Franca Faccin. Giallo blu verde rosso. L’altalena dei giri di freni
Dal 21 Agosto 2022 al 25 Settembre 2022
Venezia
Luogo: Fondazione Bevilacqua La Masa Galleria di Piazza San Marco
Indirizzo: S. Marco 71/C
Orari: dal martedì alla domenica, dalle 11 alle 19
Curatori: Luisa Turchi
“Franca Faccin mette dunque in atto, attraverso il linguaggio della pittura, anche un’operazione di seduzione perché sa bene che, nella comunicazione di qualsiasi genere, occorre superare la “distanza tra chi parla e chi ascolta”. Il rapporto emotivo che così stabiliamo esiste allora con la sola opera, l’opera d’arte chiusa in se stessa, muta ed indifferente alle domande, posta in una condizione che richiede agli spettatori semplicemente l’abbandono. È infatti per tale via che essa rivela a ciascuno di noi l’invisibile che è dentro i nostri occhi, l’indicibile che è dentro la nostra mente, il possibile che è nella nostra fantasia”.
E. Di Martino, Dal pretesto visivo alla pittura, Venezia 1999
Dal 21 agosto al 25 settembre 2022 la Fondazione Bevilacqua La Masa ospiterà presso la Galleria di Piazza San Marco la mostra personale dell’artista Franca Faccin dal titolo Giallo blu verde rosso. L’altalena dei giri di freni, a cura di Luisa Turchi con la collaborazione di Paolo Rosso.
L’essenza per exempla: l’estemporanea metafisica del colore e del segno minimalista di Franca Faccin. Si potrebbe condensare così l’alfabeto concettuale e mediterraneo del libero girovagare in pittura dell’artista originaria di Vicenza, nota soprattutto per il sintetismo iconico delle sue biciclette, divenute assoluto portabandiera di libertà come condizione primaria dell’esistere, almeno in quello stadio che è proprio del viaggio dell’immaginazione, esperibile da ognuno di noi.
Perché, chi non si è mai trovato nella vita, nella condizione di “ascolto”, o soprattutto, a chi non è mai stato detto: “Hai voluto la bici? E adesso…pedala!”?
Una frase che potrebbe suonare coercitiva, o troppo faticosa, ai più, quando invece dovrebbe trattarsi di salite e discese desiderate o quantomeno ricercate.
Eccola, allora, l’altalena sinusoidale e spezzata dei giri di freni, o dei campanelli autonomamente disposti a non farsi suonare, ovvero a non lasciarsi arbitrariamente “condizionare”, muovendosi invece al di là di vie tracciate o prestabilite.
Franca Faccin è stata autrice di una favola per bambini (ma anche per adulti): La Bicicletta e il mare, che da sola introduce alla genesi della sua ricerca pittorica, oggetto di una mostra di più di sessanta opere fra dipinti e disegni dell’artista, alla Bevilacqua La Masa.
“C’era una volta una bicicletta tutta a spicchi colorata che correva in riva al mare...”
Gli spicchi non a caso sono di colori primari e complementari, e per accostamento richiamano una solarità altisonante d’arlecchino, mentre le ruote sono “ribaltate” come allegri ombrelloni.
E, cosa importante, “un giorno i giri di freni gialli e il campanello rosso si misero a pensare quanto bello fosse il mare e si staccarono di nascosto dalla bicicletta”.
È da qui che comincia il viaggio nella mostra, alla Bruno Munari e facendo l’occhiolino a Klee, tracciando un itinerario semplice e complesso quanto originale.
Non si tratta neppure di pedalare con i freni staccati, e senza campanello per avvertire del pericolo, no. Si vorrebbe una “decostruzione”, una separazione fra corpo/strumento-bici e mente-freni/spirito-campanello. Con la fantasia, Franca immagina che freni e campanello si siedano sulla spiaggia solitaria, ad ammirare il mare, e “nel silenzio azzurro del cielo pensino di essere astronavi provenienti da altre galassie”. Ne consegue “un nuovo modo per comunicare con altri mondi”, ovvero un alfabeto misterioso che solo loro possono capire e che gli consente di sollevarsi da terra e persino di poter volare.
La conclusione del racconto, tuttavia, è quella di tornare dalla bicicletta, di cui si avverte comunque la “mancanza”, e questa non può che ascoltare affascinata la loro storia.
Il campanello e il freno limitati dentro la bicicletta/corpo, liberati dal e nel linguaggio visivo, diventano consapevoli alla fine del loro viaggio di essere pur sempre “parti” di un unicum come strumento del conoscere almeno su questa Terra. L’attenzione, le inibizioni cautelative, il conscio e l’inconscio che stanno nel sentire e nell’avvertire quando fermarsi o accelerare nelle emozioni o nei ragionamenti, sono la maschera necessaria per “la corsa”, di cui forse è impossibile non fare a meno, almeno se si vuol tornare a casa, finché si è vivi. Dopo sarà un’altra storia, quello che abbiamo intuito adesso non può essere che un sogno lucido.
