Wolfgang Laib
Wolfgang Laib
17/10/2005
Wolfgang Laib, classe 1950, tedesco della piccola cittadina di Metzinger – nel Sud della Germania – figlio di un fisico, dopo essersi laureato in medicina sceglie di abbandonare la professione per seguire i suoi interessi per la religione e il misticismo. Gli anni Settanta si rivelano fondamentali. Appassionato di culture orientali, studia la lingua indiana, il sanscrito, l’hindi e il tamil, e compie molti viaggi nel sud dell’India, che considererà sempre la sua “casa spirituale”, lavorando per il Gandhigram, Centro di divulgazione del pensiero di Gandhi, storico paladino del concetto della “non-violenza”. L’arte sarà il suo strumento di ricerca ed espressione. Sin dagli esordi (1975) sceglie forme semplici, essenziali, leggere, fluide, lavora con gli elementi naturali, in un approccio quasi “zen” all’arte. Il riso, il miele, la cera d’api, il polline, e il latte, diventano la materia prima con cui elaborare forme, all’insegna di una sperimentazione plastica di ispirazione biologica, che punta ad esaltare la preziosità e il potere energetico della natura.
Proprio al ’75 risalgono le sue famose “Milkstones” (Pietre di Latte), che continuerà a produrre, dove il latte è trattato come un velo con cui ricoprire una lastra di marmo bianco, ottenendo l’illusione di un solido oggetto bianco. Opere che ricevettero un’immediata attenzione da parte della critica e che lo portarono ad esporre dalla Germania agli Stati Uniti (New York). Dalla fine degli anni ’70 Laib comincia a sperimentare installazioni fatte di polline, “Pollen”, che viene disposto in variegate forme poligonali sul suolo, o distribuito in perfette sequenze di piccole montagne coniche, come nell’opera “The Five Mountains Not to Climbe”.
Un materiale, il polline, delicatissimo e suggestivo che lo stesso Laib raccoglie direttamente dai campi che circondano la sua casa e che, nel colore e nella forma, varia a seconda della tipologia dei fiori utilizzati: il principale la nocciola, poi il tarassaco di un arancione più intenso, e il botton d’oro più chiaro. Interventi che non passano certo inosservati nel 1982 al pubblico di Documenta a Kassel e alla Biennale di Venezia. “Lavori in apparenza modesti, ma che possono svelare più vaste dimensioni percettive”, commentava, poi, il critico e curatore Harald Szeemann, in occasione della retrospettiva dedicata a Laib che tra il 2000 e il 2003 ha girato in una tournèe espositiva gli Stati Uniti, da Washington a San Diego, per concludersi a Monaco.
Al ritorno dai viaggi in India, Sumatra, Hong Kong, Tibet e Cina (1983), Laib comincia ad usare il riso, prima disposto in sequenza nei cosiddetti “thali”, i tipici piatti indiani d’uso quotidiano per mangiare, anche usati dai pellegrini per le offerte da presentare al tempio, i famosi “Rice Meals”, poi utilizzato per le “Rice Houses”, strutture di legno a forma di casa coperte di metallo bianco o di marmo, scortate da montagne di riso disposto tutt’intorno, ispirate ai cimiteri islamici e ai reliquari medievali, che invece di ossa contengono riso, simbolo di cibo e nutrimento.
Dal 1987 Laib comincia a lavorare la cera d’api, “Beeswax”. Furono i paesaggi dei deserti dell’Arizona e del New Mexico, visitati nell’88 per tre mesi con la moglie Carolyn e la figlia Chandra, a suggerirgli l’idea di costruire vere e proprie strutture di cera incastonate nella roccia come spazi abitabili, dentro cui muoversi. Negli anni Novanta nascono le sue stanze di cera, le “Wax Rooms” – fatte di grandi blocchi di cera e illuminate da spoglie lampadine appese al soffitto – arricchite di scale dai gradini di cera che salgono fino al soffitto, le “Wax Stairs”, e dove si possono attraversare lunghi corridoi e tunnel. Saranno le suggestioni scenografiche e archeologiche della Mesopotamia, visitata nel ’95, a rafforzare l’idea di costruire in cera, rievocando le antiche e monumentali forme dei “ziggurat”, le tipiche torri dell’architettura templare mesopotamica formate da piani sovrapposti. E articolando file di grandi barche sorrette da impalcature di legno, le “Wax Ships”. Influenzata dalla spiritualità e dall’estetica orientale, l’arte di Wolfgang Laib appare, dunque, caratterizzata da una continua forza dialettica tra idea, concetto ed elementi naturali che danno forma al suo fare artistico.
