Al cinema dal 3 Gennaio il nuovo film di Lucky Red
Van Gogh. Sulla soglia dell'eternità - La nostra recensione
Un'immagine tratta dal film Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità di Julian Schnabel
Samantha De Martin
21/12/2018
Roma - Paesaggi inondati dalla luce del Sud, terra tra le labbra, tele sulle spalle. Suole consunte, calze bucate, mani callose, a liberare il quadro dalla natura, con la potenza del pennello e un solo gesto netto guidato da un inarrivabile colpo di genio.
La soglia dell’eternità varcata dal Van Gogh di Julian Schnabel è un viaggio in un’anima dominata da una natura sospesa tra viatico e dramma, ora custode del legame antico che unisce gli uomini, ora riflesso dello spirito funesto che avvolge l’artista, con quelle radici partorite dalla sua mente “da pazzo” che per i più diventano quadri sgradevoli, creature mostruose, un po’ anguille, un po’ serpenti.
L’aspetto più intenso del film Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità - prodotto da Jon Kilik e distribuito da Lucky Red in associazione con 3 Marys Entertainment, in uscita nelle sale il prossimo 3 gennaio - è la straordinaria capacità del regista di superare il mero racconto biografico e documentaristico, peraltro già ampiamente noto, per condurre il pubblico al fianco del genio, con un approccio nuovo.
Lo spunto è offerto da lettere, biografie, leggende che aiutano il regista a comporre un’ode allo spirito artistico e a quanti inseguono risoluti le proprie convinzioni, talmente assolute da dedicarvi una vita intera.
Il maestro è solo e lo spettatore con lui, a soffrire il freddo, ad ascoltare il vento, a penetrare la natura, con una corsa tra i campi o una passeggiata assorta, avvolti da un panismo lirico, carico di colore e suggestioni. L’intero racconto è un invito a immaginare le scene che avrebbero potuto plausibilmente aver luogo, le situazioni nelle quali Vincent avrebbe potuto trovarsi, le cose che avrebbe potuto dire, ma che l’artista non ha scritto e la storia mai registrato.
Cercando di superare le solite curiosità, il film punta dritto all’uomo Van Gogh, scavando negli ultimi anni, negli anfratti della sua esistenza tormentata, quando lui, genio incompreso e spietatamente sprezzato, è consapevole di avere acquisito una nuova visione del mondo, superando il modo di dipingere degli altri pittori, a cominciare da Gauguin (interpretato nel film da Oscar Isaac).
Schnabel e gli sceneggiatori Jean-Claude Carrière e Louise Kugelberg scelgono di presentare al pubblico la relazione tra Gauguin e Van Gogh in quanto artisti, inducendo a immaginare le conversazioni tra i due sulla tecnica e la filosofia. Parole che nessuno ha mai potuto ascoltare, con Gauguin che rimprovera all’amico e collega di usare troppa pittura sulla tela. Uno è abituato a dipingere a partire dai ricordi e dall’immaginazione, l’altro ha sete di modelli reali.
Anche nell’approfondimento del rapporto tra i due, il realismo estremo è quello che maggiormente colpisce. Li si potrebbe osservare ancora oggi, persi in mezzo alla campagna, a espletare i loro bisogni fisiologici mentre scrivono il manifesto programmatico, personale e diverso, della loro arte immortale.
Nel suo rapporto con Gauguin, così come in quello con Theo, il grande artista lascia spazio all’uomo fragile, che vede nell’abbraccio del fratello, nella presenza dell’amico, la sua unica ancora di salvezza.
“Vedo cose che altri non vedono” dice a un certo punto Van Gogh, primus inventor di una nuova, lungimirante sensibilità artistica. E ancora “I miei dipinti sono conforto e speranza”.
La luce del sole è il suo disegno. E lui sa che il suo talento, “un dono di Dio”, gli è stato molto probabilmente concesso per individui che ancora devono nascere.
A sciorinarlo sulla tela, con tutte le qualità e i difetti, è un pellegrino, un esule che si sente perso quando non può affondare il suo sguardo curioso nel mondo.
E poi c’è l’originale punto di vista di un pittore che racconta un altro pittore. Il regista, l’artista contemporaneo Julian Schnabel, infatti - tra i cui lavori cinematografici si ricordano Basquiat, Prima che sia notte, Lo scafandro e la farfalla - nel tessere il suo racconto, appare in perfetta sintonia con il soggetto.
Indubbiamente vincente la scelta di incentrare il film sull’atto concreto di porre il colore sulla tela presentando al pubblico il gesto autentico di un maestro.