La bicicletta siamo noi, nella nostra completezza umana e spirituale, un tutt’uno con le nostre pulsioni interiori, generate anche dall’incontro con l’altro sulla nostra strada. Consentendo a noi stessi una scelta non puramente meccanica o fatta di automatismi, - l’uomo non è una macchina - tra spirito, ragione e sentimento, siamo condotti con il pensiero verso mondi altri, ad esplorare universi, senza paura, ma alla fine sentiamo comunque il bisogno del ritorno in noi stessi, di risalire sulla nostra bicicletta, di riprendere possesso del nostro corpo temporaneamente scisso dalle nostre facoltà mentali e spirituali.
La mostra di Franca Faccin si configura quindi, come un sogno naif, liciniano, in cui la ricerca di equilibri strutturali e formali, nonché coloristici prelude a significati impercettibili. Sulle scelte cromatiche hanno inciso anche i frequenti viaggi dell’artista in Sicilia.
E se è pur vero che “il suo giallo non è poi quello dei limoni, il rosso non è quello del sole, né l’azzurro è quello del mare”, ovvero quello che si vede assurge a pretesto visivo concretamente-astratto di un mondo interiore che può solo essere accennato, le sue trasfigurazioni dell’anima ci toccano da vicino, come geometrie segrete di luce piena che adombrano il divino stesso.
L’imprevedibilità che nasce nella reiterazione di grafismi dal sapore orientale con un’anima occidentale, d’azione più che contemplativa, è energia primitiva allo stato puro e al contempo desiderio di pace ed interiore armonia.
Biciclette, giri di freni, mercati a volo d’uccello si susseguono senza sosta nello spazio metafisico della luce. Un linguaggio figurativo estetico e ideologico emozionale, destinato a rimanere come un codice impenetrabile, una partitura musicale contemporanea che sa veramente “di aria, di vento, di luce”, pur rimanendo immobile sulla tela e sulla carta. Anche quando diventa “cerniera”, improbabile tasca di un viaggio al tramonto, che non ha prezzo.
Ben si ricordava Vittorio Basaglia, amico dell’artista, di un vecchio maestro che lo portava a vedere i musei e gli diceva, a proposito di un quadro dell’Ottocento che rappresentava uno squero con una grande barca puntellata: “Se tu pensi di poter star seduto bene all’ombra di quella barca, vuol dire che il quadro è riuscito”. Questa sensazione dell’entrare nel quadro come fosse uno spazio vivibile, se l’è portata dentro per tutta la vita e come primo impatto di giudizio ha sempre funzionato.
Bene, Basaglia riteneva gli spazi di Franca Faccin come accoglienti e problematici nello stesso tempo. Che insomma ci si potesse sedere a pensare.
E. Di Martino, Dal pretesto visivo alla pittura, Venezia 1999
Dal 21 agosto al 25 settembre 2022 la Fondazione Bevilacqua La Masa ospiterà presso la Galleria di Piazza San Marco la mostra personale dell’artista Franca Faccin dal titolo Giallo blu verde rosso. L’altalena dei giri di freni, a cura di Luisa Turchi con la collaborazione di Paolo Rosso.
L’essenza per exempla: l’estemporanea metafisica del colore e del segno minimalista di Franca Faccin. Si potrebbe condensare così l’alfabeto concettuale e mediterraneo del libero girovagare in pittura dell’artista originaria di Vicenza, nota soprattutto per il sintetismo iconico delle sue biciclette, divenute assoluto portabandiera di libertà come condizione primaria dell’esistere, almeno in quello stadio che è proprio del viaggio dell’immaginazione, esperibile da ognuno di noi.
Perché, chi non si è mai trovato nella vita, nella condizione di “ascolto”, o soprattutto, a chi non è mai stato detto: “Hai voluto la bici? E adesso…pedala!”?
Una frase che potrebbe suonare coercitiva, o troppo faticosa, ai più, quando invece dovrebbe trattarsi di salite e discese desiderate o quantomeno ricercate.
Eccola, allora, l’altalena sinusoidale e spezzata dei giri di freni, o dei campanelli autonomamente disposti a non farsi suonare, ovvero a non lasciarsi arbitrariamente “condizionare”, muovendosi invece al di là di vie tracciate o prestabilite.
Franca Faccin è stata autrice di una favola per bambini (ma anche per adulti): La Bicicletta e il mare, che da sola introduce alla genesi della sua ricerca pittorica, oggetto di una mostra di più di sessanta opere fra dipinti e disegni dell’artista, alla Bevilacqua La Masa.
