Aspettando “Le Ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e luce”, al cinema dal 26 al 28 novembre

Vi presento il mio Monet – Parla lo sceneggiatore Giorgio D’Introno

Claude Monet, La Grand Décoration (dettaglio). Musée de l'Orangerie, Parigi. xiquinhosilva from Cacau [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], attraverso Wikimedia Commons
 

Francesca Grego

19/11/2018

Quando Claude Monet dipingeva – cioè quasi sempre – a nessuno era permesso interromperlo. Perfino il suo barbiere gli girava attorno con cautela, lasciandogli tra un colpo di forbici e l’altro lo spazio per muoversi, pennello in mano, nell’atelier en plein air di Giverny.
A raccontarcelo è Giorgio D’Introno, sceneggiatore di Le Ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e luce, che vedremo al cinema dal 26 al 28 novembre con la regia di Giovanni Troilo. Un rapporto quasi intimo ormai, quello tra Monet e D’Introno, scaturito da due anni di assidua “frequentazione”: da un episodio della serie Sky “Capolavori perduti”, cui Giorgio ha collaborato in veste di autore, fino al film targato Ballandi Art e Nexo Digital che, in un flusso di immagini cangianti, ci porta al cuore dell’arte di Monet attraverso la storia di un capolavoro unico, la Grand Décoration.
 
“Quando scopri l’uomo oltre l’opera, ti sembra di guardare per la prima volta la sua arte. Hai la sensazione surreale di essere lì al suo fianco”, spiega D’Introno: “Leggendo tutto quello che è stato detto su Monet, quanto lui stesso scriveva o lasciava trasparire nelle sue lettere, soffermandomi sulle relazioni che intesseva, ho scoperto un uomo dalla vita interessante, degna di un romanzo. Durante le riprese a Giverny ci sembrava quasi di essere i suoi vicini, liberi di entrare in casa e vedere che cosa stesse facendo. Questo ci ha dato uno straordinario senso di intimità, tanto più che Monet era molto restio a far entrare degli sconosciuti nel suo spazio privato”.
 FOTO: Monet: Le Ninfee e altri capolavori
Che cosa ti ha colpito dell’uomo Monet?
“Sicuramente la grandissima determinazione di un uomo che non si è mai arreso di fronte agli insuccessi, alla vecchiaia, ai problemi di vista, alla guerra o ai lutti familiari. Proprio quando tutto sembrava perduto, ha trovato il modo di abbracciare quanto gli stava accadendo e avviare quella che forse è la più grande opera della sua vita, sicuramente una delle più grandiose della storia dell’arte di quel periodo. Una forza d’animo sconfinata che sarei felice di poter ritrovare alla sua età”.
 
Che tipo di taglio avete adottato per raccontare il padre dell’Impressionismo?
“Abbiamo scelto di concentrarci sulla figura artistica di Monet e su quello che aveva intorno, dalla temperie culturale al clima politico e sociale dell’epoca, tralasciando consapevolmente il gossip che può circondare un artista.
Ma per parlarne abbiamo usato un taglio speciale: l’amicizia con Georges Clemenceau, un uomo politico decisamente in vista, primo ministro e ministro della guerra francese negli anni caldi del primo Novecento. Conosciamo l’uomo Monet attraverso questa grandissima amicizia, per poi immergerci nell’impresa della Grand Décoration e nelle sue motivazioni”.
 
Quali sono gli aspetti più interessanti dell’amicizia tra Claude Monet e Georges Clemenceau?
“In primo luogo il fatto che non parlassero mai di politica. Pare che Monet non abbia mai votato in vita sua o che lo abbia fatto una sola volta. Frequentava l’uomo più potente di Francia, ma era un artista e la politica non gli interessava.
Clemenceau dal canto suo è stato il più grande sostenitore di Monet: è stato lui a voler portare la Grand Décoration al Musée de l’Orangerie, facendone non solo un monumento alla vittoria, ma anche un omaggio all’amico. Ha dedicato un libro alle Ninfee e ha continuato ad andare ad ammirarle anche quando le sale dell’Orangerie sono rimaste deserte e quest’opera magnifica abbandonata all’incuria.
Mi ha sorpreso l’umanità, la semplicità quotidiana con cui due uomini così in vista vivevano la loro amicizia. Clemenceau, per esempio, era uno dei pochi che potevano irrompere in casa di Monet in qualsiasi momento, spesso arrivando a gran velocità a bordo della sua automobile. I due avevano diverse passioni in comune, dal giardinaggio alle stampe giapponesi. Mi viene quasi da dire che Clemenceau fosse un Monet mancato, tanto simili al di là della politica erano i loro interessi”.
 