Può un film raccontare - seppure con un linguaggio che gli è proprio e alterando la dimensione temporale - l’intenso turbinio di sentimenti e di carica vitale che sono all’origine dell’atto del dipingere? Da questa apparente impossibilità Schnabel ha ricavato la sua sfìda, cercando di sviscerare aspetti spesso trascurati in altri lavori sugli artisti, offrendo una visione molto personale degli ultimi giorni di vita di Vincent.
E così lo spettatore ne assapora l’anima, la fatica fisica, la dedizione totale, condividendo il momento che accompagna la creazione dell’opera, una sensazione magica, violenta e al tempo stesso viscerale, che annulla la dimensione tempo.
Dai paesaggi assolati di Arles all’istituto psichiatrico di Saint-Remy fino ad Auvers-Sur-Oise, o alla Grande Galérie del Louvre (dove Van Gogh contempla il lavoro dei suoi predecessori Delacroix, Veronese, Frans Hals) lo spettatore partecipa alla corsa “dipinta” dal direttore della fotografia Benoît Delhomme. Anche lui pittore e anche lui artefice di immagini di intensa suggestione, mentre cammina nei campi alla maniera di Vincent, anzi vestito da Vincent, con il suo cappello di paglia, riprendendo la sua stessa ombra. Quello che piace delle ore bucoliche trascorse dal pittore completamente immerso nella natura è quello stile “traballante” scaturito dalle riprese effettuate, in buona parte, con la macchina a spalla. Il direttore della fotografia diventa così reporter di guerra sul campo e lo spettatore cammina, si sdraia sulla terra, corre anche lui, vivendo e vibrando mentre coglie tra le rughe del pittore i rari sorrisi scaturiti da una natura ammaliante.
E poi c’è un intenso Willem Dafoe - premiato alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia con la Coppa Volpi per il Migliore attore - completamente immerso in Van Gogh attraverso un processo quasi alchemico che lo ha spinto a prendere lezioni individuali di pittura da Schnabel per prepararsi al ruolo, per imparare a toccare una tela, ad accostarsi al colore, a vivere insomma l’uomo Vincent.
Dalla prima parte, più lenta, il film cavalca, con ritmo più intenso verso la morte del pittore, accompagnato dalla colonna sonora di Tatiana Lisovskaya che, sulle note del pianoforte prova a immaginare quelli che potevano essere i suoni presenti nella mente del maestro.
Il tragico e misterioso colpo di rivoltella pone fine alla vita di Vincent, a soli 37 anni, ma schiude al pittore la soglia dell’immortalità. Intanto quel pubblico che - Van Gogh ne era consapevole - doveva ancora nascere, ma che avrebbe apprezzato la sua arte, assiste, attorno alla bara circondata dai capolavori, al compimento di questa profetica apoteosi, dal letto di morte di un genio incompreso, all’Olimpo dell’arte.
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La soglia dell’eternità varcata dal Van Gogh di Julian Schnabel è un viaggio in un’anima dominata da una natura sospesa tra viatico e dramma, ora custode del legame antico che unisce gli uomini, ora riflesso dello spirito funesto che avvolge l’artista, con quelle radici partorite dalla sua mente “da pazzo” che per i più diventano quadri sgradevoli, creature mostruose, un po’ anguille, un po’ serpenti.
L’aspetto più intenso del film Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità - prodotto da Jon Kilik e distribuito da Lucky Red in associazione con 3 Marys Entertainment, in uscita nelle sale il prossimo 3 gennaio - è la straordinaria capacità del regista di superare il mero racconto biografico e documentaristico, peraltro già ampiamente noto, per condurre il pubblico al fianco del genio, con un approccio nuovo.
Lo spunto è offerto da lettere, biografie, leggende che aiutano il regista a comporre un’ode allo spirito artistico e a quanti inseguono risoluti le proprie convinzioni, talmente assolute da dedicarvi una vita intera.
Il maestro è solo e lo spettatore con lui, a soffrire il freddo, ad ascoltare il vento, a penetrare la natura, con una corsa tra i campi o una passeggiata assorta, avvolti da un panismo lirico, carico di colore e suggestioni. L’intero racconto è un invito a immaginare le scene che avrebbero potuto plausibilmente aver luogo, le situazioni nelle quali Vincent avrebbe potuto trovarsi, le cose che avrebbe potuto dire, ma che l’artista non ha scritto e la storia mai registrato.
Cercando di superare le solite curiosità, il film punta dritto all’uomo Van Gogh, scavando negli ultimi anni, negli anfratti della sua esistenza tormentata, quando lui, genio incompreso e spietatamente sprezzato, è consapevole di avere acquisito una nuova visione del mondo, superando il modo di dipingere degli altri pittori, a cominciare da Gauguin (interpretato nel film da Oscar Isaac).
