Mario Merz. Città irreale
Dal 08 Maggio 2015 al 22 Novembre 2015
Venezia
Luogo: Gallerie dell’Accademia
Indirizzo: Campo della Carità Dorsoduro 1050
Orari: lunedì 8.15-14; dal martedì alla domenica 8.15-19.15
Curatori: Bartolomeo Pietromarchi
Enti promotori:
- Soprintendenza per il Patrimonio storico artistico e per il Polo museale della città di Venezia e dei comuni della Gronda lagunare
Costo del biglietto: intero € 15, ridotto € 12
Telefono per informazioni: +39 041 5200345
E-Mail info: sspsae-ve.accademia@beniculturali.it
Sito ufficiale: http://www.gallerieaccademia.org
Mario Merz – Città Irreale si svolge dall’8 maggio fino al 20 settembre 2015, in concomitanza con la 56. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia e con Expo 2015 Milano. La mostra, promossa dal già Soprintendente per il Patrimonio storico, artistico e per il Polo museale della città di Venezia e dei comuni della Gronda lagunare, Giovanna Damiani durante il suo mandato a Venezia, e curata da Bartolomeo Pietromarchi, in collaborazione con la Fondazione Merz e organizzata da MondoMostre, è la prima realizzata in un’istituzione pubblica italiana dallascomparsa dell’artista e dalla grande retrospettiva che gli è stata dedicata nel 2005 da Castello di Rivoli, GAM eFondazione Merz (Torino) e porta per la prima volta l’arte contemporanea all’interno dei nuovi spazi delle grandi Gallerie dell’Accademia.
Città irreale rende omaggio all’opera di Mario Merz, una delle personalità più rilevanti della scena artistica internazionale del secondo Novecento, come dimostrano le numerose partecipazioni alle Biennali di Venezia, alle edizioni di Documenta e alla grande mostra al Guggenheim Museum di New York (1989) ‐ primo artista italiano ad avere una personale in quella sede. L’esposizione, che sin dal titolo si presenta anche come omaggio ideale del maestro a Venezia, città irreale per eccellenza — luogo metafisico e surreale dove natura e cultura trovano una sintesi perfetta — ripercorre una carriera che si è distinta sin dagli esordi nell’ambito del movimento dell’Arte Povera per la profondità critica e la straordinaria portata poetica.
La mostra intende esplorare in particolare il tema dello spazio in relazione alla sua ricerca artistica, così come di volta in volta è stato declinato: dal singolo oggetto quotidiano alla dimensione abitativa e all’idea di habitat, dallo spazio collettivo e urbano fino a quello cosmico e cosmologico. La prospettiva individuale si allarga così nella sua pratica a quella collettiva, quella naturale e a quella artificiale, mentre le opere si fanno simbolo della negoziazione tra il vivere dell’uomo e il suo contesto naturale e architettonico. I lavori in mostra evidenziano una tensione etica e poetica che suggerisce un’idea di società condivisa e partecipata, nella quale l’equilibrio tra natura e cultura, tradizione e innovazione, trova una sintesi nell’energia e nel confronto costante tra gli elementi.
Nelle installazioni di Mario Merz — capaci di scavalcare le categorie tradizionali per occupare l’ambiente e avvalersi degli oggetti che provengono dalla realtà quotidiana — materiali naturali ed effimeri si combinano con elementi urbani e industriali, integrando riferimenti del contesto contemporaneo e accogliendo i richiami del paesaggio naturale e delle dinamiche di crescita organica. Forti sono le affinità tra i temi indagati dall’artista e quelli proposti nell’edizione EXPO Milano 2015, “Nutrire il pianeta – Energia per la Vita”, che diventa cornice ideale per rilanciare la straordinaria attualità del messaggio poetico di Merz.
Il neon — che l’artista inizia a impiegare dalla metà degli anni Sessanta — è al centro di alcune delle sue opere più iconiche, commissionate spesso come interventi urbani nel tessuto di molte città europee: dalle installazioni permanenti, con la serie di Fibonacci, sulla cupola della Mole Antonelliana e l’Igloo Fontana di Torino, alla grande spirale nella metropolitana di Napoli, alle installazioni luminose della stazione centrale di Zurigo e dell’aeroporto Schiphol di Amsterdam.
