Michelangelo e il Potere: a Palazzo Vecchio fino al 26 gennaio 2025
Il manifesto politico di Michelangelo che non c'è
Il dettaglio di un calco del David. Dalla mostra Michelangelo e il Potere. Photo: Leonardo Morfini - courtesy © Fondazione MUS.E
Piero Muscarà
17/10/2024
Firenze - Se parliamo del rapporto tra arte e politica, tra artisti e uomini di potere, la mostra dedicata al genio di Michelangelo che apre a Firenze dal 18 ottobre e che chiuderà il 26 gennaio 2025 è una promessa che un po’ delude.
Il titolo è certamente intrigante: Michelangelo e il Potere. E anche il luogo dove si sviluppa l’esposizione - al secondo piano del Museo di Palazzo Vecchio, tra la Sala delle Udienze e la Sala dei Gigli - è particolarmente bello, ricco di storia e ben centrato rispetto agli obiettivi del racconto che i curatori Cristina Acidini e Sergio Risaliti si propongono di mettere in scena. Ma a un così vasto programma - come farebbe intendere una titolazione così magniloquente - la mostra lascia un po’ interdetti.
La tesi dei curatori, ovvero dimostrare l’indipendenza di giudizio, la libertà dell’artista Michelangelo Buonarroti di fronte ai suoi ricchi e potentissimi committenti - appare un po’ appannata rispetto a quello che ci si sarebbe potuti immaginare. La mostra è infatti davvero piccolina, appena 50 le opere esposte, anche se corredata da alcuni preziosi prestiti provenienti da importanti istituzioni museali italiane e internazionali. Soprattutto non riesce, pur tenendo conto dell'interessante allestimento (da un punto di vista compositivo, meno sulla carente illuminazione) messo a punto dagli architetti Guido Ciompi e Gianluca Conte, a portare a termine il ragionamento da cui partono le premesse di questa narrazione.
Per Risaliti l’esposizione dovrebbe dimostrare come a suo modo, Michelangelo “seppe tener testa ai suoi committenti, affidandosi non solo al suo orgoglio di cittadino fiorentino e di artista, ma alla monolitica convinzione della suprema superiorità dell’arte”. E fin qui niente da obiettare.
Il passaggio successivo del ragionamento sembra invece più difficile da seguire e appare un po’ più grandioso nelle intenzioni che nel suo sviluppo, quando il direttore artistico del Museo del Novecento, dichiara che l’esposizione del celebre busto di marmo di Bruto - realizzato da Michelangelo nel 1538 e prestato eccezionalmente dal Museo del Bargello per far mostra di sé all’ingresso dell’esposizione a Palazzo Vecchio - sarebbe da considerare “un manifesto politico di rara potenza, immaginato contro i tiranni della terra” dato che “Michelangelo non tollerava alcun dispotismo, soprattutto l’uomo solo al comando”. Una tesi certo affascinante - anche perché il busto del tirannicida fu commissionato a Buonarroti dagli avversari politici dei Medici fuggiti da Firenze dopo la caduta della Repubblica - ma che la mostra non riesce a spiegare o a evidenziare in alcun modo all’ignaro spettatore. Il tema c’è, la spiegazione manca. O meglio c’è nelle parole del materiale testuale distribuito alla stampa, ma non è in alcun modo esplicitato nelle scelte delle opere esposte conseguenti a questo ragionamento. Dove sarebbe questo Michelangelo repubblicano anti-tiranni ? A noi pare che sì certamente Michelangelo dato il suo innegabile genio poté godere di grande libertà di giudizio e conquistò massima indipendenza artistica nel corso della sua lunga vita, ma che si confondano invece i piani del ragionamento quando si proiettano temi del contemporaneo (la lotta alla tirannide, la romantica figura dell’artista che non si lascia imbavagliare, ottimi spunti di comunicazione certamente - ndr) nella scena artistica e storica del Cinquecento fiorentino. Oltre al marmo del Bruto in mostra c’è un potpourri che mischia un po’ di tutto: il calco dell’Angelo reggicandelabro, quello del Bacco, la riproduzione in gesso della Pietà Vaticana, la copia monumentale della testa del David di Piazza Signoria, i due Schiavi (il Barbuto e il Morente), la Notte delle Cappelle Medicee. Ma soprattutto ci sono opere che - al di là dell’importante committenza - non sembrano coerentemente dimostrare l’intento curatoriale, quello di dar testimonianza di Michelangelo, primo artista “indipendente”. Perché per esempio sono bellissimi a vedere così tutti insieme i ritratti dei “potenti” con cui Michelangelo ebbe a che fare nella splendida “quadreria” messa a punto a mo’ di sfondo nella Sala dei Gigli. Ma poco o nulla si intende del pensiero politico del Buonarroti che si vorrebbe dimostrare.
