Momò Calascibetta. Momeide
Dal 07 Maggio 2016 al 30 Giugno 2016
Ragusa
Luogo: Civica Raccolta “Carmelo Cappello” - Palazzo Zacco
Indirizzo: via San Vito 158
Curatori: Andrea Guastella
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Telefono per informazioni: +39 0932 682486
E-Mail info: andreguast@yahoo.com
Sito ufficiale: http://www.artmomo.com/
Si inaugura sabato 7 maggio 2016, alle ore 18, presso la Civica Raccolta “Carmelo Cappello” di Palazzo Zacco a Ragusa, la mostra Momeide, catalogo Aurea Phoenix Edizioni, a cura di Andrea Guastella. L’esposizione raccoglie una selezione di opere di Momò Calascibetta, «maestro del disegno assai stimato, tra gli altri, da Consolo, Sciascia e Bufalino» che l’Amministrazione Comunale di Ragusa è lieta di ospitare «nelle splendide Sale di Palazzo Zacco, dove alcuni dei suoi lavori più famosi instaurano un dialogo con le sculture e le grafiche di Carmelo Cappello», offrendo ai ragusani e ai tanti turisti che ogni giorno visitano il museo «una testimonianza autentica di impegno civile e di altissimo mestiere»
Dal testo in catalogo di Andrea Guastella: «Entrambi sono nati in un’isola del Mare della Storia. Entrambi, il pittore delle giostre e l’essere deforme metà uomo metà toro, si ritrovano a vivere lontano – l’uno dal sole di Creta, l’altro da Palermo felicissima, emigrato nelle brume di Milano. Prigionieri di Dedalo, si aggirano in un salone degli specchi che li danna a riconoscere in sé, nel proprio volto, gli orrori che combattono o da cui provano a fuggire. O da cui, come appestati, sono stati allontanati. Così, come le urla del Minotauro facevano crollare le pareti, i trionfi della morte di Momò Calascibetta sono lazzi, improperi, atti di accusa contro una società che ha, tra le sue tante colpe, quella di starsene oziosa, schiava della copula e del circo, del tutto inconsapevole della propria ombra. Me lo immagino il Minotauro, tra gli echi del suo grido, percorrere avanti e indietro il labirinto alla vana ricerca di una fuga. Anche Momò sembrerebbe ripetere il medesimo tragitto: ordinando i suoi lavori in sequenza cronologica, ho constatato come i più recenti riprendano il filo di altri di decenni addietro senza preoccupazione alcuna per un’uniformità stilistica avvertita, con ogni evidenza, come limite anziché come vantaggio. L’unica apprensione è non frapporre ostacoli a un talento straripante: Momò suscita parossismi, incoraggia connubi innaturali tra linee falcate e colori cangianti, occupa angoli morti, svela desideri ardenti e stabilisce, succube e aguzzino come il padre putativo della bestia, il girone d’Inferno cui condannare i figli sazi, inconcludenti del malcostume e della pubblicità. Condanne – intendiamoci – all’apparenza tutt’altro che severe. Loro, i vitelloni intorpiditi dalla crapula e dal vizio, galleggiano grevi, madidi di sudore nell’atmosfera ovattata di un perpetuo show televisivo, tra applausi a comando e risate preregistrate. Si sentono furbi, intoccabili, sicuri. Hanno la tracotanza dell’Ignoto marinaio di Antonello. Eppure, a fissarli troppo, reagiscono scomposti. Fu proprio a causa di uno di questi “nuovi mostri” che Momò dovette affrontare un tentativo di censura. Imputazione: il ritratto beota di un politico, addirittura il primo cittadino del paese dove l’opera era in vista, mescolato tra i volti tronfi di Folla. Il dipinto, assai simile all’Autoritratto con maschere di Ensor, non aveva intenti denigratori: Momò quel tale non lo conosceva affatto. Ma, come capita sovente quando si persegua il vero, la somiglianza era reale. Naturale che il sindaco – che, a quanto mi risulta, fu poi processato e condannato – si ritrovasse: il simile riconosce il simile, come il colpevole si lascia individuare tornando a visitare i luoghi del delitto. Persino quando riveste le figure dei panni candidi del mito, l’artista non rinuncia a rivelare un brulicare morboso di passioni inconfessate. Che non riguardano, si badi, la povera Pasifae o la Leda