Ettore Fico. Dialoghi contemporanei. Un artista, un museo, una collezione
Dal 16 Settembre 2023 al 12 Novembre 2023
Venezia
Luogo: Fondazione Bevilacqua La Masa
Indirizzo: Piazza San Marco 71c
Orari: da martedì a domenica dalle 14.30 alle 19.00
Curatori: Andrea Busto
Telefono per informazioni: +39 041 5237819
Ettore Fico – Dialoghi contemporanei. Un artista, un museo, una collezione è stata espressamente concepita per gli spazi della Fondazione Bevilacqua La Masa in piazza San Marco a Venezia e anticipa i festeggiamenti dei 10 anni dell’apertura del MEF a Torino. I “dialoghi” avvengono fra le opere del Maestro e gli artisti contemporanei internazionali che il museo ospita nelle sue collezioni. L’opera di Ettore Fico è rappresentata in Europa dalla galleria Maurizio Nobile (Bologna, Milano, Parigi), da oltre quarant’anni punto di riferimento internazionale per l’arte italiana dal XV al XX secolo. Bellezza, autenticità, qualità e rarità: questo è il credo che guida da sempre la galleria alla ricerca di opere e alla riscoperta di artisti con l’obiettivo di accrescere collezioni pubbliche e private.
La mostra si suddivide in 6 sezioni tematiche corrispondenti al numero delle stanze della sede della Fondazione veneziana. In ciascuna di esse il dialogo, fra le opere del Maestro e quelle degli artisti contemporanei, riprende le tematiche che, da sempre e ancora oggi, sono allabase della creatività artistica: «Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?» poneva come quesiti agli spettatori Gauguin nel 1897 con il famoso dipinto dallo stesso titolo. Sono i quesiti sempre attuali per gli artisti e per tutti gli uomini che, attraverso l’arte, cercano di dare delle risposte alle grandi incognite dell’esistenza. L’interpretazione, la decodificazione del mondo e la sua traduzione in immagini, consegnano una visione e una lettura personale ma anche universale che solo le opere d’arte riescono a trasmetterci diventando la chiave di lettura e la testimonianza del tempo in cui sono state realizzate.
Ettore Fico (1917-2004) ha attraversato un secolo di storia e con la sua arte ha toccato tangenzialmente il gusto e le correnti del secolo scorso, arrivando fino agli anni 2000 con una pittura fresca, vibrante e attuale. La sua poetica intimista, personale e autoriflessiva, costruita sulla quotidianità e sulla semplicità, conferma gli stili e le estetiche dei grandi maestri del Novecento da De Pisis a Morandi, da Braque a Scipione di cui fu contemporaneo. Ma la sua visione va oltre, essendo libera e scevra dall’appartenenza a movimenti e a gruppi. La sua solitudine gli permise di “scivolare” tra le diverse correnti senza farsi fermare e intrappolare.
Oggi, artisti come Gerard Richter o Rudolf Stingel, possono passare dall’astrazione alla figurazione e viceversa, senza essere tacciati di incomprensibilità, di assenza di stile o, peggio, di vacuità. La ricerca di Fico è anticipatrice e simile, per libertà e indipendenza, a molti giovani contemporanei che sperimentano e indagano le tecniche senza l’ansia di appartenenza come fu invece per molti movimenti del
Novecento dal Futurismo al Surrealismo, dal Minimalismo all’Arte Povera fino alla Transavanguardia. Ricordiamo come Breton “epurò” a più riprese gli appartenenti al movimento, come Celant “blindò” il numero dei poveristi e come Bonito Oliva chiuse a cinque il numero degli artisti transavanguardisti.
I gruppi, i cenacoli, i movimenti sono stati funzionali nel passato per delimitare i campi d’azione e formare un “numero chiuso” di appartenenti, per ragioni di mercato e di affermazione, negando quella libertà espressiva fondamentale per la creatività artistica e per l’attuale fluidità dei percorsi intellettuali. Artisti come Giacomo Balla, Emilio Vedova o Mario Schifano hanno trasmigrato da un movimento all’altro, lasciando stili e riprendendoli senza porsi il problema del giudizio della critica. La loro filosofia era principio generativo della loro opera e lo stile, la tecnica e il tempo, conseguenti e propedeutici alla loro creatività.
