Alla scoperta dell'artista che scandalizzò i Salon

Édouard Manet: le 5 opere più famose

Édouard Manet (1832 - 1883), Le Déjeuner sur l'herbe, 1863, Olio su tela, 208 x 264.5 cm, Parigi, Musée d'Orsay
 

Samantha De Martin

20/04/2020

“Era più grande di quanto pensassimo”. Era stato un Degas commosso, durante le esequie del collega, a recitare per primo il mea culpa dell’intera società dell’arte di fronte al “paria”, al pittore grottesco che scandalizzò Salon e fece sobbalzare i benpensanti parigini, Édouard Manet.

Con i suoi oltre 420 dipinti e l’eredità di un artista audace, fu il primo tra i moderni che ebbe il coraggio di rappresentare zingare, cantanti, angeli con il realismo di Courbet, i toni fiammanti di Goya e di Velàzquez, con la bellezza gentile di Raffaello e Tiziano, avendo l’ardire di sfidare l’arte del tempo con lo stesso sguardo di Olympia, la Venere classica rappresentata al pari di una prostituta, che tanto scandalo aveva destato al Salon del 1865.
Il pittore che impresse sui quadri “la poesia e la meraviglia della vita moderna” attraverso la gente di tutti i giorni ebbe il merito di lasciare sulle sue tele tranches de vie di una nuova società, come fossero fatti di cronaca.


Giorgione (1478 - 1510) e/o Tiziano (1490 - 1576), Concerto campestre, Circa 1510, Olio su tela, 110 x 138 cm, Prigi, Museo del Louvre

Colazione sull’erba, 1863
“Indecente”. Così fu accolta dai benpensanti parigini Colazione sull’erba, dipinta nel 1863 e subito coinvolta in uno degli scandali artistici più clamorosi della storia dell'arte, con la sua donna nuda, tutt'altro che una Venere classica, spogliata dagli ornamenti mitologici che sino ad allora spopolavano sulle tele.

Dopo essere stata rifiutata dalla giuria del Salon del 1863, l’opera di Manet fu esposta al Salon des Refusés voluto dallo stesso Napoleone III. Il nuovo titolo era Il Bagno, anche se Manet amava soprannominarla con ironia "Lo scambio di coppie".
Eppure per la sua Colazione sull'erba, oggi conservata al Museo d’Orsay di Parigi, l’artista rivendicò l'eredità degli antichi Maestri ispirandosi a due capolavori rinascimentali del Louvre: Il Concerto campestre di Tiziano e ad alcune incisioni tratte dal Giudizio di Paride di Raffaello.

Lo scandalo non scaturiva certo dalla nudità della donna, ma dal fatto che la protagonista, rappresentata tra uomini vestiti con abiti moderni, non fosse un personaggio mitologico e nemmeno una ninfa, ma una parigina del tempo, una figura insomma del “demi-monde”.

I protagonisti della tela - due uomini e una donna intenti a consumare una colazione all’aperto - vengono inseriti in una scena surreale, completamente slegati dal sottobosco nel quale sono immersi, che funge da scenario appena abbozzato, privo di prospettiva e di profondità. Nell’uomo di sinistra si riconosce lo scultore Ferdinand Karel Leenhoff, mentre a destra posa uno dei due fratelli di Manet, semisdraiato sull’erba e immortalato nell’atto di conversare con la donna dietro il cui sguardo si cela Victorine-Louise Meurent, la modella preferita del pittore.

La ragazza è l’unico personaggio della composizione a volgere lo sguardo verso l’osservatore, quasi ipnotizzato dal suo sorriso enigmatico. Nell'angolo della tela, in basso a sinistra, il pittore adagia gli abiti della giovane nuda - probabilmente in procinto di immergersi nelle acque del vicino ruscello - oltre ai resti della colazione. La frutta che esce dal cestino, il pane, la fiaschetta d'argento compongono una sorta di natura morta, tanto cara al pittore.

Alle spalle delle tre figure si intravede una giovane ragazza vestita, intenta a bagnarsi i piedi nel ruscello.
Queste nuove libertà di rappresentazione del soggetto, nudo, ma anche lo stile e l’abbandono delle tradizionali sfumature per cedere ai repentini contrasti tra luci e ombre, dovettero scandalizzare non poco il mondo dell’arte. L’indignazione generale dovette raggiungere anche Napoleone III che, recatosi ad osservare il dipinto, lo considerò un insulto alla morale borghese. Eppure Manet decise di continuare a sfondare i convenzionalismi borghesi, tacciati di ipocrisia e mediocrità, e l’arte dei Salon, con la potenza sferzante della sua pittura audace.