Monet è passato alla storia come il maestro dell’arte dell’istante. Come sei riuscito a trasformare il suo universo lirico in un racconto cinematografico?
“Trovo che l’immagine in movimento sia forse il modo migliore per raccontare Monet: in fondo è proprio quello che lui cercava di fare. Stiamo parlando del periodo in cui il cinema muove i primi passi, la fotografia evolve e inizia a sperimentare: l’immagine fissa è già quasi superata quando Monet decide di catturare i suoi istanti fugaci su tele che cambiano davanti a tuoi occhi, in base al tuo punto di vista e a seconda della luce.
L’impressione è che lui stesse cercando di coinvolgere lo spettatore in un’esperienza nuova, di mettere la pittura in rapporto con il tempo e con il movimento, ma non solo: la Grand Décoration è un’installazione immersiva ante litteram, quasi un esperimento di realtà virtuale o di realtà aumentata. Per accorgersene basta fermarsi davanti alle tele e lasciare che il tempo e la luce facciano la magia di trasportarti accanto all’artista sul lago delle ninfee. Come è successo a noi durante le riprese, quando abbiamo avuto il privilegio di contemplare i dipinti dell’Orangerie in totale solitudine. E con il nostro film proviamo a restituire agli spettatori proprio questa possibilità”.
 
A proposito di fotografia, la luce e il colore hanno un ruolo da protagonisti nel film... Che cosa puoi dirci del contributo della fotografa fiamminga Sanne De Wilde?
“Non è un caso che tra le persone intervistate durante le riprese ci sia una fotografa che ha realizzato una ricerca molto particolare: un progetto dedicato agli abitanti di un’isola del Pacifico che soffrono di acromatompsia, cioè totale assenza di percezione del colore.  Sanne è stato il link che cercavamo per parlare dei problemi di vista che in vecchiaia hanno alterato le percezioni di Monet, ma anche per collegarci al mondo della fotografia: gli impressionisti scomponevano lo spettro della luce in elementi più semplici, che è proprio quello che fa la fotografia”.
 
A un certo punto, la storia irrompe nell’incanto di Giverny con la violenza della Grande Guerra: Monet decide di fare delle Ninfee un monumento alla vittoria e alla pace…
“La guerra entra fisicamente in casa di Monet con le urla dei feriti del vicino ospedale da campo, mentre il villaggio di Giverny si svuota e il bellissimo giardino dell’artista va in malora perché anche i giardinieri sono spariti.
Tutta la Francia si mobilita, molti artisti sono impegnati sul campo di battaglia e Guirand de Scèvola inventa il camouflage militare sulla base della scomposizione impressionista del colore. Monet decide di dare il proprio contributo con la pittura, di opporre resistenza con l’arte a quelli che lui chiama i ‘barbari’ perché oltre alla popolazione francese minacciano icone di cultura come la cattedrale di Reims. In barba a tutte le difficoltà che gli si presentano, porta avanti con incredibile fermezza l’impresa della Grand Décoration, il lascito più importante che possa fare alla nazione. I salici piangenti e i ponti giapponesi insanguinati che dipinge in questo periodo portano i segni del suo disprezzo per la guerra”.
 