Oggi rileggiamo tutto il Novecento in modo differente rispetto al passato più recente. Artisti dimenticati o subordinati ad altri sono stati riscoperti proprio nel secolo scorso o nel primo ventennio di questo nostro millennio, esempi su tutti sono Frida Kahlo, Salvo e Carol Rama, come del resto anche Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi. Ettore Fico ha prodotto opere fin dalla sua primissima giovinezza e non ha mai smesso di interrogarsi su come fare pittura e su come essere contemporaneo al suo tempo.
Non deve ingannare quindi la sua libertà di percorrere strade diverse senza negarsi il piacere della sperimentazione e senza definire il proprio ambito negandosi la possibilità di essere, nel ristrettissimo “terreno” pittorico, un artista dai vastissimi orizzonti. Certo non è stato un militante, un concettuale “engagé”, un rivoluzionario da “rissa in galleria”, egli si è limitato, come Licini, Klee o Veronesi, a fare instancabilmente il ricercatore autentico e moralmente onesto per tutta la sua lunga vita.
Questa mostra vuole riportare nel giusto contesto la figura di Ettore Fico ponendolo in dialogo con giovani artisti che esprimono, attraverso le loro opere, sensibilità simili e parallele. Il dialogo che ne scaturisce afferma che l’arte è sempre attuale pur affrontando tematiche millenarie.
Vivono isolati nella cittadina di Lettere, sulle coste del Semantico, un immenso oceano linguistico. Un piccolo ruscello chiamato Devoto Oli attraversa quei luoghi, rifornendoli di tutte le regolalie di cui hanno bisogno.
Ettore Fico nasce a Piatto Biellese il 21 settembre 1917. Dopo i primi studi di pittura con il maestro Luigi Serralunga, parte per la Seconda Guerra Mondiale e dal 1943 al 1946 è prigioniero in Algeria. Nel corso della sua lunga carriera artistica partecipa a numerose esposizioni collettive nazionali e internazionali, tra cui: la Quadriennale d’arte di Roma (edizioni VII, VIII e IX); Ia Biennale Internazionale per I’incisione a Cracovia del 1966; la Mostra di artisti italiani a Praga del 1968; la XXXIX Biennale Nazionale d’Arte Città di Milano. Muore a Torino il 28 dicembre 2004.
Ettore Fico si trasferisce da Piatto Biellese, suo paese natale, a Torino, nel 1933. Invece di intraprendere la carriera di costruttore, come tutti i suoi fratelli, si dedica fin da subito alla pittura, grazie anche all’incontro con Luigi Serralunga che lo spronò in tale senso – e ne convinse la famiglia – avendone intuito le potenzialità artistiche. Intrapresi gli studi presso l’Accademia Albertina divenne ben presto pupillo del maestro e frequentò per diversi anni il suo studio insieme ad altri giovani allievi quali Filippo Sartorio, Mattia Moreni e Piero Martina.
In quegli anni i protagonisti della scena artistica torinese erano Felice Casorati e i pittori del Gruppo dei Sei. Questo fece sì che negli anni successivi si evidenziasse nell’ambiente cittadino una sorta di dualismo tra le tendenze casoratiane (di matrice tedesca e metafisica) e quelle, appunto, del Gruppo dei Sei (di matrice francese).
Nonostante il giovane Fico si dimostrasse molto attento ai fermenti culturali dell’epoca, solo dopo la Seconda Guerra Mondiale ebbe l’opportunità di conoscere le novità provenienti dall’Europa e di prenderne parte costruendosi una propria personalità artistica.