Schnabel e gli sceneggiatori Jean-Claude Carrière e Louise Kugelberg scelgono di presentare al pubblico la relazione tra Gauguin e Van Gogh in quanto artisti, inducendo a immaginare le conversazioni tra i due sulla tecnica e la filosofia. Parole che nessuno ha mai potuto ascoltare, con Gauguin che rimprovera all’amico e collega di usare troppa pittura sulla tela. Uno è abituato a dipingere a partire dai ricordi e dall’immaginazione, l’altro ha sete di modelli reali.
Anche nell’approfondimento del rapporto tra i due, il realismo estremo è quello che maggiormente colpisce. Li si potrebbe osservare ancora oggi, persi in mezzo alla campagna, a espletare i loro bisogni fisiologici mentre scrivono il manifesto programmatico, personale e diverso, della loro arte immortale.
Nel suo rapporto con Gauguin, così come in quello con Theo, il grande artista lascia spazio all’uomo fragile, che vede nell’abbraccio del fratello, nella presenza dell’amico, la sua unica ancora di salvezza.
“Vedo cose che altri non vedono” dice a un certo punto Van Gogh, primus inventor di una nuova, lungimirante sensibilità artistica. E ancora “I miei dipinti sono conforto e speranza”.
La luce del sole è il suo disegno. E lui sa che il suo talento, “un dono di Dio”, gli è stato molto probabilmente concesso per individui che ancora devono nascere.
A sciorinarlo sulla tela, con tutte le qualità e i difetti, è un pellegrino, un esule che si sente perso quando non può affondare il suo sguardo curioso nel mondo.
E poi c’è l’originale punto di vista di un pittore che racconta un altro pittore. Il regista, l’artista contemporaneo Julian Schnabel, infatti - tra i cui lavori cinematografici si ricordano Basquiat, Prima che sia notte, Lo scafandro e la farfalla - nel tessere il suo racconto, appare in perfetta sintonia con il soggetto.
Indubbiamente vincente la scelta di incentrare il film sull’atto concreto di porre il colore sulla tela presentando al pubblico il gesto autentico di un maestro.
Può un film raccontare - seppure con un linguaggio che gli è proprio e alterando la dimensione temporale - l’intenso turbinio di sentimenti e di carica vitale che sono all’origine dell’atto del dipingere? Da questa apparente impossibilità Schnabel ha ricavato la sua sfìda, cercando di sviscerare aspetti spesso trascurati in altri lavori sugli artisti, offrendo una visione molto personale degli ultimi giorni di vita di Vincent.
E così lo spettatore ne assapora l’anima, la fatica fisica, la dedizione totale, condividendo il momento che accompagna la creazione dell’opera, una sensazione magica, violenta e al tempo stesso viscerale, che annulla la dimensione tempo.
Dai paesaggi assolati di Arles all’istituto psichiatrico di Saint-Remy fino ad Auvers-Sur-Oise, o alla Grande Galérie del Louvre (dove Van Gogh contempla il lavoro dei suoi predecessori Delacroix, Veronese, Frans Hals) lo spettatore partecipa alla corsa “dipinta” dal direttore della fotografia Benoît Delhomme. Anche lui pittore e anche lui artefice di immagini di intensa suggestione, mentre cammina nei campi alla maniera di Vincent, anzi vestito da Vincent, con il suo cappello di paglia, riprendendo la sua stessa ombra. Quello che piace delle ore bucoliche trascorse dal pittore completamente immerso nella natura è quello stile “traballante” scaturito dalle riprese effettuate, in buona parte, con la macchina a spalla. Il direttore della fotografia diventa così reporter di guerra sul campo e lo spettatore cammina, si sdraia sulla terra, corre anche lui, vivendo e vibrando mentre coglie tra le rughe del pittore i rari sorrisi scaturiti da una natura ammaliante.
E poi c’è un intenso Willem Dafoe - premiato alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia con la Coppa Volpi per il Migliore attore - completamente immerso in Van Gogh attraverso un processo quasi alchemico che lo ha spinto a prendere lezioni individuali di pittura da Schnabel per prepararsi al ruolo, per imparare a toccare una tela, ad accostarsi al colore, a vivere insomma l’uomo Vincent.
Dalla prima parte, più lenta, il film cavalca, con ritmo più intenso verso la morte del pittore, accompagnato dalla colonna sonora di Tatiana Lisovskaya che, sulle note del pianoforte prova a immaginare quelli che potevano essere i suoni presenti nella mente del maestro.
Il tragico e misterioso colpo di rivoltella pone fine alla vita di Vincent, a soli 37 anni, ma schiude al pittore la soglia dell’immortalità. Intanto quel pubblico che - Van Gogh ne era consapevole - doveva ancora nascere, ma che avrebbe apprezzato la sua arte, assiste, attorno alla bara circondata dai capolavori, al compimento di questa profetica apoteosi, dal letto di morte di un genio incompreso, all’Olimpo dell’arte.
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