Forse lo farà il catalogo in preparazione, certamente lo sanno Risaliti e Acidini che hanno una tale indubitabile, approfondita conoscenza della materia michelangiolesca (e una vera e sincera passione) che sapranno smentirci con dovizia di argomento.
Certo la scelta di un corredo informativo così scarno ed essenziale per l’allestimento non aiuta, a nostro modesto avviso, l’ignaro spettatore che non ritrova quell’accostamento “pop” che invece sarebbe stata scelta conseguente a un così importante titolo scelto per questa mostra. Anche perché il visitatore non trova ganci semplici a cui aggrapparsi per seguire agilmente il ragionamento di premessa proposto. Per dire, il tema del Giudizio Universale (1536-1541) è solo tangenzialmente toccato (due immagini dagli Archivi Alinari) e nulla si comprende invece del contesto storico e delle implicazioni filosofiche e religiose di un manifesto di propaganda di cui Michelangelo si fece interprete.
Ciò detto l’occasione di una visita a Firenze per vedere - con la scusa di questa mostra - il Museo di Palazzo Vecchio ci può benissimo stare. Basta esser consapevoli di cosa vi attende, una piccola piacevole mostra da contemplare senza capir bene il perché, che serve soprattutto - e questo sì che sarebbe un interessante tema di “arte e potere” da esplorare - a rinnovare e ribadire il primato e la centralità di Firenze nel Rinascimento e nell’arte italiana. Ieri ed oggi, Ars instrumentum regni.
Il titolo è certamente intrigante: Michelangelo e il Potere. E anche il luogo dove si sviluppa l’esposizione - al secondo piano del Museo di Palazzo Vecchio, tra la Sala delle Udienze e la Sala dei Gigli - è particolarmente bello, ricco di storia e ben centrato rispetto agli obiettivi del racconto che i curatori Cristina Acidini e Sergio Risaliti si propongono di mettere in scena. Ma a un così vasto programma - come farebbe intendere una titolazione così magniloquente - la mostra lascia un po’ interdetti.
La tesi dei curatori, ovvero dimostrare l’indipendenza di giudizio, la libertà dell’artista Michelangelo Buonarroti di fronte ai suoi ricchi e potentissimi committenti - appare un po’ appannata rispetto a quello che ci si sarebbe potuti immaginare. La mostra è infatti davvero piccolina, appena 50 le opere esposte, anche se corredata da alcuni preziosi prestiti provenienti da importanti istituzioni museali italiane e internazionali. Soprattutto non riesce, pur tenendo conto dell'interessante allestimento (da un punto di vista compositivo, meno sulla carente illuminazione) messo a punto dagli architetti Guido Ciompi e Gianluca Conte, a portare a termine il ragionamento da cui partono le premesse di questa narrazione.
Per Risaliti l’esposizione dovrebbe dimostrare come a suo modo, Michelangelo “seppe tener testa ai suoi committenti, affidandosi non solo al suo orgoglio di cittadino fiorentino e di artista, ma alla monolitica convinzione della suprema superiorità dell’arte”. E fin qui niente da obiettare.
