artisti di “Empire State” aprono spazi di potere e portano alla luce alcuni dei canali attraverso i quali la marea di comunicazione, immaginazione e persuasione fluisce all’interno della loro comunità per poi defluire nel mondo esterno.
Il titolo della mostra fa riferimento da un lato all’inno hip-hop creato nel 2009 dal re del rap Jay-Z con la musicista Alicia Keys e dall’altro a Empire, un trattato sul capitalismo globale guidato dagli Stati Uniti, pubblicato nel 2000 da Antonio Negri e Michael Hardt. Inoltre, “Empire State” può per certi versi essere considerata la risposta del XXI secolo al celebre ciclo pittorico “The Course of Empire” di Thomas Cole, un artista americano nato in Inghilterra. Realizzate a New York tra il 1833 e il 1836, le imponenti tele di Cole raffigurano l’ascesa e il declino di una città immaginaria situata, proprio come Manhattan, alla foce di un bacino fluviale. Nel 2013, a Roma, “Empire State” utilizza allegorie simili per illustrare le trasformazioni socio-economiche degli Stati Uniti e le loro ripercussioni sul ruolo, la fiducia in sé e la distribuzione del potere nella nazione. L’Empire State Building, un tempo il grattacielo più alto del mondo, è ancora un’attrazione turistica, ma oggi la sua mole sembra piccola in confronto ai mega edifici costruiti nei centri urbani in rapida espansione in remoti angoli del mondo.
Gli artisti di “Empire State” hanno dimestichezza con la critica istituzionale e gli studi sui media e l’economia, adottano tecniche ibride e interdisciplinari e utilizzano la tecnologia e l’astrazione per offrire nuovi modelli espressivi e interpretativi. I padiglioni a specchio di Dan Graham, ad esempio, gettano un ponte tra arte minimalista e architettura per riflettere e moltiplicare la forma umana. Nei tredici nuovi dipinti della serie “Antiquity”, Jeff Koons utilizza la tecnica con incredibile maestria per manifestare il proprio interesse nei confronti del classicismo e della mitologia greca e romana. Le nuove fotografie di Michele Abeles includono le sue vedute di installazioni, in un costante processo di revisione e adeguamento al contesto della propria autobiografia.
Per una nuova e singolare opera su commissione, Keith Edmier reinventa il monumentale baldacchino barocco della basilica di San Pietro seguendo il linguaggio vernacolare dell’antica Pennsylvania Station, pietra miliare della mitologia newyorkese. Progettata da McKim, Mead & White e realizzata nel 1910, all’apice della rivoluzione industriale americana, la “Penn Station” era uno straordinario capolavoro di architettura neoclassica d’impronta romana che attestava il ruolo di New York quale capitale culturale e commerciale del Nuovo Mondo. Fu ignominiosamente demolita nel 1963, al culmine della smania newyorkese per la “modernità”. Sostituita da una costruzione anonima e scomposta che ha l’effetto di un pugno in un occhio, la Penn Station sopravvive nell’immaginario collettivo come la testimonianza perduta di un impero passato e futuro.
Forse però l’aspetto più importante di “Empire State” sta nel far emergere una genealogia di artisti. Dovendo confrontarsi con un mondo dell’arte che assume sempre più una dimensione imprenditoriale e si espande a livello globale come una novella Bisanzio, gli artisti stanno attivando una serie di reti in perenne movimento: relazioni, collaborazioni e scambi che vanno al di là delle barriere imposte dalla generazione, dal genere, dall’ottica o dalla tecnica individuale. Così, R. H. Quaytman propone una nuova selezione dei suoi ritratti di artisti newyorkesi, espressione visiva dell’atto del lavorare in rete e dell’invisibile disegno tracciato dal potere e dallo scambio. La mostra presenta inoltre – per la prima volta in un contesto internazionale – l’opera di Tabor Robak, la cui arte circola principalmente in rete e solleva domande fondamentali sul nostro modo di definire la comunità internazionale dell’arte e sui suoi privilegi. Gli artisti di New York non sono nuovi alla manipolazione dell’autorialità attraverso i collettivi, e un numero significativo di quelli presenti in “Empire State” sono stati coinvolti in gruppi del genere. Tra questi ultimi, Orchard, Reena Spaulings, 179 Canal e Art Club 2000.
