Mario Giacomelli. La terra veniva come magica / Io non faccio il fotografo non so farlo
Dal 13 Ottobre 2016 al 28 Novembre 2016
Milano
Luogo: Studio Guastalla Arte Moderna e Contemporanea / The Lone T art space
Indirizzo: Via Senato 24
Orari: 10-13 / 15-19; chiuso lunedì e festivi
Telefono per informazioni: +39 02 780918
E-Mail info: info@guastalla.com
Sito ufficiale: http://www.guastalla.com
Lo Studio Guastalla e The Lone T art space inaugurano in contemporanea nei loro spazi di via Senato, 24 due mostre sull’opera di Mario Giacomelli.
Studio Guastalla "E la terra veniva come magica"
The Lone T art space "Io non faccio il fotografo non so farlo"
Studio Guastalla Arte Moderna e Contemporanea presenta con questa mostra una ventina di fotografie di Mario Giacomelli che risalgono agli anni cinquanta, sessanta e settanta e appartengono ai suoi cicli più celebri, da Scanno ai Pretini ai Paesaggi.
Le foto di Giacomelli non sono mai resoconti, réportages, testimonianze di avvenimenti.
“La mia è una mediazione tra realtà-fantasia. Immagini volute, create, come pensiero, come segno di un movimento interiore”, scrive Giacomelli negli appunti di lavoro. E’ lui stesso a creare le immagini, a formarle, a provocarle, scatenando una battaglia di palle di neve nel seminario di Senigallia, chiedendo ai contadini, dietro compenso, di arare i campi con i segni precisi che ha in mente (anticipando la Land Art), imponendo alla madre che posa per lui movimenti specifici, mescolando nelle stesse foto soggetti di tempi e luoghi diversi attraverso le sovraimpressioni. “Il contadino quando c’era un albero, con il suo animale avanti che lavorava la terra, faceva un po’ una curva con l’aratro e quindi aggiungeva segni e la terra veniva come magica. E allora ho pensato di avvicinarmi di più alla terra e avvicinandoti scopri qual è la misura giusta per riprendere il paesaggio”. La magia di cui parla è nei segni della terra, nell’aura che circonda il “bambino di Scanno”, nelle geometrie guizzanti degli abiti dei pretini.
Le immagini sono “foreste di segni”, intrecci di significanti che riportano il singolo soggetto all’interno di un tutto indiviso, di un universale, di una serie di interrelazioni che collegano i solchi nella terra alle rughe dei volti alle fenditure dei tronchi. Presenze, simboli dell’umanità, alter ego dell’artista e del suo male di esistere. Un mondo, quello di Giacomelli, in cui le cose non sono classificate, divise, ma appartengono alla stessa realtà, luogo di indistinte connessioni. In questo mondo il fotografo entra con il suo corpo, attraverso l’autoscatto, con l’inclusione della sua ombra. “Non vorrei ripetere le cose visibili, ma renderle visibili, interiorizzate, vorrei poter scivolare sotto la pelle delle cose, poter mostrare l’energia che passa tra l’anima mia e le cose che mi sono attorno”, scrive. E’ un mondo in continuo mutamento, una metamorfosi incessante che Giacomelli segue intervenendo sulla stessa foto in tempi diversi, con mutazioni, riprese, recuperi, ristampe, riattualizzando, dando nuovi significati.
“Le mie immagini portano sempre amore-rispetto verso l’uomo, cioè l’uomo che sognando ha seminato grano o altro. Nella terra c’è il passare delle stagioni e l’uomo man mano che respira... dalle mie foto si deve sentire; ci sono le rughe del suo volto, ma anche i segni della sua mano. In alcuni miei paesaggi ci sono le stesse pieghe che si vedono se uno prende una lente d’ingrandimento e guarda una mano; questo lavoro dell’uomo è come ingrandito con una grande lente nella terra. In queste foto rimane la traccia dell’intervento - nelle poesie e nei racconti come nei paesaggi - che mi porta fuori dal quotidiano, dal contatto traumatico con l’esistenza. Cioè mi servo di qualcosa di reale che però, in un certo senso, è fuori dal quotidiano, perché sono più delle ricerche interiori.”