Il passaggio successivo del ragionamento sembra invece più difficile da seguire e appare un po’ più grandioso nelle intenzioni che nel suo sviluppo, quando il direttore artistico del Museo del Novecento, dichiara che l’esposizione del celebre busto di marmo di Bruto - realizzato da Michelangelo nel 1538 e prestato eccezionalmente dal Museo del Bargello per far mostra di sé all’ingresso dell’esposizione a Palazzo Vecchio - sarebbe da considerare “un manifesto politico di rara potenza, immaginato contro i tiranni della terra” dato che “Michelangelo non tollerava alcun dispotismo, soprattutto l’uomo solo al comando”. Una tesi certo affascinante - anche perché il busto del tirannicida fu commissionato a Buonarroti dagli avversari politici dei Medici fuggiti da Firenze dopo la caduta della Repubblica - ma che la mostra non riesce a spiegare o a evidenziare in alcun modo all’ignaro spettatore. Il tema c’è, la spiegazione manca. O meglio c’è nelle parole del materiale testuale distribuito alla stampa, ma non è in alcun modo esplicitato nelle scelte delle opere esposte conseguenti a questo ragionamento. Dove sarebbe questo Michelangelo repubblicano anti-tiranni ? A noi pare che sì certamente Michelangelo dato il suo innegabile genio poté godere di grande libertà di giudizio e conquistò massima indipendenza artistica nel corso della sua lunga vita, ma che si confondano invece i piani del ragionamento quando si proiettano temi del contemporaneo (la lotta alla tirannide, la romantica figura dell’artista che non si lascia imbavagliare, ottimi spunti di comunicazione certamente - ndr) nella scena artistica e storica del Cinquecento fiorentino. Oltre al marmo del Bruto in mostra c’è un potpourri che mischia un po’ di tutto: il calco dell’Angelo reggicandelabro, quello del Bacco, la riproduzione in gesso della Pietà Vaticana, la copia monumentale della testa del David di Piazza Signoria, i due Schiavi (il Barbuto e il Morente), la Notte delle Cappelle Medicee. Ma soprattutto ci sono opere che - al di là dell’importante committenza - non sembrano coerentemente dimostrare l’intento curatoriale, quello di dar testimonianza di Michelangelo, primo artista “indipendente”. Perché per esempio sono bellissimi a vedere così tutti insieme i ritratti dei “potenti” con cui Michelangelo ebbe a che fare nella splendida “quadreria” messa a punto a mo’ di sfondo nella Sala dei Gigli. Ma poco o nulla si intende del pensiero politico del Buonarroti che si vorrebbe dimostrare.
Forse lo farà il catalogo in preparazione, certamente lo sanno Risaliti e Acidini che hanno una tale indubitabile, approfondita conoscenza della materia michelangiolesca (e una vera e sincera passione) che sapranno smentirci con dovizia di argomento.
Certo la scelta di un corredo informativo così scarno ed essenziale per l’allestimento non aiuta, a nostro modesto avviso, l’ignaro spettatore che non ritrova quell’accostamento “pop” che invece sarebbe stata scelta conseguente a un così importante titolo scelto per questa mostra. Anche perché il visitatore non trova ganci semplici a cui aggrapparsi per seguire agilmente il ragionamento di premessa proposto. Per dire, il tema del Giudizio Universale (1536-1541) è solo tangenzialmente toccato (due immagini dagli Archivi Alinari) e nulla si comprende invece del contesto storico e delle implicazioni filosofiche e religiose di un manifesto di propaganda di cui Michelangelo si fece interprete.
Ciò detto l’occasione di una visita a Firenze per vedere - con la scusa di questa mostra - il Museo di Palazzo Vecchio ci può benissimo stare. Basta esser consapevoli di cosa vi attende, una piccola piacevole mostra da contemplare senza capir bene il perché, che serve soprattutto - e questo sì che sarebbe un interessante tema di “arte e potere” da esplorare - a rinnovare e ribadire il primato e la centralità di Firenze nel Rinascimento e nell’arte italiana. Ieri ed oggi, Ars instrumentum regni.
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