Édouard Manet, Olympia, 1863, Olio su tela, 190 x 130.5 cm, Parigi, Musée d'Orsay

Olympia, 1863
Lo fece con Olympia, l’opera con la quale Édouard Manet volle reinventare il tradizionale tema del nudo femminile.
È vero, in questa tela, oggi al Museo d’Orsay, il pittore aumenta il numero dei suoi modelli iconografici. Vi si scorge la Venere di Urbino di Tiziano, la Maja desnuda di Goya e i temi, cari a Ingres, dell’odalisca e della schiava nera.

Tuttavia la Venere venne declassata dal suo artista a una sorta di prostituta adagiata su un letto sgualcito, con un’orchidea tra i capelli fulvi, un braccialetto al polso e un nastro di velluto nero al collo, che guarda allo spettatore con un volto inespressivo dietro il quale ritroviamo quello di Victorine Meurent, la modella già incontrata in Colazione sull’erba.

Il critico Julés Claretie definì Olympia - uno pseudonimo tra l’altro molto diffuso tra le prostitute dell’Ottocento - una “odalisca dal ventre giallo". Anche al pubblico l'opera dovette destare orrore al punto che alcuni visitatori tentarono di distruggere la tela con gli ombrelli.

A suscitare il biasimo e lo sdegno della critica fu anche il far ricorso al modello classico desacralizzato, a quella Venere di Tiziano, reinterpretata da Manet secondo il proprio gusto e riadattata alla contemporaneità, nel segno di una violenta iconoclastia artistica dei miti buoni della società borghese.

Mentre nella Venere tizianesca due ancelle vengono rappresentate nell’atto di preparare il corredo nuziale per la dea, Édouard Manet inserisce accanto alla sua modella una dalla pelle scura che sopraggiunge da sinistra porgendo a Olympia un mazzetto di fiori, forse un omaggio di un cliente galante. Al cane fedele dipinto da Tiziano, l’audace pittore sostituisce un gatto nero, posizionandolo proprio sul letto della donna, che tradisce l'indole selvatica e imprevedibile dell'animale.

Anche questa volta il pittore fu criticato per la sua tecnica di realizzazione, estranea a tutti i convenzionalismi accademici, basata sulla giustapposizione delle diverse zone di colore e sul contrasto tra toni caldi e freddi.


Édouard Manet, Il bar delle Folies-Bergère, 1882, Olio su tela, 130 x 96 cm, Londra, Courtauld Gallery

Il bar delle Folies-Bergère, 1882
Nella sua ultima grande opera prima della morte, oggi conservata alla Courtauld Gallery di Londra, Manet rappresenta il vivace interno delle Folies-Bergère, un caffè-concerto, ritrovo della borghesia parigina.

Guy de Maupassant aveva descritto le bariste che vi lavoravano come "venditrici di bevande e di amore". Una di queste, Suzon - i capelli biondi, raccolti, il volto enigmatico e malinconico, lo sguardo perso nei suoi pensieri, il busto stretto in un abito nero dall'ampia scollatura - è la protagonista della tela di Manet, che doveva essere un assiduo frequentatore di questo Caffè.
Suzan potrebbe assomigliare ad una dama del bel mondo parigino, se non fosse per la posa sgraziata con la quale si adagia sul balcone. Manet ne indaga le emozioni con grande sottigliezza psicologica, facendo trapelare il vortice di stanchezza e alienazione che la attanaglia: la ragazza non sembra affatto contenta del lavoro che si trova costretta a svolgere, a contatto con il mondo inquietante degli avventori del bar.  Improvvisamente Édouard Manet trasforma il chiassoso ritrovo di una Parigi mondana in un anfratto percorso dalla solitudine e dal silenzio.

La donna è rappresentata mentre aspetta l'ordine di un cliente. Sul bancone scorgiamo una natura morta, un genere molto amato dall’artista, descritta con colori brillanti e una luce vivida che anticipa gli sviluppi impressionisti interrotti dalla morte. Sul marmo corrono alcune bottiglie di champagne e persino una bottiglia di Bass Pale Ale66, una birra inglese diffusa nella Parigi del tempo. Tra gli oggetti, una fruttiera di cristallo piena di arance e un calice.