“Mario Giacomelli. Non faccio il fotografo, non so farlo”. Lo spazio per l’arte The Lone T presenta una mostra e un libro a cura di Katiuscia Biondi Giacomelli, direttrice dell’Archivio Mario Giacomelli – Sassoferrato, in collaborazione con Claude Nori (Ed. Contrejour).
Opere inedite della maturità di Mario Giacomelli, sono affiancate ai suoi esemplari più storici, rivelando come l’opera nasca dall’inalienabile bisogno di creare, di esprimersi, con un linguaggio coerente e tenace, lungo un’intera vita.
Mario Giacomelli è stato da sempre recalcitrante alla definizione di se stesso come “fotografo”, perché il suo impegno non si conclude nell’atto di uno o più scatti. C’è qualcosa che va al di là della fotografia stessa. La fotografia è un percorso, un continuum, un’esigenza imprescindibile di cercarsi in rapporto al mondo. Sentire la fotografia come lui la sentiva: questo è l’intento del progetto espositivo/editoriale.
Magma materico, sistema organico, linguaggio vivido e palpitante, dentro a quel bianco che mangia e dietro a quei segni neri chiusi che a volte stridono, ma sempre si rincorrono, segni ancestrali che ritornano, simbolici, rituali. Sono i nomi nuovi che Giacomelli ha dato alle cose, fotografandole, a rendere tutto in metamorfosi continua, ed è qui che ci si può cercare.
Il libro e la mostra “Mario Giacomelli. Non faccio il fotografo, non so farlo” presentano immagini in movimento - tali sono le fotografie di Giacomelli - che si inseguono vicendevolmente e diventano scrittura: un discorso esistenziale grammaticalmente regolato reinventato ex novo, e che con le sue rime, le assonanze, le allitterazioni e gli ossimori, ci lega ad esso emotivamente, come poesia. Un discorso che Giacomelli fa per esprimersi sinesteticamente con tutto il corpo, e così “entrare sotto la pelle del reale”. Il corpo, la Materia: tutto quel che conta, alla fine. Mario Giacomelli (1925 - 2000)
Nasce a Senigallia, città dalla quale non si allontanerà mai, spazio circoscritto in cui Giacomelli ha creato quasi tutto il suo corpus fotografico.
Nel 1950 apre la Tipografia Marchigiana, in via Mastai 5, che negli anni diverrà luogo di “peregrinaggio” di artisti, critici, studiosi di tutto il mondo che vogliono conoscere il Maestro di persona. Nel ‘53 Giacomelli acquista una Bencini Comet e inizia a fotografare assiduamente parenti e colleghi; è in questo periodo che conosce Giuseppe Cavalli, fotografo e critico d’arte carismatico che lo inizia alla riflessione sulla Fotografia e sull’Arte, introducendolo nell’ambiente dei grandi circoli fotografici, come la “Bussola” e la “Gondola”, e ai concorsi fotografici. Nel ‘54 a Senigallia si costituisce il gruppo fotografico “Misa” a cui Giacomelli aderisce. La strada verso la notorietà è aperta dalla vittoria al prestigioso Concorso Nazionale di Castelfranco Veneto nel ‘55, dove Paolo Monti, della giuria, denomina Giacomelli “l’Uomo Nuovo della Fotografia”. Nel ‘55 entra in scena la Kobell Press, da cui il fotografo non si dividerà mai, considerandola parte del suo corpo.
Il suo stile è inconfondibile, e quel che da principio fu visto come scandaloso errore (il bianco che mangia di un contrasto eccessivo e tragico, il mosso e lo sfocato e tutti i suoi modi di essenzializzare il reale fino a farlo diventare pura materia brulicante che fonde il passato con il presente) diviene il tratto riconoscibile del suo linguaggio. L’oltreoceano lo acclama: John Szarkowski, direttore del dipartimento di Fotografia del MOMA di New York, nel ‘64 acquisisce la serie Scanno e alcune immagini della serie Pretini (Io non ho mani che mi accarezzino il volto). Ormai la sua fama è mondiale. Nello stesso anno (e nel 1978) partecipa alla Biennale di Venezia. Gli anni ‘60/70 vedono un Giacomelli preso anche nell’espressione pittorica di stampo Informale, pur restando la fotografia il suo vero grande mezzo espressivo, attraverso cui non smetterà mai di sperimentare e di indagare la realtà e se stesso.
