Al cinema il 26, 27 e 28 novembre
Le ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e di luce - La nostra recensione
Sul set Le Ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e luce. Courtesy Nexo Digital
Samantha De Martin
22/11/2018
Roma - Stagno e mare, luce e nebbia, e, su tutto, la magia sconfinata e sinuosa dell’acqua, il paesaggio che allaga lo schermo dove ogni immagine in movimento assomiglia a un’ intensa e vibrante pennellata di colore.
Le stesse che Monet utilizzava per cercare di catturare i respiri, fugaci e diversi, di una natura cangiante su tele che continuano tutt’oggi a mutare a seconda dell’angolo da cui le si guarda.
Le Ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e di luce, il film evento prodotto da Ballandi Arts e da Nexo Digital, nelle sale il 26, 27 e 28 novembre e dedicato al padre dell’Impressionismo per la regia di Giovanni Troilo, assomiglia a una potente danza per immagini dove la fotografia è regina.
Emergendo letteralmente dalla Grand Décoration, l’ impresa più colossale del maestro, con i suoi pannelli raffiguranti il suo stagno di ninfee, talmente avvolgenti da impastare gli occhi con quell’atmosfera di serenità e di pace, lo spettatore inizia il suo viaggio nell’anima dell’artista, muovendosi sulle note (bellissime) di Remo Anzovino, tra la narrazione di Elisa Lasowski i cui passi incrociano le pennellate di colore sulla tela, la maestria della fotografa fiamminga Sanne De Wilde, le parole di Claire Hélène Marron, la giardiniera della Fondation Monet.
Ed eccole le barche, il mare, l’incedere sinuoso della Senna a scandire la carriera pittorica e la vita dell’artista devoto all’acqua e ai suoi riflessi. Dall’imbarcazione dalla quale Elisa Lasowski snocciola il suo racconto, alle spettacolori immagini dall’alto, tutto è avvolto da un movimento perpetuo e morbido, simile a una danza armonica mossa solo da acqua, natura e luce. Schermo e tela si toccano, fino a fondersi, confondersi, mentre il bianco e nero dei filmati d’epoca interrompe questo idillio inserendo nella narrazione il rintocco della storia.
Presto il fruscio della pioggia e lo scricchiolio dei passi sui ciottoli del giardino di Monet è sopraffatto dall’irrompere delle bombe. La guerra non riparmia la casa dell’artista, insinuandosi all’interno con le urla dei feriti del vicino ospedale da campo, mentre il villaggio di Giverny si svuota e il lussureggiante giardino, privo delle cure dei giardinieri, si spegne.
Anche i salici piangenti e i ponti giapponesi delle tele di questo periodo vengono contaminati dal sangue del conflitto.
Da Le Havre, dove Monet trascorre il primo periodo della sua vita artistica, risalendo il fiume, l’elemento acquatico conduce lo spettatore a Poissy, Argenteuil, Vétheuil, Giverny. Sembra quasi di sfogliare un album, immergendosi, come aveva fatto l’artista per avvicinarsi il più possibile al suo elemento prediletto, in questo universo di acqua e colore dove la natura diventa specchio dell’anima.
Il viaggio en plein air si interrompe solo per consentire allo spettatore di entrare negli altri templi di Monet: il Musée Marmottan, l’Orangerie, il Musée D’Orsay, in un girotondo tra tele e colori. Il movimento non si arresta nemmeno tra le sale, le attraversa fino a condurre il pubblico nel grande giardino dell’artista dove a prendere la parola è Claire Hélène Marron, giardiniera della Fondation Monet, protagonosta di una delle scene forse più belle e intense del film.
Eppure dietro l’individuo che amava circondarsi di fiori multicolori c’è il tormento di un uomo che insegue ossessivamente il suo sogno di eterna gloria e che proprio all’apice del successo perde quasi tutto, la moglie, il primogenito e persino il suo regno vegetale.
In questo spettacolo per gli occhi sulle orme di Monet, a stuzzicare la curisità del pubblico è anche il racconto dell’amicizia tra l’ex Primo Ministro Francese George Clemenceau e l’artista. Sarà Clemenceau a inaugurare, nel maggio del 1927, il museo dedicato alla Grand Décoration. Monet è già morto, ma l’impronta del suo straordinario genio rivivrà, oltre che nelle sue immortali tele, in quella natura ancora intrisa del suo sguardo innamorato.