“Solitario, nomade e visionario”, come lo ha definito il critico Harald Szeemann, Mario Merz nasce a Milano nel 1925 e si trasferisce in giovane età a Torino. Durante la seconda guerra mondiale lascia la facoltà di Medicina e si unisce al movimento antifascista “Giustizia e Libertà”. Nel 1945, imprigionato per un anno alle Carceri Nuove di Torino, esegue disegni che sperimentano un tratto grafico continuo, senza mai staccare la punta della matita dalla carta. Uscito dalla prigione “il giorno dopo ho preso un pezzetto di carta e una matita e sono andato nel prato, lontano da casa, lontano da tutti, a fare, a disegnare, perché mi dicevo: l’arte deve diventare un messaggio nuovo”. Autodidatta, la prima personale di Merz si tiene nel 1954 presso la galleria La Bussola di Torino, dove presenta opere pittoriche i cui soggetti rimandano all’universo organico e dai quali emerge la conoscenza dell’Informale e dell’Espressionismo Astratto americano. A Torino, dalla metà degli anni Sessanta, frequenta gli artisti che il critico Germano Celant riunirà poi sotto la denominazione di “Arte Povera”, movimento che porterà l’arte italiana a imporsi all’attenzione della scena internazionale. In concomitanza con la diffusione della Pop Art anglo‐americana, questo gruppo condivide la predilezione per l’impiego di materiali umili e quotidiani, al fine di mettere in discussione i capisaldi ideologici della cultura dominante. Le opere si articolano liberamente nello spazio, tramite un processo creativo che non intende “rappresentare”, bensì “essere” nella realtà. In un contesto storico dominato dalla produzione di massa e dal moltiplicarsi delle invenzioni tecnologiche, Mario Merz, come gli altri, esercita una pratica incentrata invece sul “libero progettarsi dell’uomo”.
Il percorso espositivo si articola in senso cronologico per accompagnare il visitatore attraverso gli sviluppi della poetica dell’artista, partendo dalle prime sperimentazioni tra oggetto e architettura per arrivare alle grandi installazioni ambientali, passando per gli approfondimenti della sua attività grafica.
La selezione dei lavori introduce inoltre una serie di parallelismi con alcune delle opere dei grandi Maestri della pittura veneta, presenti nelle collezioni delle Gallerie al piano superiore. Da Tiziano a Giorgione e Tintoretto in un dialogo con alcuni capolavori in cui la concezione della natura, della luce, del movimento, dello spazio architettonico e dei luoghi si apre a un possibile confronto teorico e formale, per una lettura originale e particolare di entrambe le espressioni.
La mostra si apre con Città irreale (1968), l’opera dalla quale è tratto il titolo dell’esposizione, che introduce una sala dedicata a un nucleo importante di opere storiche che, tra gli anni Sessanta e Settanta, hanno segnato la “conquista” dello spazio tridimensionale e il definitivo superamento del piano bidimensionale. Impermeabile (1966) è uno dei primi esempi in questo senso: Merz si serve di tubi al neon per trafiggere oggetti di uso comune, i quali, attraversati dal segno luminoso, entrano a far parte delle dinamiche di energia spaziali simboleggiate dallo slancio vettoriale della Lancia (1966). “Tutto questo non è assemblage di oggetti, è un raggruppamento di quegli elementi già presenti nel paesaggio del XX secolo, nel quale ritroviamo effettivamente tutto quello che si può vedere nella strada”, dice Mario Merz a proposito di questo nucleo di lavori e di come essi scavalchino definitivamente le categorie tradizionali per occupare l’ambiente e avvalersi degli stimoli che provengono dalla realtà quotidiana, come gli slogan legati ai sollevamenti politici di quel periodo, al centro di Sitin (1968). Igloo (di Marisa) (1972) introduce uno dei temi distintivi della ricerca dell’artista, destinato a essere costantemente rielaborato negli anni. L’igloo fa riferimento a una struttura abitativa comune alle culture orientali e a quelle occidentali, primordiale, archetipica e in perfetto equilibrio tra espansione e concentrazione. Con questo ulteriore allontanamento dai supporti tradizionali, l’artista conquista definitivamente il piano architettonico, presentando un intervento concreto nel paesaggio.
Allestita in due sale che ne risaltano la dimensione personale e intima, una selezione di opere su carta introduce la ricerca di Merz sul disegno, solido caposaldo del suo lavoro e più volte accostato alla tradizione rinascimentale che lo intende come proiezione intellettuale all’origine della composizione.
Nella sala seguente sono esposte Senza titolo (Luoghi senza strada) (1994), un igloo in ardesia che testimonia la conquista di una scala più ampia e di un nuovo repertorio di materiali, e Spirale di cera (1970‐1981), in cui è ripreso il tema fondamentale della serie di Fibonacci — una sequenza matematica basata sulle leggi della riproduzione naturale, nella quale ogni numero è dato dalla somma dei due precedenti — applicato alle dinamiche espansive dello spazio organico e della creazione artistica. Ideata inizialmente in relazione con l’edificio del Museum Haus Lange di Krefeld, progettato da Mies Van der Rohe, quest’opera è stata realizzata oltre un decennio più tardi al Kunstmuseum Liechtenstein di Vaduz, museo dal quale proviene il prestito. Sugli stessi principi si fondano anche Spirale verso lo Zenith (1985) e Senza titolo (Una somma reale è una somma di gente), in cui si manifesta l’interesse per il tavolo, un elemento destinato a ricorrere in quanto struttura della socialità, del nutrimento e dello scambio.