Nel 1939 la sua formazione venne interrotta dal servizio militare che lo condusse fino in Africa Settentrionale. Nel 1943, a seguito delle sconfitte italiane, fu fatto prigioniero e portato ad Algeri. Qui, grazie alla sensibilità del suo comandante che ne riconobbe le doti artistiche, ebbe il permesso di dipingere: numerosi i ritratti di ufficiali inglesi, i paesaggi, il porto di Algeri e le sue bellissime spiagge.
Gli fu riservato un trattamento particolare, tanto che ebbe una tenda-studio tutta per sé. Per tal motivo il periodo della prigionia fu caratterizzato, egli disse, dalla gioia di dipingere, nonostante il dramma della guerra.
Dal punto di vista stilistico egli era ancora legato agli insegnamenti del maestro Serralunga ma con una particolare predilezione all’introspezione psicologica dei personaggi. La fine della guerra instillò negli artisti un desiderio di riappropriarsi di tutto ciò che era stato tralasciato, provocando un proliferare di espressioni nuove e spesso antitetiche. A Torino la scena artistica si sviluppò secondo due direzioni opposte: la predilezione per l’astrattismo di Spazzapan e per il realismo di Felice Casorati, che erano allora i più importanti artisti del panorama cittadino.
Rientrato a Torino nel 1946 decise di non frequentare gli studi dei due maestri, dimostrando un grande spirito di indipendenza. Qui cominciò un felice periodo di ricerca e sperimentazione volto a scandagliare le svariate potenzialità del colore. La contrapposizione tra città e campagna, tema caro a impressionisti ed espressionisti, approda nella sua pittura: dipinge luoghi in cui non si distinguono i confini tra terra e cemento, in cui la natura e la città si fondono dando vita a paesaggi periferici di grande respiro compositivo e rarefatta e meticolosa calligrafia segnica.
La partecipazione alla VII Quadriennale d’arte di Roma nel 1955 lo pone all’attenzione del grande pubblico per l’innovazione stilistica che emerge dalle sue opere dai tratti forti con una vivace autonomia espressiva coloristica. L’insegnamento del maestro Serralunga è ormai superato, i suoi dipinti a olio sono paesaggi e nature morte vibranti di colore, steso a placche con pennellate larghe e sinuose. La rivoluzione stilistica di Ettore Fico appare evidente nella variazione della gamma cromatica, nella presenza di colori accesi e vivaci che generano forti contrasti, anche con tonalità violente, com’è tipico nell’esperienza fauve. La mostra alla Galleria Fogliato di Torino nel 1957 decreta il successo di questo suo stile tutto personale.
Alla fine degli anni Cinquanta Ettore Fico ha già ottenuto diversi riconoscimenti e, da artista affermato, si mette alla prova e si confronta con una nuova tendenza artistica presente in Europa e negli Stati Uniti: l’Informale. Nella sua pennellata la materia pittorica pastosa prende il sopravvento sulla forma e sul colore, dominando la composizione senza mostrare la rabbia e l’angoscia come per gli altri pittori a lui contemporanei. I temi più aspri, come i fiori secchi o la vegetazione selvatica, pur senza dimenticare i paesaggi sanremesi o le marine di Positano, risultano armonici e vibranti.
Verso la fine degli anni Sessanta le campiture di colore si fanno più distese e gli oggetti riprendono forma grazie all’utilizzo di contorni netti e ai contrasti cromatici delle superfici piane. I contorni si schematizzano, quasi in aspetto geometrico neo-cubista in bilico tra Braque e Gris e la sua ricerca si reinventa utilizzando nuovi materiali e nuove tecniche. In particolare, nel periodo che va dal 1965 al 1975 Fico torna al tema caro della natura morta e della rappresentazione degli interni. In questo frangente gli oggetti del quotidiano come la brocca e i fiori secchi assumono un carattere enigmatico, grazie anche all’utilizzo di tonalità violente, che evocano un senso di attesa. Come si evince nelle composizioni dei primi anni Settanta, Fico non desidera entrare in competizione con i maestri del passato ma vuole giungere, in egual modo, a nuovi risultati in bilico sempre tra realtà e astrazione. La sua importante produzione coloristica, in particolar modo quella degli anni Ottanta e Novanta, è composta prevalentemente da quelle tematiche che diventeranno ancora una volta simboli emblematici del suo successo: il glicine, il giardino, gli alberi, ma anche gli oggetti, lo studio, le modelle e l’amatissimo cane Moretto.