Le sue opere sono conservate nei maggiori musei del mondo, riconosciuto all’unanimità come Maestro della Fotografia e poeta dell’immagine. Giacomelli ha creato un linguaggio tutto suo regolato da un sistema grammaticale e rituale, che gli ha permesso di accedere per un’intera vita alla sua profonda dimensione interiore.
Inaugurazione giovedì 13 ottobre ore 18
Studio Guastalla "E la terra veniva come magica"
The Lone T art space "Io non faccio il fotografo non so farlo"
Studio Guastalla Arte Moderna e Contemporanea presenta con questa mostra una ventina di fotografie di Mario Giacomelli che risalgono agli anni cinquanta, sessanta e settanta e appartengono ai suoi cicli più celebri, da Scanno ai Pretini ai Paesaggi.
Le foto di Giacomelli non sono mai resoconti, réportages, testimonianze di avvenimenti.
“La mia è una mediazione tra realtà-fantasia. Immagini volute, create, come pensiero, come segno di un movimento interiore”, scrive Giacomelli negli appunti di lavoro. E’ lui stesso a creare le immagini, a formarle, a provocarle, scatenando una battaglia di palle di neve nel seminario di Senigallia, chiedendo ai contadini, dietro compenso, di arare i campi con i segni precisi che ha in mente (anticipando la Land Art), imponendo alla madre che posa per lui movimenti specifici, mescolando nelle stesse foto soggetti di tempi e luoghi diversi attraverso le sovraimpressioni. “Il contadino quando c’era un albero, con il suo animale avanti che lavorava la terra, faceva un po’ una curva con l’aratro e quindi aggiungeva segni e la terra veniva come magica. E allora ho pensato di avvicinarmi di più alla terra e avvicinandoti scopri qual è la misura giusta per riprendere il paesaggio”. La magia di cui parla è nei segni della terra, nell’aura che circonda il “bambino di Scanno”, nelle geometrie guizzanti degli abiti dei pretini.
Le immagini sono “foreste di segni”, intrecci di significanti che riportano il singolo soggetto all’interno di un tutto indiviso, di un universale, di una serie di interrelazioni che collegano i solchi nella terra alle rughe dei volti alle fenditure dei tronchi. Presenze, simboli dell’umanità, alter ego dell’artista e del suo male di esistere. Un mondo, quello di Giacomelli, in cui le cose non sono classificate, divise, ma appartengono alla stessa realtà, luogo di indistinte connessioni. In questo mondo il fotografo entra con il suo corpo, attraverso l’autoscatto, con l’inclusione della sua ombra. “Non vorrei ripetere le cose visibili, ma renderle visibili, interiorizzate, vorrei poter scivolare sotto la pelle delle cose, poter mostrare l’energia che passa tra l’anima mia e le cose che mi sono attorno”, scrive. E’ un mondo in continuo mutamento, una metamorfosi incessante che Giacomelli segue intervenendo sulla stessa foto in tempi diversi, con mutazioni, riprese, recuperi, ristampe, riattualizzando, dando nuovi significati.
“Le mie immagini portano sempre amore-rispetto verso l’uomo, cioè l’uomo che sognando ha seminato grano o altro. Nella terra c’è il passare delle stagioni e l’uomo man mano che respira... dalle mie foto si deve sentire; ci sono le rughe del suo volto, ma anche i segni della sua mano. In alcuni miei paesaggi ci sono le stesse pieghe che si vedono se uno prende una lente d’ingrandimento e guarda una mano; questo lavoro dell’uomo è come ingrandito con una grande lente nella terra. In queste foto rimane la traccia dell’intervento - nelle poesie e nei racconti come nei paesaggi - che mi porta fuori dal quotidiano, dal contatto traumatico con l’esistenza. Cioè mi servo di qualcosa di reale che però, in un certo senso, è fuori dal quotidiano, perché sono più delle ricerche interiori.”
“Mario Giacomelli. Non faccio il fotografo, non so farlo”. Lo spazio per l’arte The Lone T presenta una mostra e un libro a cura di Katiuscia Biondi Giacomelli, direttrice dell’Archivio Mario Giacomelli – Sassoferrato, in collaborazione con Claude Nori (Ed. Contrejour).
Opere inedite della maturità di Mario Giacomelli, sono affiancate ai suoi esemplari più storici, rivelando come l’opera nasca dall’inalienabile bisogno di creare, di esprimersi, con un linguaggio coerente e tenace, lungo un’intera vita.
