Ivano Bolondi. Fotografie 1980/2012. Atmosfere sospese
Dal 24 Febbraio 2013 al 21 Aprile 2013
Reggio nell'Emilia | Reggio Emilia
Luogo: Palazzo Magnani
Indirizzo: corso Garibaldi 29
Orari: da martedì a venerdì 10-13/ 15.30-19; sabato e festivi 10-19
Curatori: Massimo Mussini
Enti promotori:
- Fondazione Palazzo Magnani
- Provincia di Reggio Emilia
- Fondazione Pietro Manodori
- Camera di Commercio di Reggio Emilia
Costo del biglietto: intero 7 €, ridotto 5 €, studenti 4 €
Telefono per informazioni: +39 0522 444446/ 408/ 415
E-Mail info: info@palazzomagnani.it
Sito ufficiale: http://www.palazzomagnani.it
La Fondazione Palazzo Magnani dal 23 febbraio al 21 aprile 2013 promuove un importante appuntamento con la fotografia. La cinquecentesca sede espositiva ospiterà la mostra “Ivano Bolondi. Fotografie 1980/2012. Atmosfere sospese” che, nell’ottica della valorizzazione delle eccellenze del territorio - uno degli obiettivi che la Fondazione ha posto tra i punti di azione all’interno del proprio progetto culturale -, intende celebrare il grande fotografo reggiano Ivano Bolondi.
La mostra – curata dal prof. Massimo Mussini, storico dell’arte – presenta oltre 180 scatti del fotografo realizzati in diversi luoghi del mondo tra il 1980 e oggi, capaci di raccontare il viaggio artistico ed umano di un uomo straordinario, sensibile e attento ad ogni aspetto visivo ed emozionale che può celarsi nella realtà circostante.
Ivano Bolondi fotografa dagli anni settanta del Novecento e, senza mai passare al professionismo, ha dedicato all’immagine un ampio spazio della sua attività, tanto da poter essere assimilato a un fotografo free lance per l’impegno creativo.
Alle sue origini vi è l’appartenenza a un attivo circolo cinefotografico e, pertanto, muove i primi passi guardando a Henry Cartier Bresson, il mito dei fotografi amatoriali, ben presto superato dall’attenzione verso Luigi Ghirri, di cui coglie le proposte innovative del linguaggio fotografico italiano.
Fervido nell’immaginazione e creativo per natura, utilizza queste doti nell’attività imprenditoriale inventando congegni meccanici venduti in tutto il mondo e le riversa, in parallelo, nella ricerca fotografica, che affianca la sua passione per i viaggi, intesi come occasione per conoscere altre realtà esistenziali.
Se inizialmente registra le esperienze di viaggiatore con immagini narrative e con l’attenzione alle particolarità dei luoghi, seguendo una consolidata tradizione, nel corso degli anni ottanta il suo linguaggio fotografico subisce una sensibile trasformazione.
Dall’esempio di Ghirri ricava l’idea che la fotografia sia un’operazione principalmente concettuale, non destinata a proporre soltanto immagini descrittive della realtà ma a fornire strumenti interpretativi capaci di sollecitare pensieri ed emozioni nell’osservatore.
Nel primo decennio del nuovo secolo, in parallelo al superamento del dibattito sull’essenza ontologica della fotografia e sul problema della sua referenzialità, determinato dall’introduzione della tecnologia digitale e dall’assimilazione della fotografia all’interno dell’attività artistica, Bolondi modifica ulteriormente il suo approccio fotografico alla realtà. Anziché direttamente sull’ambiente, inizia a puntare l’obiettivo con sempre maggiore frequenza verso la immagine del circostante riflessa da superfici specchianti e a utilizzare lo sfocato al fine di contrastare l’abitudine all’interpretazione referenziale della fotografia e per favorirne una lettura più orientata alla sfera psicologica.
In tal modo raccontare le proprie sensazioni di fronte ai modelli di esistenza e agli aspetti paesaggistici dei territori visitati, diventa occasione per verificare non tanto le differenze fra le varie culture, quanto le analogie di risposta a bisogni fondamentali e comuni.