Quali sono state le fonti determinanti per questo progetto?
“Provo un sentimento di gratitudine immensa verso Ross King, autore di un’opera - Il mistero delle Ninfee. Monet e la nascita della pittura moderna - che ho letto prima di ricevere l’invito a collaborare a questo film. Un libro che poi mi ha aperto molte strade, eccezionale per la profondità e il modo di raccontare, ma anche inattaccabile dal punto di vista delle fonti. Nel mio lavoro la ricerca è spesso la parte più onerosa. Oltre che una fonte di ispirazione e una piacevole lettura, il libro di Ross King mi ha fornito una preziosa bibliografia, grazie alla quale, per esempio, ho potuto attingere all’opera di Daniel Wildenstein (Il trionfo dell’Impressionismo, n.d.r.), al corpus delle lettere di Monet e agli scritti di Clemenceau”.
 
Quali sono state le scoperte più intriganti in fase di ricerca?
“L’aspetto umano e terreno dell’autore di meraviglie così evanescenti da sembrare ultraterrene: i suoi vizi, i suoi capricci, la quotidianità. Una dimensione colorita che nel film abbiamo tralasciato per questioni di taglio e che tuttavia mi ha avvicinato moltissimo a Monet.
Per esempio ho appreso che era un fumatore accanito e che non lasciava mai spegnere una sigaretta prima di averne accesa un’altra. Mi sono chiesto come riuscisse ad avere tante sigarette anche in tempo di guerra e ho scoperto che a questo scopo Monet era capace di muovere attraverso fili invisibili personaggi anche molto potenti.
Come ho accennato, poi, l’artista non faceva entrare nessuno nel suo giardino al di fuori di pochi selezionatissimi ospiti e il suo attaccamento alla pittura era tale che tutto il resto della vita poteva solo scorrerle attorno rispettosamente: un’indicazione valida anche per il barbiere, a cui tra l’altro Monet aveva tassativamente proibito di toccare la sua barba”.
 
E sul set, com’è andata?
“Ho avuto la fortuna di essere sempre sul set e di girare il film insieme a Giovanni Troilo e a quelli che chiamo i nostri contributors: Ross King, Elisa Lasowki, Sanne De Wilde, Claire Hélène Marron. Giovanni è una persona che riesce sempre a sorprendermi: ha una visione molto personale degli argomenti che affronta. Dalla scrittura fino all’ultimo giorno delle riprese, abbiamo vissuto insieme un viaggio che mi ha arricchito moltissimo.
Uno degli aspetti più esaltanti è stato attraversare la Francia seguendo il corso della Senna, una sorta di spina dorsale della vita di Monet: un fiume che lo ha ossessionato fin da ragazzino e che lui si è portato dentro per sempre, fino a sentirsi in diritto di deviare un suo affluente per portarlo nel proprio giardino. Cercare di capire cosa lo avesse così ossessionato è stata una sfida interessante.
Ma l’impresa più difficile è stata seguire Monet nel suo sforzo di mostrare come il mondo cambi con la luce a ogni ora del giorno: ‘raggiungere l’irraggiungibile’ e ‘afferrare l’inafferrabile’ si è rivelato alquanto faticoso nelle lunghe giornate estive del Nord della Francia, dove il sole sorge alle 4.30 del mattino e tramonta del tutto dopo le 23. E pensare che per Monet questa era la norma, anche sotto la pioggia o con la neve”.
 
Dal tuo punto di vista, quali emozioni o messaggi possono comunicare al pubblico attuale l’arte e la storia di Monet?
“Probabilmente non c’è una risposta univoca. In un museo tu ti fermi mezz’ora davanti a un dipinto e gli altri passano oltre. Il segreto è tutto lì, nella maniera di fruire l’arte che è diversa per ciascuno di noi.
Con Le Ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e luce abbiamo cercato di offrire uno spettacolo per gli occhi, un godimento visivo concentrato in 90 minuti, che consenta a chi guarda il film di scoprire o riscoprire Monet e di innamorarsene. Sono estremamente felice e soddisfatto di quello che gli spettatori potranno vedere in sala, è davvero uno spettacolo strabiliante, una nuova lente per guardare Monet attraverso il cinema. C’è tanta bellezza in questo film: in buona parte è grazie Monet, il resto è merito di Giovanni Troilo”.
 
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