Le opere degli ultimi giorni di vita testimoniano ancora una volta la tenace ricerca e l’insoddisfatta voglia di sperimentazione in cui un grande afflato di libertà compositiva afferma il suo grande amore per la pittura in generale e per il colore in particolare.
Vernissage sabato 16 settembre dalle 18 alle 21
La mostra si suddivide in 6 sezioni tematiche corrispondenti al numero delle stanze della sede della Fondazione veneziana. In ciascuna di esse il dialogo, fra le opere del Maestro e quelle degli artisti contemporanei, riprende le tematiche che, da sempre e ancora oggi, sono allabase della creatività artistica: «Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?» poneva come quesiti agli spettatori Gauguin nel 1897 con il famoso dipinto dallo stesso titolo. Sono i quesiti sempre attuali per gli artisti e per tutti gli uomini che, attraverso l’arte, cercano di dare delle risposte alle grandi incognite dell’esistenza. L’interpretazione, la decodificazione del mondo e la sua traduzione in immagini, consegnano una visione e una lettura personale ma anche universale che solo le opere d’arte riescono a trasmetterci diventando la chiave di lettura e la testimonianza del tempo in cui sono state realizzate.
Ettore Fico (1917-2004) ha attraversato un secolo di storia e con la sua arte ha toccato tangenzialmente il gusto e le correnti del secolo scorso, arrivando fino agli anni 2000 con una pittura fresca, vibrante e attuale. La sua poetica intimista, personale e autoriflessiva, costruita sulla quotidianità e sulla semplicità, conferma gli stili e le estetiche dei grandi maestri del Novecento da De Pisis a Morandi, da Braque a Scipione di cui fu contemporaneo. Ma la sua visione va oltre, essendo libera e scevra dall’appartenenza a movimenti e a gruppi. La sua solitudine gli permise di “scivolare” tra le diverse correnti senza farsi fermare e intrappolare.
Oggi, artisti come Gerard Richter o Rudolf Stingel, possono passare dall’astrazione alla figurazione e viceversa, senza essere tacciati di incomprensibilità, di assenza di stile o, peggio, di vacuità. La ricerca di Fico è anticipatrice e simile, per libertà e indipendenza, a molti giovani contemporanei che sperimentano e indagano le tecniche senza l’ansia di appartenenza come fu invece per molti movimenti del
Novecento dal Futurismo al Surrealismo, dal Minimalismo all’Arte Povera fino alla Transavanguardia. Ricordiamo come Breton “epurò” a più riprese gli appartenenti al movimento, come Celant “blindò” il numero dei poveristi e come Bonito Oliva chiuse a cinque il numero degli artisti transavanguardisti.
I gruppi, i cenacoli, i movimenti sono stati funzionali nel passato per delimitare i campi d’azione e formare un “numero chiuso” di appartenenti, per ragioni di mercato e di affermazione, negando quella libertà espressiva fondamentale per la creatività artistica e per l’attuale fluidità dei percorsi intellettuali. Artisti come Giacomo Balla, Emilio Vedova o Mario Schifano hanno trasmigrato da un movimento all’altro, lasciando stili e riprendendoli senza porsi il problema del giudizio della critica. La loro filosofia era principio generativo della loro opera e lo stile, la tecnica e il tempo, conseguenti e propedeutici alla loro creatività.
Oggi rileggiamo tutto il Novecento in modo differente rispetto al passato più recente. Artisti dimenticati o subordinati ad altri sono stati riscoperti proprio nel secolo scorso o nel primo ventennio di questo nostro millennio, esempi su tutti sono Frida Kahlo, Salvo e Carol Rama, come del resto anche Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi. Ettore Fico ha prodotto opere fin dalla sua primissima giovinezza e non ha mai smesso di interrogarsi su come fare pittura e su come essere contemporaneo al suo tempo.