“C’era una volta una bicicletta tutta a spicchi colorata che correva in riva al mare...”
Gli spicchi non a caso sono di colori primari e complementari, e per accostamento richiamano una solarità altisonante d’arlecchino, mentre le ruote sono “ribaltate” come allegri ombrelloni.
E, cosa importante, “un giorno i giri di freni gialli e il campanello rosso si misero a pensare quanto bello fosse il mare e si staccarono di nascosto dalla bicicletta”.
È da qui che comincia il viaggio nella mostra, alla Bruno Munari e facendo l’occhiolino a Klee, tracciando un itinerario semplice e complesso quanto originale.
Non si tratta neppure di pedalare con i freni staccati, e senza campanello per avvertire del pericolo, no. Si vorrebbe una “decostruzione”, una separazione fra corpo/strumento-bici e mente-freni/spirito-campanello. Con la fantasia, Franca immagina che freni e campanello si siedano sulla spiaggia solitaria, ad ammirare il mare, e “nel silenzio azzurro del cielo pensino di essere astronavi provenienti da altre galassie”. Ne consegue “un nuovo modo per comunicare con altri mondi”, ovvero un alfabeto misterioso che solo loro possono capire e che gli consente di sollevarsi da terra e persino di poter volare.
La conclusione del racconto, tuttavia, è quella di tornare dalla bicicletta, di cui si avverte comunque la “mancanza”, e questa non può che ascoltare affascinata la loro storia.
Il campanello e il freno limitati dentro la bicicletta/corpo, liberati dal e nel linguaggio visivo, diventano consapevoli alla fine del loro viaggio di essere pur sempre “parti” di un unicum come strumento del conoscere almeno su questa Terra. L’attenzione, le inibizioni cautelative, il conscio e l’inconscio che stanno nel sentire e nell’avvertire quando fermarsi o accelerare nelle emozioni o nei ragionamenti, sono la maschera necessaria per “la corsa”, di cui forse è impossibile non fare a meno, almeno se si vuol tornare a casa, finché si è vivi. Dopo sarà un’altra storia, quello che abbiamo intuito adesso non può essere che un sogno lucido.
La bicicletta siamo noi, nella nostra completezza umana e spirituale, un tutt’uno con le nostre pulsioni interiori, generate anche dall’incontro con l’altro sulla nostra strada. Consentendo a noi stessi una scelta non puramente meccanica o fatta di automatismi, - l’uomo non è una macchina - tra spirito, ragione e sentimento, siamo condotti con il pensiero verso mondi altri, ad esplorare universi, senza paura, ma alla fine sentiamo comunque il bisogno del ritorno in noi stessi, di risalire sulla nostra bicicletta, di riprendere possesso del nostro corpo temporaneamente scisso dalle nostre facoltà mentali e spirituali.
La mostra di Franca Faccin si configura quindi, come un sogno naif, liciniano, in cui la ricerca di equilibri strutturali e formali, nonché coloristici prelude a significati impercettibili. Sulle scelte cromatiche hanno inciso anche i frequenti viaggi dell’artista in Sicilia.
E se è pur vero che “il suo giallo non è poi quello dei limoni, il rosso non è quello del sole, né l’azzurro è quello del mare”, ovvero quello che si vede assurge a pretesto visivo concretamente-astratto di un mondo interiore che può solo essere accennato, le sue trasfigurazioni dell’anima ci toccano da vicino, come geometrie segrete di luce piena che adombrano il divino stesso.
L’imprevedibilità che nasce nella reiterazione di grafismi dal sapore orientale con un’anima occidentale, d’azione più che contemplativa, è energia primitiva allo stato puro e al contempo desiderio di pace ed interiore armonia.
Biciclette, giri di freni, mercati a volo d’uccello si susseguono senza sosta nello spazio metafisico della luce. Un linguaggio figurativo estetico e ideologico emozionale, destinato a rimanere come un codice impenetrabile, una partitura musicale contemporanea che sa veramente “di aria, di vento, di luce”, pur rimanendo immobile sulla tela e sulla carta. Anche quando diventa “cerniera”, improbabile tasca di un viaggio al tramonto, che non ha prezzo.
Ben si ricordava Vittorio Basaglia, amico dell’artista, di un vecchio maestro che lo portava a vedere i musei e gli diceva, a proposito di un quadro dell’Ottocento che rappresentava uno squero con una grande barca puntellata: “Se tu pensi di poter star seduto bene all’ombra di quella barca, vuol dire che il quadro è riuscito”. Questa sensazione dell’entrare nel quadro come fosse uno spazio vivibile, se l’è portata dentro per tutta la vita e come primo impatto di giudizio ha sempre funzionato.
Bene, Basaglia riteneva gli spazi di Franca Faccin come accoglienti e problematici nello stesso tempo. Che insomma ci si potesse sedere a pensare.
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