Proprio al ’75 risalgono le sue famose “Milkstones” (Pietre di Latte), che continuerà a produrre, dove il latte è trattato come un velo con cui ricoprire una lastra di marmo bianco, ottenendo l’illusione di un solido oggetto bianco. Opere che ricevettero un’immediata attenzione da parte della critica e che lo portarono ad esporre dalla Germania agli Stati Uniti (New York). Dalla fine degli anni ’70 Laib comincia a sperimentare installazioni fatte di polline, “Pollen”, che viene disposto in variegate forme poligonali sul suolo, o distribuito in perfette sequenze di piccole montagne coniche, come nell’opera “The Five Mountains Not to Climbe”.
Un materiale, il polline, delicatissimo e suggestivo che lo stesso Laib raccoglie direttamente dai campi che circondano la sua casa e che, nel colore e nella forma, varia a seconda della tipologia dei fiori utilizzati: il principale la nocciola, poi il tarassaco di un arancione più intenso, e il botton d’oro più chiaro. Interventi che non passano certo inosservati nel 1982 al pubblico di Documenta a Kassel e alla Biennale di Venezia. “Lavori in apparenza modesti, ma che possono svelare più vaste dimensioni percettive”, commentava, poi, il critico e curatore Harald Szeemann, in occasione della retrospettiva dedicata a Laib che tra il 2000 e il 2003 ha girato in una tournèe espositiva gli Stati Uniti, da Washington a San Diego, per concludersi a Monaco.
Al ritorno dai viaggi in India, Sumatra, Hong Kong, Tibet e Cina (1983), Laib comincia ad usare il riso, prima disposto in sequenza nei cosiddetti “thali”, i tipici piatti indiani d’uso quotidiano per mangiare, anche usati dai pellegrini per le offerte da presentare al tempio, i famosi “Rice Meals”, poi utilizzato per le “Rice Houses”, strutture di legno a forma di casa coperte di metallo bianco o di marmo, scortate da montagne di riso disposto tutt’intorno, ispirate ai cimiteri islamici e ai reliquari medievali, che invece di ossa contengono riso, simbolo di cibo e nutrimento.
Dal 1987 Laib comincia a lavorare la cera d’api, “Beeswax”. Furono i paesaggi dei deserti dell’Arizona e del New Mexico, visitati nell’88 per tre mesi con la moglie Carolyn e la figlia Chandra, a suggerirgli l’idea di costruire vere e proprie strutture di cera incastonate nella roccia come spazi abitabili, dentro cui muoversi. Negli anni Novanta nascono le sue stanze di cera, le “Wax Rooms” – fatte di grandi blocchi di cera e illuminate da spoglie lampadine appese al soffitto – arricchite di scale dai gradini di cera che salgono fino al soffitto, le “Wax Stairs”, e dove si possono attraversare lunghi corridoi e tunnel. Saranno le suggestioni scenografiche e archeologiche della Mesopotamia, visitata nel ’95, a rafforzare l’idea di costruire in cera, rievocando le antiche e monumentali forme dei “ziggurat”, le tipiche torri dell’architettura templare mesopotamica formate da piani sovrapposti. E articolando file di grandi barche sorrette da impalcature di legno, le “Wax Ships”. Influenzata dalla spiritualità e dall’estetica orientale, l’arte di Wolfgang Laib appare, dunque, caratterizzata da una continua forza dialettica tra idea, concetto ed elementi naturali che danno forma al suo fare artistico.
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