Il percorso prosegue con Fulmine in tazzina (1990), La natura è l’equilibrio della spirale (1976) e Un albero occupa soprattutto tempo, due alberi occupano il medesimo tempo ma uno spazio maggiore (1976) — opere di grandidimensioni che esprimono la centralità della natura e dell’universo fisico e biologico nell’ambito della poetica di Merz— per concludersi nel cortile delle Gallerie con gli otto grandi igloo di 74 gradini riappaiono in una crescita di geometria concentrica (1992).
Città irreale rende omaggio all’opera di Mario Merz, una delle personalità più rilevanti della scena artistica internazionale del secondo Novecento, come dimostrano le numerose partecipazioni alle Biennali di Venezia, alle edizioni di Documenta e alla grande mostra al Guggenheim Museum di New York (1989) ‐ primo artista italiano ad avere una personale in quella sede. L’esposizione, che sin dal titolo si presenta anche come omaggio ideale del maestro a Venezia, città irreale per eccellenza — luogo metafisico e surreale dove natura e cultura trovano una sintesi perfetta — ripercorre una carriera che si è distinta sin dagli esordi nell’ambito del movimento dell’Arte Povera per la profondità critica e la straordinaria portata poetica.
La mostra intende esplorare in particolare il tema dello spazio in relazione alla sua ricerca artistica, così come di volta in volta è stato declinato: dal singolo oggetto quotidiano alla dimensione abitativa e all’idea di habitat, dallo spazio collettivo e urbano fino a quello cosmico e cosmologico. La prospettiva individuale si allarga così nella sua pratica a quella collettiva, quella naturale e a quella artificiale, mentre le opere si fanno simbolo della negoziazione tra il vivere dell’uomo e il suo contesto naturale e architettonico. I lavori in mostra evidenziano una tensione etica e poetica che suggerisce un’idea di società condivisa e partecipata, nella quale l’equilibrio tra natura e cultura, tradizione e innovazione, trova una sintesi nell’energia e nel confronto costante tra gli elementi.
Nelle installazioni di Mario Merz — capaci di scavalcare le categorie tradizionali per occupare l’ambiente e avvalersi degli oggetti che provengono dalla realtà quotidiana — materiali naturali ed effimeri si combinano con elementi urbani e industriali, integrando riferimenti del contesto contemporaneo e accogliendo i richiami del paesaggio naturale e delle dinamiche di crescita organica. Forti sono le affinità tra i temi indagati dall’artista e quelli proposti nell’edizione EXPO Milano 2015, “Nutrire il pianeta – Energia per la Vita”, che diventa cornice ideale per rilanciare la straordinaria attualità del messaggio poetico di Merz.
Il neon — che l’artista inizia a impiegare dalla metà degli anni Sessanta — è al centro di alcune delle sue opere più iconiche, commissionate spesso come interventi urbani nel tessuto di molte città europee: dalle installazioni permanenti, con la serie di Fibonacci, sulla cupola della Mole Antonelliana e l’Igloo Fontana di Torino, alla grande spirale nella metropolitana di Napoli, alle installazioni luminose della stazione centrale di Zurigo e dell’aeroporto Schiphol di Amsterdam.
“Solitario, nomade e visionario”, come lo ha definito il critico Harald Szeemann, Mario Merz nasce a Milano nel 1925 e si trasferisce in giovane età a Torino. Durante la seconda guerra mondiale lascia la facoltà di Medicina e si unisce al movimento antifascista “Giustizia e Libertà”. Nel 1945, imprigionato per un anno alle Carceri Nuove di Torino, esegue disegni che sperimentano un tratto grafico continuo, senza mai staccare la punta della matita dalla carta. Uscito dalla prigione “il giorno dopo ho preso un pezzetto di carta e una matita e sono andato nel prato, lontano da casa, lontano da tutti, a fare, a disegnare, perché mi dicevo: l’arte deve diventare un messaggio nuovo”. Autodidatta, la prima personale di Merz si tiene nel 1954 presso la galleria La Bussola di Torino, dove presenta opere pittoriche i cui soggetti rimandano all’universo organico e dai quali emerge la conoscenza dell’Informale e dell’Espressionismo Astratto americano. A Torino, dalla metà degli anni Sessanta, frequenta gli artisti che il critico Germano Celant riunirà poi sotto la denominazione di “Arte Povera”, movimento che porterà l’arte italiana a imporsi all’attenzione della scena internazionale. In concomitanza con la diffusione della Pop Art anglo‐americana, questo gruppo condivide la predilezione per l’impiego di materiali umili e quotidiani, al fine di mettere in discussione i capisaldi ideologici della cultura dominante. Le opere si articolano liberamente nello spazio, tramite un processo creativo che non intende “rappresentare”, bensì “essere” nella realtà. In un contesto storico dominato dalla produzione di massa e dal moltiplicarsi delle invenzioni tecnologiche, Mario Merz, come gli altri, esercita una pratica incentrata invece sul “libero progettarsi dell’uomo”.