Leggi anche:
• Lungo le Senna sulle orme di Monet
• Con Giovanni Troilo nell'universo incantato di Claude Monet
• Vi presento il mio Monet - Parla lo sceneggiatore Giorgio D' Introno
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Le stesse che Monet utilizzava per cercare di catturare i respiri, fugaci e diversi, di una natura cangiante su tele che continuano tutt’oggi a mutare a seconda dell’angolo da cui le si guarda.
Le Ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e di luce, il film evento prodotto da Ballandi Arts e da Nexo Digital, nelle sale il 26, 27 e 28 novembre e dedicato al padre dell’Impressionismo per la regia di Giovanni Troilo, assomiglia a una potente danza per immagini dove la fotografia è regina.
Emergendo letteralmente dalla Grand Décoration, l’ impresa più colossale del maestro, con i suoi pannelli raffiguranti il suo stagno di ninfee, talmente avvolgenti da impastare gli occhi con quell’atmosfera di serenità e di pace, lo spettatore inizia il suo viaggio nell’anima dell’artista, muovendosi sulle note (bellissime) di Remo Anzovino, tra la narrazione di Elisa Lasowski i cui passi incrociano le pennellate di colore sulla tela, la maestria della fotografa fiamminga Sanne De Wilde, le parole di Claire Hélène Marron, la giardiniera della Fondation Monet.
Ed eccole le barche, il mare, l’incedere sinuoso della Senna a scandire la carriera pittorica e la vita dell’artista devoto all’acqua e ai suoi riflessi. Dall’imbarcazione dalla quale Elisa Lasowski snocciola il suo racconto, alle spettacolori immagini dall’alto, tutto è avvolto da un movimento perpetuo e morbido, simile a una danza armonica mossa solo da acqua, natura e luce. Schermo e tela si toccano, fino a fondersi, confondersi, mentre il bianco e nero dei filmati d’epoca interrompe questo idillio inserendo nella narrazione il rintocco della storia.
Presto il fruscio della pioggia e lo scricchiolio dei passi sui ciottoli del giardino di Monet è sopraffatto dall’irrompere delle bombe. La guerra non riparmia la casa dell’artista, insinuandosi all’interno con le urla dei feriti del vicino ospedale da campo, mentre il villaggio di Giverny si svuota e il lussureggiante giardino, privo delle cure dei giardinieri, si spegne.
Anche i salici piangenti e i ponti giapponesi delle tele di questo periodo vengono contaminati dal sangue del conflitto.
Da Le Havre, dove Monet trascorre il primo periodo della sua vita artistica, risalendo il fiume, l’elemento acquatico conduce lo spettatore a Poissy, Argenteuil, Vétheuil, Giverny. Sembra quasi di sfogliare un album, immergendosi, come aveva fatto l’artista per avvicinarsi il più possibile al suo elemento prediletto, in questo universo di acqua e colore dove la natura diventa specchio dell’anima.
Il viaggio en plein air si interrompe solo per consentire allo spettatore di entrare negli altri templi di Monet: il Musée Marmottan, l’Orangerie, il Musée D’Orsay, in un girotondo tra tele e colori. Il movimento non si arresta nemmeno tra le sale, le attraversa fino a condurre il pubblico nel grande giardino dell’artista dove a prendere la parola è Claire Hélène Marron, giardiniera della Fondation Monet, protagonosta di una delle scene forse più belle e intense del film.
Eppure dietro l’individuo che amava circondarsi di fiori multicolori c’è il tormento di un uomo che insegue ossessivamente il suo sogno di eterna gloria e che proprio all’apice del successo perde quasi tutto, la moglie, il primogenito e persino il suo regno vegetale.
In questo spettacolo per gli occhi sulle orme di Monet, a stuzzicare la curisità del pubblico è anche il racconto dell’amicizia tra l’ex Primo Ministro Francese George Clemenceau e l’artista. Sarà Clemenceau a inaugurare, nel maggio del 1927, il museo dedicato alla Grand Décoration. Monet è già morto, ma l’impronta del suo straordinario genio rivivrà, oltre che nelle sue immortali tele, in quella natura ancora intrisa del suo sguardo innamorato.
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