Il dipinto, esposto al Salon del 1882 al Salon, fu giudicato “inquietante”
. Ancora una volta il pittore introduce sfacciatamente un soggetto moralmente ambiguo e contemporaneo nel regno dell'alta arte.
Tutta la composizione appare simile a un puzzle. La donna rivolge lo sguardo allo spettatore, mentre uno specchio dietro di lei riflette la sala e gli avventori delle Folies-Bergère, ma anche le tipiche serate che dovevano svolgersi in questo locale alla moda. In alto a sinistra scorgiamo un acrobata in equilibrio sul trapezio. Sotto, un borghese con il cilindro dialoga con una donna. A destra della cameriera un uomo distinto si intrattiene con una ragazza.

In questo modo il punto di vista appare rovesciato rispetto alla barista, anzi il pittore sembra piuttosto suggerirci una posizione privilegiata dalla quale osservare la scena. Il gioco di riflessi farebbe quasi pensare che questi personaggi non siano reali ma che incarnino l’illusione di un momento fugace pronto a dissolversi all’improvviso, come in sogno.


Édouard Manet, Il pifferaio, 1866, Olio su tela, Parigi, Musée d'Orsay | Courtesy of René-Gabriel Ojéda / RMN-Réunion des Musées Nationaux/ distr. Alinari

Il Pifferaio, 1866
"È la più sorprendente opera pittorica che sia mai stata fatta. Lo sfondo scompare: è l'aria che circonda questo buffone di corte, interamente vestito di nero e dall'aspetto gioviale".

Con queste parole rivolte all'amico Fantin-Latour, Édouard Manet aveva manifestato tutto il suo stupore nell’ammirare, al museo del Prado di Madrid, il quadro Pablo de Valladolid di Velasquez. Tornato a Parigi il pittore applicò i principi che aveva conosciuto a un soggetto contemporaneo, descrivendo un semplicissimo e anonimo ragazzino di stanza con la Guardia imperiale, alla maniera del grande buffone di corte. Tuttavia nel suo Pifferaio, conservato al Museo d'Orsay di Parigi, il pittore riduce all’essenziale la tavolozza dei colori - la brillantezza del nero, i rossi del pantalone, il grigio dello sfondo, i bianchi - e priva lo spazio di profondità. Il confine tra il piano orizzontale del pavimento e quello verticale dello sfondo appare sfocato, colorato con un grigio uniforme con pochissime sfumature e totalmente spoglio.

Musica alle Tuleries, 1862
“Un pittore, un vero pittore sarà quello che riuscirà a strappare alla vita moderna il suo lato epico, e ci farà vedere e sentire quanto siamo grandi e poetici nelle nostre cravatte e nelle nostre scarpe lucide” scriveva Charles Baudelaire nel suo saggio Il pittore della vita moderna.

Se dovessimo scegliere un quadro capace di tradurre in pittura queste parole, non potremmo fare a meno di optare per Musica alle Tuileries. Con questo dipinto, infatti, Édouard Manet vuole immortalare l'eroismo della società moderna, fotografando la borghesia parigina assiepata tra gli alberi delle Tuileries, senza tuttavia far ricorso a temi storici o mitologici. Lo stesso Baudelaire è tra le personalità che affollano il parco assieme al pittore - che si ritrae con un bastone da passeggio, tagliato dal margine sinistro della tela - al pittore Albert de Balleroy, al fratello dell'artista, Eugène, al pittore Fantin-Latour, e ad altri amici. Alcune sedie da giardino e un parasole in primo piano completano la composizione.

Manet traduce in pittura il proprio ruolo all'interno della società culturale parigina. Al contrario di quanto il titolo potrebbe farci immaginare, non siamo di fronte ad un concerto, ma immersi nella tipica atmosfera di una festa, esaltata dalle due figure in primo piano e dall’utilizzo di colori vivaci. Il pittore ha semplicemente voluto cimentarsi in un’audace raffigurazione della società parigina ottocentesca, restituendoci una composizione che ci travolge con la sua brulicante frenesia. Anche questa volta i contemporanei gridarono allo scandalo: adesso a turbare il pubblico erano le figure, poco più che abbozzate, oltre alla scelta di rappresentare un tipo di scena sino ad allora privilegiato dalle riviste, in completo disaccordo con i quadri accademici dell’epoca, popolati da personaggi mitologici incorniciati in tradizionali ambientazioni classicheggianti.


Édouard Manet, Musica alle Tuleries, 1862, Olio su tela, 118.1 x 76.2 cm, Londra, National Gallery

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