Non deve ingannare quindi la sua libertà di percorrere strade diverse senza negarsi il piacere della sperimentazione e senza definire il proprio ambito negandosi la possibilità di essere, nel ristrettissimo “terreno” pittorico, un artista dai vastissimi orizzonti. Certo non è stato un militante, un concettuale “engagé”, un rivoluzionario da “rissa in galleria”, egli si è limitato, come Licini, Klee o Veronesi, a fare instancabilmente il ricercatore autentico e moralmente onesto per tutta la sua lunga vita.
Questa mostra vuole riportare nel giusto contesto la figura di Ettore Fico ponendolo in dialogo con giovani artisti che esprimono, attraverso le loro opere, sensibilità simili e parallele. Il dialogo che ne scaturisce afferma che l’arte è sempre attuale pur affrontando tematiche millenarie.
Vivono isolati nella cittadina di Lettere, sulle coste del Semantico, un immenso oceano linguistico. Un piccolo ruscello chiamato Devoto Oli attraversa quei luoghi, rifornendoli di tutte le regolalie di cui hanno bisogno.
Ettore Fico nasce a Piatto Biellese il 21 settembre 1917. Dopo i primi studi di pittura con il maestro Luigi Serralunga, parte per la Seconda Guerra Mondiale e dal 1943 al 1946 è prigioniero in Algeria. Nel corso della sua lunga carriera artistica partecipa a numerose esposizioni collettive nazionali e internazionali, tra cui: la Quadriennale d’arte di Roma (edizioni VII, VIII e IX); Ia Biennale Internazionale per I’incisione a Cracovia del 1966; la Mostra di artisti italiani a Praga del 1968; la XXXIX Biennale Nazionale d’Arte Città di Milano. Muore a Torino il 28 dicembre 2004.
Ettore Fico si trasferisce da Piatto Biellese, suo paese natale, a Torino, nel 1933. Invece di intraprendere la carriera di costruttore, come tutti i suoi fratelli, si dedica fin da subito alla pittura, grazie anche all’incontro con Luigi Serralunga che lo spronò in tale senso – e ne convinse la famiglia – avendone intuito le potenzialità artistiche. Intrapresi gli studi presso l’Accademia Albertina divenne ben presto pupillo del maestro e frequentò per diversi anni il suo studio insieme ad altri giovani allievi quali Filippo Sartorio, Mattia Moreni e Piero Martina.
In quegli anni i protagonisti della scena artistica torinese erano Felice Casorati e i pittori del Gruppo dei Sei. Questo fece sì che negli anni successivi si evidenziasse nell’ambiente cittadino una sorta di dualismo tra le tendenze casoratiane (di matrice tedesca e metafisica) e quelle, appunto, del Gruppo dei Sei (di matrice francese).
Nonostante il giovane Fico si dimostrasse molto attento ai fermenti culturali dell’epoca, solo dopo la Seconda Guerra Mondiale ebbe l’opportunità di conoscere le novità provenienti dall’Europa e di prenderne parte costruendosi una propria personalità artistica.
Nel 1939 la sua formazione venne interrotta dal servizio militare che lo condusse fino in Africa Settentrionale. Nel 1943, a seguito delle sconfitte italiane, fu fatto prigioniero e portato ad Algeri. Qui, grazie alla sensibilità del suo comandante che ne riconobbe le doti artistiche, ebbe il permesso di dipingere: numerosi i ritratti di ufficiali inglesi, i paesaggi, il porto di Algeri e le sue bellissime spiagge.
Gli fu riservato un trattamento particolare, tanto che ebbe una tenda-studio tutta per sé. Per tal motivo il periodo della prigionia fu caratterizzato, egli disse, dalla gioia di dipingere, nonostante il dramma della guerra.
