Pádraig Timoney. A lu tiempo de...
Dal 07 Febbraio 2014 al 12 Maggio 2014
Napoli
Luogo: Madre - Museo d'Arte Donna Regina
Indirizzo: via Settembrini 79
Orari: da lunedì a sabato 10-19.30; domenica 10-20
Curatori: Alessandro Rabottini
Telefono per informazioni: +39 081 19313016
E-Mail info: info@madrenapoli.it
Sito ufficiale: http://www.madrenapoli.it
Il Madre presenta dall' 8 febbraio al 12 maggio 2014 la prima e più ampia mostra personale mai dedicata da un’istituzione pubblica, non solo italiana, al lavoro dell’artista irlandese Pádraig Timoney (Derry, 1968) che vive e lavora a New York.
Questa retrospettiva di metà carriera – che comprende oltre cinquanta opere realizzate nell’arco degli ultimi venti anni – rappresenta anche un ritorno simbolico per l’artista a Napoli, città che Timoney ha eletto a suo luogo di residenza e produzione dal 2004 al 2011, prima di trasferirsi a New York.
A Napoli l’artista rende omaggio sin dal titolo stesso della mostra, che cita l’incipit di ‘O Cunto ‘E Masaniello, una canzone pubblicata nel 1974 dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare.
Il lavoro di Pádraig Timoney è un’esplorazione profonda e personale di tutti i linguaggi della pittura e della natura delle immagini, realizzata attraverso l’uso di mezzi espressivi differenti: accanto al medium principale della pittura, infatti, l’artista fa uso di fotografia, scultura e installazione, creando un universo visivo improntato a un radicale eclettismo. Davanti a una serie di opere di Timoney si può avere l’impressione di trovarsi all’interno di una mostra collettiva, tanto diversi sono gli stili, le tecniche e le atmosfere che definiscono i suoi lavori: l’astrazione convive con il più fedele foto-realismo, la gestualità si accompagna a un’estetica quasi meditativa, mentre una erudita relazione con la storia dell’arte si fonde con la comprensione degli aspetti più contemporanei, finanche banali, della nostra cultura globalizzata e digitale.
L’apparente incongruenza delle forme e dei linguaggi che contraddistingue il lavoro di Pádraig Timoney corrisponde, in realtà, a una strategia artistica rigorosa e assolutamente consapevole, al centro della quale troviamo tanto una critica della nozione di “stile” quanto il desiderio di esplorare l’arte in tutte le sue potenzialità estetiche e concettuali. Il concetto di stile come fattore unitario e identificabile è un pilastro su cui si fonda la storia dell’arte, un assunto che Timoney mette in discussione giustapponendo tra loro codici e stati d’animo apparentemente opposti e inconciliabili, rendendo così giustizia alla molteplicità delle forme con cui la realtà si presenta ai nostri occhi, al modo di percepirla e comprenderla, e alla complessità dei modi con cui ci relazioniamo alle immagini, ai loro significati e alle loro storie.
L’apparente eclettismo di Pádraig Timoney affonda le radici in un’ampia serie di esperienze artistiche più o meno recenti, rivelando in questo modo una pratica colta, ma all’interno della quale lo spettatore è lasciato libero di cercare il proprio orizzonte di significati. L’ambiguità che Timoney persegue tra immagine, supporto e linguaggio, tra l’informazione visiva e la sua realtà materiale, evoca la pittura di tradizione surrealista, dai paradossi visivi e linguistici di René Magritte alla qualità enigmatica dei materiali e delle forme di Max Ernst. Timoney fonde tra loro l’illusionismo di Étant donnés, l’ultima opera di Marcel Duchamp – e il ricorrere di porte e finestre nell’opera dell’artista francese – e l’interpretazione che il Rinascimento ha dato della pittura come finestra e affaccio sulla realtà, come è evidente in alcune opere in mostra come Sade’s Versus Lacoste (2007), Untitled - meepmeep popup (2011) e Untitled - Starry Mantle and the Door (2007).