“Empire State” sarà accompagnata da un catalogo, edito da Skira, che comprende ampi contributi firmati dai curatori e da Tom McDonough, John Miller e Eileen Myles, un saggio visivo di Matt Keegan e testi originali su ciascun artista di critici e curatori di spicco come Vinzenz Brinkmann, Bonnie Clearwater, Kim Conaty, Bruce Hainley, Hans Ulrich Obrist, Tina Kukielski e altri.
L’ambiziosa rassegna intergenerazionale che occuperà le sale del Palazzo delle Esposizioni proporrà al pubblico le opere di venticinque artisti newyorkesi, tra emergenti e affermati, ciascuno dei quali sarà presentato in modo approfondito anche grazie alla presenza di lavori inediti, qui esposti per la prima volta.
Il percorso espositivo suggerirà i diversi modi in cui è possibile per gli artisti re-immaginare il rapporto tra la loro comunità e la città, focalizzando l’attenzione sulle eterogenee reti di potere che ne condizionano la vita. Tramite la pittura, la scultura, la fotografia, i video e le installazioni, gli artisti di “Empire State” esaminano il ruolo di New York nel contesto globale, in un momento in cui la vita urbana è ovunque oggetto di una ridefinizione sempre più veloce.
Concepita da Alex Gartenfeld, curatore indipendente, scrittore ed editor residente a New York, nominato quest’anno curatore presso il Museum of Contemporary Art (MoCA) di Miami, e dal curatore britannico Sir Norman Rosenthal, “Empire State” rimarrà aperta al pubblico fino al 21 luglio 2013.
Questo l’elenco degli artisti presenti in mostra: Michele Abeles, Uri Aran, Darren Bader, Antoine Catala, Moyra Davey, Keith Edmier, LaToya Ruby Frazier, Dan Graham, Renée Green, Wade Guyton, Shadi Habib Allah, Jeff Koons, Nate Lowman, Daniel McDonald, Bjarne Melgaard, John Miller, Takeshi Murata, Virginia Overton, Joyce Pensato, Adrian Piper, Rob Pruitt, R. H. Quaytman, Tabor Robak, Julian Schnabel e Ryan Sullivan. Le opere esposte sono per la maggior parte frutto di nuove commissioni, integrate dai lavori più significativi eseguiti in anni recenti.
“Manhattan è un accumulo di possibili disastri che non avvengono mai”, ha scritto il celebre architetto e teorico Rem Koolhaas. Riguardo a New York, la leggenda più diffusa di un possibile disastro è quella della sua eclisse. Eppure, nell’era della globalizzazione, mentre gli esperti ne annunciano regolarmente il declino, la Grande Mela rimane una forza egemone delle arti visive, in costante dialogo e interazione con la più eterogenea concentrazione di artisti, musei, organizzazioni, gallerie e spazi pubblici. Dall’interno di questa struttura sociale e creativa, gli artisti di “Empire State” aprono spazi di potere e portano alla luce alcuni dei canali attraverso i quali la marea di comunicazione, immaginazione e persuasione fluisce all’interno della loro comunità per poi defluire nel mondo esterno.