Il percorso espositivo si articola in senso cronologico per accompagnare il visitatore attraverso gli sviluppi della poetica dell’artista, partendo dalle prime sperimentazioni tra oggetto e architettura per arrivare alle grandi installazioni ambientali, passando per gli approfondimenti della sua attività grafica.
La selezione dei lavori introduce inoltre una serie di parallelismi con alcune delle opere dei grandi Maestri della pittura veneta, presenti nelle collezioni delle Gallerie al piano superiore. Da Tiziano a Giorgione e Tintoretto in un dialogo con alcuni capolavori in cui la concezione della natura, della luce, del movimento, dello spazio architettonico e dei luoghi si apre a un possibile confronto teorico e formale, per una lettura originale e particolare di entrambe le espressioni.
La mostra si apre con Città irreale (1968), l’opera dalla quale è tratto il titolo dell’esposizione, che introduce una sala dedicata a un nucleo importante di opere storiche che, tra gli anni Sessanta e Settanta, hanno segnato la “conquista” dello spazio tridimensionale e il definitivo superamento del piano bidimensionale. Impermeabile (1966) è uno dei primi esempi in questo senso: Merz si serve di tubi al neon per trafiggere oggetti di uso comune, i quali, attraversati dal segno luminoso, entrano a far parte delle dinamiche di energia spaziali simboleggiate dallo slancio vettoriale della Lancia (1966). “Tutto questo non è assemblage di oggetti, è un raggruppamento di quegli elementi già presenti nel paesaggio del XX secolo, nel quale ritroviamo effettivamente tutto quello che si può vedere nella strada”, dice Mario Merz a proposito di questo nucleo di lavori e di come essi scavalchino definitivamente le categorie tradizionali per occupare l’ambiente e avvalersi degli stimoli che provengono dalla realtà quotidiana, come gli slogan legati ai sollevamenti politici di quel periodo, al centro di Sitin (1968). Igloo (di Marisa) (1972) introduce uno dei temi distintivi della ricerca dell’artista, destinato a essere costantemente rielaborato negli anni. L’igloo fa riferimento a una struttura abitativa comune alle culture orientali e a quelle occidentali, primordiale, archetipica e in perfetto equilibrio tra espansione e concentrazione. Con questo ulteriore allontanamento dai supporti tradizionali, l’artista conquista definitivamente il piano architettonico, presentando un intervento concreto nel paesaggio.
Allestita in due sale che ne risaltano la dimensione personale e intima, una selezione di opere su carta introduce la ricerca di Merz sul disegno, solido caposaldo del suo lavoro e più volte accostato alla tradizione rinascimentale che lo intende come proiezione intellettuale all’origine della composizione.
Nella sala seguente sono esposte Senza titolo (Luoghi senza strada) (1994), un igloo in ardesia che testimonia la conquista di una scala più ampia e di un nuovo repertorio di materiali, e Spirale di cera (1970‐1981), in cui è ripreso il tema fondamentale della serie di Fibonacci — una sequenza matematica basata sulle leggi della riproduzione naturale, nella quale ogni numero è dato dalla somma dei due precedenti — applicato alle dinamiche espansive dello spazio organico e della creazione artistica. Ideata inizialmente in relazione con l’edificio del Museum Haus Lange di Krefeld, progettato da Mies Van der Rohe, quest’opera è stata realizzata oltre un decennio più tardi al Kunstmuseum Liechtenstein di Vaduz, museo dal quale proviene il prestito. Sugli stessi principi si fondano anche Spirale verso lo Zenith (1985) e Senza titolo (Una somma reale è una somma di gente), in cui si manifesta l’interesse per il tavolo, un elemento destinato a ricorrere in quanto struttura della socialità, del nutrimento e dello scambio.
Il percorso prosegue con Fulmine in tazzina (1990), La natura è l’equilibrio della spirale (1976) e Un albero occupa soprattutto tempo, due alberi occupano il medesimo tempo ma uno spazio maggiore (1976) — opere di grandidimensioni che esprimono la centralità della natura e dell’universo fisico e biologico nell’ambito della poetica di Merz— per concludersi nel cortile delle Gallerie con gli otto grandi igloo di 74 gradini riappaiono in una crescita di geometria concentrica (1992).
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