Per la prima volta una mostra indaga sul tema
Storia di una passione: Andy Warhol e il Selvaggio West
Andy Warhol, Mother and Child, 1986. Imitate Modern
Francesca Grego
26/08/2019
Mondo - Per Andy Warhol fu un’autentica passione, ma a nessuno finora era venuto in mente di indagarla a fondo. Stiamo parlando dell’attrazione per il Far West, cui il guru della Factory dedicò stampe e dipinti, una collezione personale, viaggi in New Mexico, Texas, Colorado e perfino un film a puntate, in un percorso che ne accompagnò tutta la vita.
Tutto questo è oggi materia della mostra Warhol and the West, appena inaugurata al Booth Western Art Museum di Cartersville, in Georgia, dove resterà aperta fino al 31 dicembre, prima di spostarsi a Oklahoma City e Tacoma, Washington, nel 2020. Non una semplice esposizione di opere – 100 i pezzi inclusi - ma un progetto ad ampio raggio volto a comprendere nelle sue diverse dimensioni l’amore dell’artista per la Frontiera e a metterlo in relazione con la cultura americana del suo tempo, spiega Seth Hopkins, direttore del museo statunitense e curatore della mostra insieme a Faith Brower del Tacoma Art Museum.
Come spesso accade nell’opera di Warhol, mito e realtà si mescolano: la storia è una meta-storia, filtrata attraverso volti del cinema e icone dell’immaginario collettivo. Tra gli highlight dell’allestimento, troviamo Indian Indian, che nel bicentenario della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti sceglie come soggetto l’attore Sioux e attivista per i diritti dei nativi Russell Means, Elvis 11 Times, in cui Warhol replica 95 volte in 36 dipinti l’immagine cinematografica di Presley nei panni di un mezzosangue dalla storia travagliata, e Time Capsules, installazione di oggetti e libri illustrati sul tema che l’icona della Pop Art collezionò nel corso di molti anni.
Tra gli stivali da cowboy indossati dall’artista e gli album ingialliti con le star dei film western (che rintracciano nell’infanzia la fonte della sua passione), raggiungiamo la tappa più controversa: la coloratissima serie Cowboys and Indians, realizzata da Warhol nel 1986, poco prima della sua scomparsa. Qui star hollywoodiane come John Wayne e personaggi storici come il generale Custer incontrano il capo Apache Geronimo, un’anonima madre nativa con il bambino sulle spalle e un gruppo di bambole tradizionali Kachina, fotografate dall’artista al National Museum of American Indian.
Qual è il senso di questi accostamenti? Per Warhol c'era differenza tra Toro Seduto, Custer e la Zuppa Campbell? Difficile trovare un artista più apolitico di lui, eppure secondo gli ideatori del progetto il fondatore della Factory non potè ignorare le implicazioni dell’operazione “West”. Come ne venne a capo? Nel catalogo della mostra la studiosa Dorothy Joiner parla di “giustapposizioni calcolate” che incoraggiano a “riconsiderare il concetto di eroe del West portando alla ribalta gli eroi silenziosi, i Nativi Americani”.
La curatrice dell’American Indian Cultural Center and Museum Heather Atone, invece, mette a confronto le opere di Warhol e i discussi ritratti fotografici dei nativi che Edward Curtis realizzò agli albori del XX secolo (Warhol ne possedeva diversi esemplari nella sua collezione). “Quello che emerge – scrive Atone – è che l’immagine degli Indiani Americani è stata per lungo tempo controllata, costruita e manipolata da persone non native che guardavano a loro come a figure mitiche e contemporaneamente a soggetti da sfruttare in chiave commerciale. Warhol and the West evidenzia l’importanza dell’epopea del West e delle sue narrazioni nell’opera di Warhol e nello stesso momento pone domande scomode attorno a dinamiche come la costruzione del mito, la mercificazione e l’appropriazione culturale, senza i quali i lavori di Warhol non avrebbero avuto la stessa forza”.
Leggi anche:
• Dagli Impressionisti a Chagall, un autunno di mostre da non perdere
Tutto questo è oggi materia della mostra Warhol and the West, appena inaugurata al Booth Western Art Museum di Cartersville, in Georgia, dove resterà aperta fino al 31 dicembre, prima di spostarsi a Oklahoma City e Tacoma, Washington, nel 2020. Non una semplice esposizione di opere – 100 i pezzi inclusi - ma un progetto ad ampio raggio volto a comprendere nelle sue diverse dimensioni l’amore dell’artista per la Frontiera e a metterlo in relazione con la cultura americana del suo tempo, spiega Seth Hopkins, direttore del museo statunitense e curatore della mostra insieme a Faith Brower del Tacoma Art Museum.
Come spesso accade nell’opera di Warhol, mito e realtà si mescolano: la storia è una meta-storia, filtrata attraverso volti del cinema e icone dell’immaginario collettivo. Tra gli highlight dell’allestimento, troviamo Indian Indian, che nel bicentenario della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti sceglie come soggetto l’attore Sioux e attivista per i diritti dei nativi Russell Means, Elvis 11 Times, in cui Warhol replica 95 volte in 36 dipinti l’immagine cinematografica di Presley nei panni di un mezzosangue dalla storia travagliata, e Time Capsules, installazione di oggetti e libri illustrati sul tema che l’icona della Pop Art collezionò nel corso di molti anni.
Tra gli stivali da cowboy indossati dall’artista e gli album ingialliti con le star dei film western (che rintracciano nell’infanzia la fonte della sua passione), raggiungiamo la tappa più controversa: la coloratissima serie Cowboys and Indians, realizzata da Warhol nel 1986, poco prima della sua scomparsa. Qui star hollywoodiane come John Wayne e personaggi storici come il generale Custer incontrano il capo Apache Geronimo, un’anonima madre nativa con il bambino sulle spalle e un gruppo di bambole tradizionali Kachina, fotografate dall’artista al National Museum of American Indian.
Qual è il senso di questi accostamenti? Per Warhol c'era differenza tra Toro Seduto, Custer e la Zuppa Campbell? Difficile trovare un artista più apolitico di lui, eppure secondo gli ideatori del progetto il fondatore della Factory non potè ignorare le implicazioni dell’operazione “West”. Come ne venne a capo? Nel catalogo della mostra la studiosa Dorothy Joiner parla di “giustapposizioni calcolate” che incoraggiano a “riconsiderare il concetto di eroe del West portando alla ribalta gli eroi silenziosi, i Nativi Americani”.
La curatrice dell’American Indian Cultural Center and Museum Heather Atone, invece, mette a confronto le opere di Warhol e i discussi ritratti fotografici dei nativi che Edward Curtis realizzò agli albori del XX secolo (Warhol ne possedeva diversi esemplari nella sua collezione). “Quello che emerge – scrive Atone – è che l’immagine degli Indiani Americani è stata per lungo tempo controllata, costruita e manipolata da persone non native che guardavano a loro come a figure mitiche e contemporaneamente a soggetti da sfruttare in chiave commerciale. Warhol and the West evidenzia l’importanza dell’epopea del West e delle sue narrazioni nell’opera di Warhol e nello stesso momento pone domande scomode attorno a dinamiche come la costruzione del mito, la mercificazione e l’appropriazione culturale, senza i quali i lavori di Warhol non avrebbero avuto la stessa forza”.
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