Gianfranco Ferroni. La luce della solitudine
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Dal 14 Maggio 2015 al 05 Giugno 2015
Firenze
Luogo: Sala delle Reali Poste degli Uffizi
Indirizzo: piazzale degli Uffizi
Orari: dal martedì alla domenica 10-17
Curatori: Vincenzo Farinella
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Telefono per informazioni: +39 055 23885
La mostra che s’è voluto salutasse la donazione d’un autoritratto di Gianfranco Ferroni alla Galleria degli Uffizi porta lo stesso titolo d’una sua opera del 1989: La luce della solitudine, appunto.
È del tutto palese che la luce (e, per naturale conseguenza, il suo contrario) sia da sempre determinante nelle opere di Ferroni. A mutare è semmai la relazione ch’essa instaura con le ombre e col buio. Secondando il tragitto cronologico della sua produzione, ci s’accorgerà – anche qui alle Reali Poste – che ai tempi del suo coinvolgimento più appassionato nell’impegno politico e dell’adesione a un linguaggio energico e veemente, luce e buio si contrappongono con un rigore fiero e financo aspro. Com’è dato vedere nei drammi più vibranti di Caravaggio; la cui evocazione è ricorrente nell’esegesi dei quadri di Ferroni.
E – se anche l’ascendente del Merisi non fosse così manifesto – a chiarire il trasporto del pittore moderno nei riguardi del maestro antico basterebbero gli omaggi espliciti che lo stesso Ferroni gli tributa e che alle Reali Poste s’apprezzano nella quasi letterale citazione dalla Vocazione di san Matteo della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Si deve dire “quasi letterale” giacché la scena è priva d’ogni presenza umana; che invece nel modello affolla la ribalta. Di presenze, nella replica dei giorni nostri, la sola che rimane è quella divina; quella cioè della Grazia; che, assumendo le sembianze della luce, aveva pervaso la stanza quando Cristo vi era entrato e aveva additato l’esattore, intento a contare sul tavolo i danari delle tasse.
È come se Ferroni avesse atteso l’uscita degli attori dal teatro, e dalla platea guardasse il palco; o, meglio, il fondale su cui prima si schieravano protagonisti e comprimari. Ecco la solitudine; che la luce – dismesse le asprezze d’una stagione ormai superata – rivela, illuminandola d’una chiarità più soave. Ecco il silenzio: la poesia assorta del silenzio. Ecco il deserto dei luoghi; che poi è lo stesso vuoto delle tante stanze (quasi sempre le sue) che Ferroni per decenni si figura, di tanto in tanto dotandolo della sua unica presenza (ripresa talvolta in transito fugace; magari fermando sul margine della tela un brano di jeans che copre il polpaccio d’una gamba in procinto d’uscire fuori campo, per scomparire – si presume – in un altro vuoto). Sicché s’indovina che la solitudine è segnatamente la sua.
È del tutto palese che la luce (e, per naturale conseguenza, il suo contrario) sia da sempre determinante nelle opere di Ferroni. A mutare è semmai la relazione ch’essa instaura con le ombre e col buio. Secondando il tragitto cronologico della sua produzione, ci s’accorgerà – anche qui alle Reali Poste – che ai tempi del suo coinvolgimento più appassionato nell’impegno politico e dell’adesione a un linguaggio energico e veemente, luce e buio si contrappongono con un rigore fiero e financo aspro. Com’è dato vedere nei drammi più vibranti di Caravaggio; la cui evocazione è ricorrente nell’esegesi dei quadri di Ferroni.
E – se anche l’ascendente del Merisi non fosse così manifesto – a chiarire il trasporto del pittore moderno nei riguardi del maestro antico basterebbero gli omaggi espliciti che lo stesso Ferroni gli tributa e che alle Reali Poste s’apprezzano nella quasi letterale citazione dalla Vocazione di san Matteo della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Si deve dire “quasi letterale” giacché la scena è priva d’ogni presenza umana; che invece nel modello affolla la ribalta. Di presenze, nella replica dei giorni nostri, la sola che rimane è quella divina; quella cioè della Grazia; che, assumendo le sembianze della luce, aveva pervaso la stanza quando Cristo vi era entrato e aveva additato l’esattore, intento a contare sul tavolo i danari delle tasse.
È come se Ferroni avesse atteso l’uscita degli attori dal teatro, e dalla platea guardasse il palco; o, meglio, il fondale su cui prima si schieravano protagonisti e comprimari. Ecco la solitudine; che la luce – dismesse le asprezze d’una stagione ormai superata – rivela, illuminandola d’una chiarità più soave. Ecco il silenzio: la poesia assorta del silenzio. Ecco il deserto dei luoghi; che poi è lo stesso vuoto delle tante stanze (quasi sempre le sue) che Ferroni per decenni si figura, di tanto in tanto dotandolo della sua unica presenza (ripresa talvolta in transito fugace; magari fermando sul margine della tela un brano di jeans che copre il polpaccio d’una gamba in procinto d’uscire fuori campo, per scomparire – si presume – in un altro vuoto). Sicché s’indovina che la solitudine è segnatamente la sua.
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