Dal punto di vista stilistico egli era ancora legato agli insegnamenti del maestro Serralunga ma con una particolare predilezione all’introspezione psicologica dei personaggi. La fine della guerra instillò negli artisti un desiderio di riappropriarsi di tutto ciò che era stato tralasciato, provocando un proliferare di espressioni nuove e spesso antitetiche. A Torino la scena artistica si sviluppò secondo due direzioni opposte: la predilezione per l’astrattismo di Spazzapan e per il realismo di Felice Casorati, che erano allora i più importanti artisti del panorama cittadino.
Rientrato a Torino nel 1946 decise di non frequentare gli studi dei due maestri, dimostrando un grande spirito di indipendenza. Qui cominciò un felice periodo di ricerca e sperimentazione volto a scandagliare le svariate potenzialità del colore. La contrapposizione tra città e campagna, tema caro a impressionisti ed espressionisti, approda nella sua pittura: dipinge luoghi in cui non si distinguono i confini tra terra e cemento, in cui la natura e la città si fondono dando vita a paesaggi periferici di grande respiro compositivo e rarefatta e meticolosa calligrafia segnica.
La partecipazione alla VII Quadriennale d’arte di Roma nel 1955 lo pone all’attenzione del grande pubblico per l’innovazione stilistica che emerge dalle sue opere dai tratti forti con una vivace autonomia espressiva coloristica. L’insegnamento del maestro Serralunga è ormai superato, i suoi dipinti a olio sono paesaggi e nature morte vibranti di colore, steso a placche con pennellate larghe e sinuose. La rivoluzione stilistica di Ettore Fico appare evidente nella variazione della gamma cromatica, nella presenza di colori accesi e vivaci che generano forti contrasti, anche con tonalità violente, com’è tipico nell’esperienza fauve. La mostra alla Galleria Fogliato di Torino nel 1957 decreta il successo di questo suo stile tutto personale.
Alla fine degli anni Cinquanta Ettore Fico ha già ottenuto diversi riconoscimenti e, da artista affermato, si mette alla prova e si confronta con una nuova tendenza artistica presente in Europa e negli Stati Uniti: l’Informale. Nella sua pennellata la materia pittorica pastosa prende il sopravvento sulla forma e sul colore, dominando la composizione senza mostrare la rabbia e l’angoscia come per gli altri pittori a lui contemporanei. I temi più aspri, come i fiori secchi o la vegetazione selvatica, pur senza dimenticare i paesaggi sanremesi o le marine di Positano, risultano armonici e vibranti.
Verso la fine degli anni Sessanta le campiture di colore si fanno più distese e gli oggetti riprendono forma grazie all’utilizzo di contorni netti e ai contrasti cromatici delle superfici piane. I contorni si schematizzano, quasi in aspetto geometrico neo-cubista in bilico tra Braque e Gris e la sua ricerca si reinventa utilizzando nuovi materiali e nuove tecniche. In particolare, nel periodo che va dal 1965 al 1975 Fico torna al tema caro della natura morta e della rappresentazione degli interni. In questo frangente gli oggetti del quotidiano come la brocca e i fiori secchi assumono un carattere enigmatico, grazie anche all’utilizzo di tonalità violente, che evocano un senso di attesa. Come si evince nelle composizioni dei primi anni Settanta, Fico non desidera entrare in competizione con i maestri del passato ma vuole giungere, in egual modo, a nuovi risultati in bilico sempre tra realtà e astrazione. La sua importante produzione coloristica, in particolar modo quella degli anni Ottanta e Novanta, è composta prevalentemente da quelle tematiche che diventeranno ancora una volta simboli emblematici del suo successo: il glicine, il giardino, gli alberi, ma anche gli oggetti, lo studio, le modelle e l’amatissimo cane Moretto.
Le opere degli ultimi giorni di vita testimoniano ancora una volta la tenace ricerca e l’insoddisfatta voglia di sperimentazione in cui un grande afflato di libertà compositiva afferma il suo grande amore per la pittura in generale e per il colore in particolare.
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