A questa testimonianza dell’identità umana, celata nella varietà delle forme espressive, corrisponde il linguaggio fotografico utilizzato, sempre diretto e privo di rielaborazioni successive al momento della ripresa. Soltanto negli ultimi tempi, a cominciare dal volume Quale Cina (2012), Bolondi ha iniziato a modificare qualche fotografia con le tecnologie digitali, ritoccandone i valori cromatici allo scopo di evidenziare passaggi tematici nell’impaginato del libro, così come ha aggiunto brani di filmato negli audiovisivi, da sempre utilizzati per presentare al pubblico le proprie ricerche fotografiche, manifestando, anche in queste trasformazioni del suo linguaggio espressivo, l’attenzione costante all’evolversi delle arti visive odierne.
La mostra – curata dal prof. Massimo Mussini, storico dell’arte – presenta oltre 180 scatti del fotografo realizzati in diversi luoghi del mondo tra il 1980 e oggi, capaci di raccontare il viaggio artistico ed umano di un uomo straordinario, sensibile e attento ad ogni aspetto visivo ed emozionale che può celarsi nella realtà circostante.
Ivano Bolondi fotografa dagli anni settanta del Novecento e, senza mai passare al professionismo, ha dedicato all’immagine un ampio spazio della sua attività, tanto da poter essere assimilato a un fotografo free lance per l’impegno creativo.
Alle sue origini vi è l’appartenenza a un attivo circolo cinefotografico e, pertanto, muove i primi passi guardando a Henry Cartier Bresson, il mito dei fotografi amatoriali, ben presto superato dall’attenzione verso Luigi Ghirri, di cui coglie le proposte innovative del linguaggio fotografico italiano.
Fervido nell’immaginazione e creativo per natura, utilizza queste doti nell’attività imprenditoriale inventando congegni meccanici venduti in tutto il mondo e le riversa, in parallelo, nella ricerca fotografica, che affianca la sua passione per i viaggi, intesi come occasione per conoscere altre realtà esistenziali.
Se inizialmente registra le esperienze di viaggiatore con immagini narrative e con l’attenzione alle particolarità dei luoghi, seguendo una consolidata tradizione, nel corso degli anni ottanta il suo linguaggio fotografico subisce una sensibile trasformazione.
Dall’esempio di Ghirri ricava l’idea che la fotografia sia un’operazione principalmente concettuale, non destinata a proporre soltanto immagini descrittive della realtà ma a fornire strumenti interpretativi capaci di sollecitare pensieri ed emozioni nell’osservatore.
Nel primo decennio del nuovo secolo, in parallelo al superamento del dibattito sull’essenza ontologica della fotografia e sul problema della sua referenzialità, determinato dall’introduzione della tecnologia digitale e dall’assimilazione della fotografia all’interno dell’attività artistica, Bolondi modifica ulteriormente il suo approccio fotografico alla realtà. Anziché direttamente sull’ambiente, inizia a puntare l’obiettivo con sempre maggiore frequenza verso la immagine del circostante riflessa da superfici specchianti e a utilizzare lo sfocato al fine di contrastare l’abitudine all’interpretazione referenziale della fotografia e per favorirne una lettura più orientata alla sfera psicologica.
In tal modo raccontare le proprie sensazioni di fronte ai modelli di esistenza e agli aspetti paesaggistici dei territori visitati, diventa occasione per verificare non tanto le differenze fra le varie culture, quanto le analogie di risposta a bisogni fondamentali e comuni.
A questa testimonianza dell’identità umana, celata nella varietà delle forme espressive, corrisponde il linguaggio fotografico utilizzato, sempre diretto e privo di rielaborazioni successive al momento della ripresa. Soltanto negli ultimi tempi, a cominciare dal volume Quale Cina (2012), Bolondi ha iniziato a modificare qualche fotografia con le tecnologie digitali, ritoccandone i valori cromatici allo scopo di evidenziare passaggi tematici nell’impaginato del libro, così come ha aggiunto brani di filmato negli audiovisivi, da sempre utilizzati per presentare al pubblico le proprie ricerche fotografiche, manifestando, anche in queste trasformazioni del suo linguaggio espressivo, l’attenzione costante all’evolversi delle arti visive odierne.
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