spensierata, ma i corrotti osservatori. O dovremmo forse credere che esistano uomini e donne fuori dal comune, che non hanno mai tremato per la prova costume o non si sono interrogati colmi d’ansia su misure e prestazioni? Accade, in altre parole, che a furia di specchiarsi Momò ci costringa a specchiarci a nostra volta. E ci faccia venire una gran voglia di distruggere lo specchio. Tale cupio dissolvi, non saprei sino a qual punto volontaria, ha indotto l’artista a tentare un nuovo inizio: “in un mondo di arrivisti”, proclama Bufalino, “buona regola è non partire”, ma Momò pensa che “non basta sapere aspettare perché tutto arrivi”. Siamo agli albori del terzo Millennio; mentre a New York crollano le Torri, Antonio Calascibetta cambia nome: sceglie di chiamarsi come lo zio Momò, una persona eclettica, affascinante, incontrata una sola volta all’età di cinque anni e che è stata la chiave delle future scelte artistiche. Quasi non bastasse sbattezzarsi, inaugura – con i dovuti scongiuri – una mostra-funerale, Momò fu Calascibetta e affianca alla pittura un’inedita produzione di sculture. Come un Lucifero annoiato dal suo impieguccio di custode, si lascia insomma il passato alle spalle per prendere il largo verso lidi sconosciuti. È tempo di Momeide ma, diversamente dall’Eneide di Virgilio, l’epopea non procede dal racconto del viaggio, quanto da quello della guerra. Anzi, da quello delle rovine della guerra: l’attenzione dell’artista va alle case dilaniate dalle bombe “intelligenti”, ai bambini assenti, intenti a raccattare il cibo tra montagne di immondizia o a giocare per strade desolate. E se Enea portava con sé le statuette dei Lari e dei Penati, Momò custodisce nel cuore il ricordo di un’infanzia felice e riparata, di una giovinezza la cui la meta era partire; un ricordo cristallizzato nelle sue case caffelatte: sgombre, prive di presenze, tutto l’opposto dei palchi e delle tribune degli esordi, quasi a gridare sui tetti che la casa è l’unico spazio inviolabile, l’unico tempio, l’unica tana in cui posare il capo. “La casa”, afferma, “è una geografia della memoria dove il dolore ti abbandona: sono come una tartaruga, ovunque io vada mi porto la casa sulla schiena”. Cosa poi contengano le valigie sparse qua e là per le stanze, verso quali altri porti si diriga la sua nave, quali trame di gioia o sofferenza l’alta Musa dipani tra i sentieri del colore, tutto questo lo ignoriamo. Ci basti sapere che Momea, eroe siciliano figlio di Filippo, fuggito per il Mediterraneo dopo aver constatato il dilagare di un’arte sempre più mummificata da imbalsamatori culturali, è approdato qualche anno fa non nel Lazio come Enea ma in Sicilia nei pressi di Mozia, dove ha fondato il popolo errante dei “siciliani per caso”». Antonio (Momò) Calascibetta nasce a Palermo. Si laurea in architettura con Gregotti e Pollini ma dimostra subito una spiccata vocazione al disegno – prontamente riconosciuta da Leonardo Sciascia – che lo induce a dedicarsi in via esclusiva all’arte. Nel 1982 si trasferisce a Milano, da cui intraprende un’intensa attività espositiva in gallerie private e in spazi istituzionali prestigiosi, in Italia e all’estero. Nel 2004 è ospite del programma televisivo “Passepartout” di Philippe Daverio e nel 2005 un suo grande dipinto, Il gelato di Tariq, viene scelto per l’allestimento del set delle trasmissioni estive della serie. Memorabile la sua esperienza di (non) partecipazione alla Biennale di Venezia del 2005, in occasione della quale, in compagnia di altri artisti e curatori, organizza il progetto collaterale “Esserci al Padiglione Italia”, mostra di protesta contro un “mondo dell’arte” dominato da lobby finanziarie cieche e arroganti, sempre più separate dalla vita reale. Nel 2006 apre uno studio anche a Palermo, nel mercato storico della Vucciria. Vive attualmente tra Milano e Marsala.
Orario: martedì, mercoledì, giovedì e venerdì 8-14 / 15-19; sabato 9-13 / 15-19
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