La natura profondamente fotografica di gran parte del lavoro di Timoney e il suo incessante sperimentalismo dei materiali e dei supporti, inoltre, rendono evidente la riflessione che l’artista ha maturato sull’opera di nomi come Robert Rauschenberg, Andy Warhol, Gerhard Richter e Sigmar Polke, solo per citarne alcuni. La ricchezza di questa riflessione è esplicita non soltanto in opere che rivelano un’immediata matrice fotografica – come Capass (2010) e Detroit (2003) – ma anche, e soprattutto, nei molti lavori basati su un’indagine dei meccanismi della visione e della trasmissione delle immagini, a partire da quelli basati sul dispositivo della rifrazione – come Diffraction Grate - Falling Grills (2008) – e sul rispecchiamento di una silhouette, come in Stari Most (2007). La tradizione europea della pittura Informale e quella americana della pittura Minimalista, infine, trovano un’eco nella profonda meditazione che Timoney rivela nei confronti dei processi e dei materiali, interpretati nella loro organicità, temporalità e mutevolezza. Ne sono un esempio numerose opere nelle quali la colla di coniglio – un materiale tradizionalmente usato in passato nella fase di preparazione delle tele – è mescolato ai pigmenti e diventa esso stesso pittura, trasformando così un processo che fa parte del DNA della pittura in immagine.
La mostra sarà accompagnata dalla più ampia monografia mai realizzata sul lavoro dell’artista, pubblicata da Electa e a cura di Alessandro Rabottini, contenente oltre 140 riproduzioni a colori e saggi critici di Gavin Delahunty, Head of Exhibitions and Displays alla Tate Liverpool, di Dominic Molon, Curatore per l’Arte Contemporanea al Rhode Island School of Design Museum, Providence, e del curatore della mostra.
Il lavoro di Pádraig Timoney è stato esposto presso prestigiose istituzioni nazionali e internazionali come il MART – Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, la Tate Gallery di Liverpool, l’Henry Moore Institute di Leeds, il Frances Young Tang Teaching Museum and Art Gallery di New York, Castel Sant’Elmo a Napoli, la Scottish National Gallery of Modern Art di Edimburgo, la Biennale di Liverpool e la Transmission Gallery di Glasgow.
Questa retrospettiva di metà carriera – che comprende oltre cinquanta opere realizzate nell’arco degli ultimi venti anni – rappresenta anche un ritorno simbolico per l’artista a Napoli, città che Timoney ha eletto a suo luogo di residenza e produzione dal 2004 al 2011, prima di trasferirsi a New York.
A Napoli l’artista rende omaggio sin dal titolo stesso della mostra, che cita l’incipit di ‘O Cunto ‘E Masaniello, una canzone pubblicata nel 1974 dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare.
Il lavoro di Pádraig Timoney è un’esplorazione profonda e personale di tutti i linguaggi della pittura e della natura delle immagini, realizzata attraverso l’uso di mezzi espressivi differenti: accanto al medium principale della pittura, infatti, l’artista fa uso di fotografia, scultura e installazione, creando un universo visivo improntato a un radicale eclettismo. Davanti a una serie di opere di Timoney si può avere l’impressione di trovarsi all’interno di una mostra collettiva, tanto diversi sono gli stili, le tecniche e le atmosfere che definiscono i suoi lavori: l’astrazione convive con il più fedele foto-realismo, la gestualità si accompagna a un’estetica quasi meditativa, mentre una erudita relazione con la storia dell’arte si fonde con la comprensione degli aspetti più contemporanei, finanche banali, della nostra cultura globalizzata e digitale.