Mario Giacomelli è stato da sempre recalcitrante alla definizione di se stesso come “fotografo”, perché il suo impegno non si conclude nell’atto di uno o più scatti. C’è qualcosa che va al di là della fotografia stessa. La fotografia è un percorso, un continuum, un’esigenza imprescindibile di cercarsi in rapporto al mondo. Sentire la fotografia come lui la sentiva: questo è l’intento del progetto espositivo/editoriale.
Magma materico, sistema organico, linguaggio vivido e palpitante, dentro a quel bianco che mangia e dietro a quei segni neri chiusi che a volte stridono, ma sempre si rincorrono, segni ancestrali che ritornano, simbolici, rituali. Sono i nomi nuovi che Giacomelli ha dato alle cose, fotografandole, a rendere tutto in metamorfosi continua, ed è qui che ci si può cercare.
Il libro e la mostra “Mario Giacomelli. Non faccio il fotografo, non so farlo” presentano immagini in movimento - tali sono le fotografie di Giacomelli - che si inseguono vicendevolmente e diventano scrittura: un discorso esistenziale grammaticalmente regolato reinventato ex novo, e che con le sue rime, le assonanze, le allitterazioni e gli ossimori, ci lega ad esso emotivamente, come poesia. Un discorso che Giacomelli fa per esprimersi sinesteticamente con tutto il corpo, e così “entrare sotto la pelle del reale”. Il corpo, la Materia: tutto quel che conta, alla fine. Mario Giacomelli (1925 - 2000)
Nasce a Senigallia, città dalla quale non si allontanerà mai, spazio circoscritto in cui Giacomelli ha creato quasi tutto il suo corpus fotografico.
Nel 1950 apre la Tipografia Marchigiana, in via Mastai 5, che negli anni diverrà luogo di “peregrinaggio” di artisti, critici, studiosi di tutto il mondo che vogliono conoscere il Maestro di persona. Nel ‘53 Giacomelli acquista una Bencini Comet e inizia a fotografare assiduamente parenti e colleghi; è in questo periodo che conosce Giuseppe Cavalli, fotografo e critico d’arte carismatico che lo inizia alla riflessione sulla Fotografia e sull’Arte, introducendolo nell’ambiente dei grandi circoli fotografici, come la “Bussola” e la “Gondola”, e ai concorsi fotografici. Nel ‘54 a Senigallia si costituisce il gruppo fotografico “Misa” a cui Giacomelli aderisce. La strada verso la notorietà è aperta dalla vittoria al prestigioso Concorso Nazionale di Castelfranco Veneto nel ‘55, dove Paolo Monti, della giuria, denomina Giacomelli “l’Uomo Nuovo della Fotografia”. Nel ‘55 entra in scena la Kobell Press, da cui il fotografo non si dividerà mai, considerandola parte del suo corpo.
Il suo stile è inconfondibile, e quel che da principio fu visto come scandaloso errore (il bianco che mangia di un contrasto eccessivo e tragico, il mosso e lo sfocato e tutti i suoi modi di essenzializzare il reale fino a farlo diventare pura materia brulicante che fonde il passato con il presente) diviene il tratto riconoscibile del suo linguaggio. L’oltreoceano lo acclama: John Szarkowski, direttore del dipartimento di Fotografia del MOMA di New York, nel ‘64 acquisisce la serie Scanno e alcune immagini della serie Pretini (Io non ho mani che mi accarezzino il volto). Ormai la sua fama è mondiale. Nello stesso anno (e nel 1978) partecipa alla Biennale di Venezia. Gli anni ‘60/70 vedono un Giacomelli preso anche nell’espressione pittorica di stampo Informale, pur restando la fotografia il suo vero grande mezzo espressivo, attraverso cui non smetterà mai di sperimentare e di indagare la realtà e se stesso.
Le sue opere sono conservate nei maggiori musei del mondo, riconosciuto all’unanimità come Maestro della Fotografia e poeta dell’immagine. Giacomelli ha creato un linguaggio tutto suo regolato da un sistema grammaticale e rituale, che gli ha permesso di accedere per un’intera vita alla sua profonda dimensione interiore.
Inaugurazione giovedì 13 ottobre ore 18
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