Marco Bagnoli. Noli me tangere

Marco Bagnoli. Noli me tangere, Casa del Pontormo, Empoli

 

Dal 29 Novembre 2013 al 02 Marzo 2014

Empoli | Firenze

Luogo: Casa del Pontormo

Indirizzo: via Pontorme 97

Orari: da martedì a sabato 10-17; domenica 14-18

Curatori: Cristina Gelli

Enti promotori:

  • Regione Toscana

Costo del biglietto: intero € 6, ridotto € 3/ € 1.50, gratuito fino a 8 anni

Telefono per informazioni: +39 0571 7577/ 29

E-Mail info: cultura@comune.empoli.fi.it

Sito ufficiale: http://www.comune.empoli.fi.it/pontormo/


“Non è buon erede chi protegge nel buio d’una stanza il tesoro gratuitamente ricevuto dai progenitori, ma piuttosto chi mette in pratica le virtù che hanno reso possibile la costituzione di quel tesoro medesimo”. Da questa suggestione – espressa da Antonio Natali, Direttore degli Uffizi e curatore della mostra “Pontormo e il suo seguito nelle terre di Empoli” insieme a Cristina Gelli – nasce l’idea di unire in un percorso attraverso il tempo l’opera del celebre pittore empolese Jacopo Carucci, detto il Pontormo, e quella degli artisti che ebbero in lui un modello da seguire, fino ad arrivare a chi oggi, come Marco Bagnoli, nello stesso territorio ne raccoglie l’eredità. In una commistione coraggiosa di passato e presente.
L’itinerario “nel tempo” parte dalla Casa natale del Pontormo e si snoda fino alla Chiesa e alla Compagnia di San Michele arcangelo, dove è custodita la pala con San Giovanni evangelista e San Michele, realizzata dal Pontormo per i suoi concittadini. Un percorso che arriva fino al primo piano della Casa del Pontormo, dove è collocata l’installazione Noli me tangere di Marco Bagnoli. 
Nella sua installazione Bagnoli si ispira all’opera del Pontormo “Giuseppe in Egitto”, come sottolinea Antonio Natali: “Su una colonna, che si drizza costeggiando il margine sinistro della storia, s’allunga sdilinquito il nudo atletico d’un giovane, che protende verso il cielo (additando in alto) il braccio destro. Il volto di lui, uniformandosi all’inclinazione e alle sembianze dell’Alessandro morente (rinomato marmo ellenistico), si volge, con lo sguardo accorato, là dove la mano indica; ch’è poi il luogo invisibile dove si protendono, nella loro astrazione, pensieri e sentimenti. È giusto a questa statua dipinta da Jacopo che Marco Bagnoli s’ispira quando pone in cima a tre colonne altrettante figure scolpite in analogia con l’atleta Borgherini; colonne che, per come Marco le ha concepite, paiono ruotare su se stesse, viepiù accentuando la spinta ascensionale che impronta anche l’atleta pontormesco; cui formalmente era affidato il compito (al pari della scala elicoidale che aggira la piattaforma solida dove si dipana uno degli episodi privilegiati) di dare sfogo alla narrazione, che segnatamente in basso s’affolla d’attori.
Marco con la sua invenzione mostra di voler ulteriormente esaltare il patetismo di quel dettaglio del pannello di Jacopo. Lo fa, non solo sfruttando la forma delle colonne (pensate come fossero d’argilla e girassero sul tornio d’un plasticatore), ma anche facendo delle figure medesime, al colmo di quei tortili sostegni, il fulcro d’orbite messe in tralice a secondare l’inclinazione del braccio levato in alto (idealmente, così, imponendo loro una postura avvitata; ch’era poi quella cui tante volte gli scultori ellenistici conformavano le proprie statue, con l’intento d’enfatizzarne il languore).
Il braccio destro levato in alto, che nel nudo pontormesco invitava a concetti elevati, si fa sostegno nell’opera attuale d’una superficie convessa specchiante, che duplica, ribaltando le immagini, lo struggimento di quelle forme. E finalmente, con un tocco di poesia discreta (peculiare di quei paesi d’oriente che incantano Marco), l’invenzione viene proiettata sul muro, sommuovendone la superficie con le ombre di vibratili siluette flessuose. Rifiorisce, così, nella casa che vide Jacopo venire al mondo e poi partire (ch’era ancora piccino), un esito del suo spirito, ricreato da un artista (nato e cresciuto – secoli dopo – nelle stesse terre di lui) con la consapevolezza che un’eredità non si conserva nei suoi prodotti materiali e basta. Il vero erede s’impegna perché ne vengano frutti buoni. Lo farà sapendo però di dover assumere dai padri quelle qualità di mente e di cuore che l’hanno reso grande.”   

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