L’apparente incongruenza delle forme e dei linguaggi che contraddistingue il lavoro di Pádraig Timoney corrisponde, in realtà, a una strategia artistica rigorosa e assolutamente consapevole, al centro della quale troviamo tanto una critica della nozione di “stile” quanto il desiderio di esplorare l’arte in tutte le sue potenzialità estetiche e concettuali. Il concetto di stile come fattore unitario e identificabile è un pilastro su cui si fonda la storia dell’arte, un assunto che Timoney mette in discussione giustapponendo tra loro codici e stati d’animo apparentemente opposti e inconciliabili, rendendo così giustizia alla molteplicità delle forme con cui la realtà si presenta ai nostri occhi, al modo di percepirla e comprenderla, e alla complessità dei modi con cui ci relazioniamo alle immagini, ai loro significati e alle loro storie.
L’apparente eclettismo di Pádraig Timoney affonda le radici in un’ampia serie di esperienze artistiche più o meno recenti, rivelando in questo modo una pratica colta, ma all’interno della quale lo spettatore è lasciato libero di cercare il proprio orizzonte di significati. L’ambiguità che Timoney persegue tra immagine, supporto e linguaggio, tra l’informazione visiva e la sua realtà materiale, evoca la pittura di tradizione surrealista, dai paradossi visivi e linguistici di René Magritte alla qualità enigmatica dei materiali e delle forme di Max Ernst. Timoney fonde tra loro l’illusionismo di Étant donnés, l’ultima opera di Marcel Duchamp – e il ricorrere di porte e finestre nell’opera dell’artista francese – e l’interpretazione che il Rinascimento ha dato della pittura come finestra e affaccio sulla realtà, come è evidente in alcune opere in mostra come Sade’s Versus Lacoste (2007), Untitled - meepmeep popup (2011) e Untitled - Starry Mantle and the Door (2007).
La natura profondamente fotografica di gran parte del lavoro di Timoney e il suo incessante sperimentalismo dei materiali e dei supporti, inoltre, rendono evidente la riflessione che l’artista ha maturato sull’opera di nomi come Robert Rauschenberg, Andy Warhol, Gerhard Richter e Sigmar Polke, solo per citarne alcuni. La ricchezza di questa riflessione è esplicita non soltanto in opere che rivelano un’immediata matrice fotografica – come Capass (2010) e Detroit (2003) – ma anche, e soprattutto, nei molti lavori basati su un’indagine dei meccanismi della visione e della trasmissione delle immagini, a partire da quelli basati sul dispositivo della rifrazione – come Diffraction Grate - Falling Grills (2008) – e sul rispecchiamento di una silhouette, come in Stari Most (2007). La tradizione europea della pittura Informale e quella americana della pittura Minimalista, infine, trovano un’eco nella profonda meditazione che Timoney rivela nei confronti dei processi e dei materiali, interpretati nella loro organicità, temporalità e mutevolezza. Ne sono un esempio numerose opere nelle quali la colla di coniglio – un materiale tradizionalmente usato in passato nella fase di preparazione delle tele – è mescolato ai pigmenti e diventa esso stesso pittura, trasformando così un processo che fa parte del DNA della pittura in immagine.
La mostra sarà accompagnata dalla più ampia monografia mai realizzata sul lavoro dell’artista, pubblicata da Electa e a cura di Alessandro Rabottini, contenente oltre 140 riproduzioni a colori e saggi critici di Gavin Delahunty, Head of Exhibitions and Displays alla Tate Liverpool, di Dominic Molon, Curatore per l’Arte Contemporanea al Rhode Island School of Design Museum, Providence, e del curatore della mostra.
Il lavoro di Pádraig Timoney è stato esposto presso prestigiose istituzioni nazionali e internazionali come il MART – Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, la Tate Gallery di Liverpool, l’Henry Moore Institute di Leeds, il Frances Young Tang Teaching Museum and Art Gallery di New York, Castel Sant’Elmo a Napoli, la Scottish National Gallery of Modern Art di Edimburgo, la Biennale di Liverpool e la Transmission Gallery di Glasgow.
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