Il titolo della mostra fa riferimento da un lato all’inno hip-hop creato nel 2009 dal re del rap Jay-Z con la musicista Alicia Keys e dall’altro a Empire, un trattato sul capitalismo globale guidato dagli Stati Uniti, pubblicato nel 2000 da Antonio Negri e Michael Hardt. Inoltre, “Empire State” può per certi versi essere considerata la risposta del XXI secolo al celebre ciclo pittorico “The Course of Empire” di Thomas Cole, un artista americano nato in Inghilterra. Realizzate a New York tra il 1833 e il 1836, le imponenti tele di Cole raffigurano l’ascesa e il declino di una città immaginaria situata, proprio come Manhattan, alla foce di un bacino fluviale. Nel 2013, a Roma, “Empire State” utilizza allegorie simili per illustrare le trasformazioni socio-economiche degli Stati Uniti e le loro ripercussioni sul ruolo, la fiducia in sé e la distribuzione del potere nella nazione. L’Empire State Building, un tempo il grattacielo più alto del mondo, è ancora un’attrazione turistica, ma oggi la sua mole sembra piccola in confronto ai mega edifici costruiti nei centri urbani in rapida espansione in remoti angoli del mondo.
Gli artisti di “Empire State” hanno dimestichezza con la critica istituzionale e gli studi sui media e l’economia, adottano tecniche ibride e interdisciplinari e utilizzano la tecnologia e l’astrazione per offrire nuovi modelli espressivi e interpretativi. I padiglioni a specchio di Dan Graham, ad esempio, gettano un ponte tra arte minimalista e architettura per riflettere e moltiplicare la forma umana. Nei tredici nuovi dipinti della serie “Antiquity”, Jeff Koons utilizza la tecnica con incredibile maestria per manifestare il proprio interesse nei confronti del classicismo e della mitologia greca e romana. Le nuove fotografie di Michele Abeles includono le sue vedute di installazioni, in un costante processo di revisione e adeguamento al contesto della propria autobiografia.
Per una nuova e singolare opera su commissione, Keith Edmier reinventa il monumentale baldacchino barocco della basilica di San Pietro seguendo il linguaggio vernacolare dell’antica Pennsylvania Station, pietra miliare della mitologia newyorkese. Progettata da McKim, Mead & White e realizzata nel 1910, all’apice della rivoluzione industriale americana, la “Penn Station” era uno straordinario capolavoro di architettura neoclassica d’impronta romana che attestava il ruolo di New York quale capitale culturale e commerciale del Nuovo Mondo. Fu ignominiosamente demolita nel 1963, al culmine della smania newyorkese per la “modernità”. Sostituita da una costruzione anonima e scomposta che ha l’effetto di un pugno in un occhio, la Penn Station sopravvive nell’immaginario collettivo come la testimonianza perduta di un impero passato e futuro.
Forse però l’aspetto più importante di “Empire State” sta nel far emergere una genealogia di artisti. Dovendo confrontarsi con un mondo dell’arte che assume sempre più una dimensione imprenditoriale e si espande a livello globale come una novella Bisanzio, gli artisti stanno attivando una serie di reti in perenne movimento: relazioni, collaborazioni e scambi che vanno al di là delle barriere imposte dalla generazione, dal genere, dall’ottica o dalla tecnica individuale. Così, R. H. Quaytman propone una nuova selezione dei suoi ritratti di artisti newyorkesi, espressione visiva dell’atto del lavorare in rete e dell’invisibile disegno tracciato dal potere e dallo scambio. La mostra presenta inoltre – per la prima volta in un contesto internazionale – l’opera di Tabor Robak, la cui arte circola principalmente in rete e solleva domande fondamentali sul nostro modo di definire la comunità internazionale dell’arte e sui suoi privilegi. Gli artisti di New York non sono nuovi alla manipolazione dell’autorialità attraverso i collettivi, e un numero significativo di quelli presenti in “Empire State” sono stati coinvolti in gruppi del genere. Tra questi ultimi, Orchard, Reena Spaulings, 179 Canal e Art Club 2000.
“Empire State” sarà accompagnata da un catalogo, edito da Skira, che comprende ampi contributi firmati dai curatori e da Tom McDonough, John Miller e Eileen Myles, un saggio visivo di Matt Keegan e testi originali su ciascun artista di critici e curatori di spicco come Vinzenz Brinkmann, Bonnie Clearwater, Kim Conaty, Bruce Hainley, Hans Ulrich Obrist, Tina Kukielski e altri.
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