Paesaggi Interiori / Landscapes from within
Dal 01 Giugno 2019 al 13 Ottobre 2019
Genova
Luogo: Castello D'Albertis
Indirizzo: corso Dogali 18
Orari: martedì, mercoledì e venerdì: 10-18 giovedì: 13-22 sabato e domenica: 10-19 (ultimo ingresso ore 18) Chiuso: lunedì. Ottobre: da martedì a venerdì: 10-17 sabato e domenica: 10-18 (ultimo ingresso ore 17) Chiuso: lunedì
Curatori: Soul Center for the Arts
Telefono per informazioni: +39 010 2723820
E-Mail info: castellodalbertis@comune.genova.it
Soul Center for the Arts occuperà, oltre alla galleria del primo piano del Castello destinata alle esposizioni temporanee, anche la Sala da pranzo estiva al secondo piano ed è lieto di presentare la sua prima mostra collettiva in Italia, intitolata Paesaggi interiori / Landscapes from Within e Tutto in un colpo/Feeling Everything All At Once.
PAESAGGI INTERIORI/ LANDSCAPES FROM WITHIN è la rappresentazione di come il territorio e le tradizioni soffochino l'identità delle popolazioni che ne sono parte quando sono viste attraverso la lente dell'essere indigeni, del diritto alla sovranità e delle attuali condizioni di vita a Turtle Island. Turtle Island è il territorio oggi meglio conosciuto come Nord America, che come noto fu “frequentato” da Cristoforo Colombo.
La mostra PAESAGGI INTERIORI/ LANDSCAPES FROM WITHIN organizzata negli spazi storici di Castello D'Albertis di Genova, è un forte richiamo alla sempre presente questione della decolonizzazione all’interno delle istituzioni artistiche e mette in moto una riflessione relativa agli stati d’animo individuali su queste tematiche di carattere nazionale e sociale. Nonostante Colombo non si sia mai insediato o abbia conquistato Turtle Island, la sua influenza intergenerazionale sul genocidio degli indigeni ha tormentato le popolazioni native di quest'isola per secoli, le cui profonde tracce cariche di sentimenti razziali sono ancora oggi percepibili.
Jaque Fragua e Antoniette Thompson illustrano, attraverso acrilici su tela e fotografie, un catastrofico paese delle meraviglie indigeno trasmettendo una rappresentazione accurata della vita dei moderni nativi americani.
JAQUE FRAGUA (Jemez Pueblo) lavora col fine di distruggere le impressioni sull'essere un americano panindiano. Le sue opere in mostra sono un esempio di come si possa sovvertire uno stereotipo con lo scopo di stimolare una riflessione sullo status-quo, sulle inibizioni collettive e su sé stessi. Il lavoro di Fragua è un costante grido per l’appartenenza, nonostante sia abbastanza coraggioso da poter figurare da solo.
Senza titolo (Sacro)/Untitled (Sacred) rappresenta la forza del paesaggio nativo americano e della loro comunità; ha l’obbiettivo di ricordare che il territorio indigeno è ancora strettamente legato alla terra e non è una questione legata agli eventi del passato.Attraverso il dialogo e l'atto del dipingere, la missione è di utilizzare le esperienze per decostruire i miti legati all'arte, alla tradizione, ai nativi americani e all’appropriazione culturale, così come per rinquadrare il tema del paesaggio del discorso mainstream entro i confini americani, delle riserve e oltre.
“L'arte è sempre stata un conflitto per me, conflitto dovuto all'angoscia che caratterizza la mia identità, che non ruota solamente attorno alla cultura nativo-americana. Anzi, reputo me stesso un amalgama di vari DNA tra traumi storici, collegi (‘boarding school’), diritti civili, Alcatraz, l’American Dream, l’urbanizzazione, le condizioni tragiche della vita in riserva, il trionfo della creatività, le storie di guerra, scazzottate, la vita in carcere, la discriminazione razziale, opinioni contrastanti, hip hop, punk, rock & roll, jazz, graffiti, tatuaggi, pelle marrone scuro, lunghi capelli neri, saggezza spirituale, conoscenza delle tradizioni, le azioni dirette e la pittura.”
ANTOINETTE THOMPSON (Navajo) supera l’immaginario nativo tradizionale con il suo espressionismo astratto dipingendo ciò che prova in contrapposizione a ciò che vede e ciò che ci si aspetta che lei dipinga. Paesaggio senza titolo No. 2/Untitled Landscape No.2 di Thompson raffigura un insieme di punte di freccia rivolte verso l'alto in un territorio della riserva Navajo. In quest'opera, Thompson illustra l'emozione che prova sapendo che i suoi avi furono obbligati ad abbandonare le loro terre e vennero percossi perché parlavano la loro propria lingua. Quest’opera funge da promemoria della resilienza del suo popolo. La punta di freccia è un simbolo sacro della cultura Navajo ed è una figura distintiva delle opere su tela di Thompson. Il significato della punta di freccia singola è quello di protezione e difesa. Le frecce indicano anche direzione, forza, movimento, potenza e destinazione del viaggio. Quando una freccia puntava a sinistra scongiurava il male, se puntata a destra significava protezione, mentre se è rivolta verso il basso esprimeva pace. Due frecce rappresentate vicine significavano guerra. The Great Seal ha cinquanta proiettili o punte di freccia a simboleggiare la protezione della nazione navajo all'interno dei cinquanta stati. “L'arte, per me, come dico sempre, può essere una mescolanza confusa di colori così come una linea priva di decorazioni. È ugualmente evocativa ed spettacolare. Penso che l'arte non sia fatta per essere compresa, o per descrivere, ma semplicemente per essere sentita. E senti l’arte solo quando vedi arte. Non so che cosa sia arte. Le persone hanno una propria assurda percezione della cosa. C'è così tanto sull'arte che non riesco nemmeno a comprenderla. A volte l'arte, per me, è una lettura difficile: un viaggio casuale nella destinazione di ciascuno”
DELANEY KESHENA (Menominee) è una studentessa di fotografia che frequenta l’Istitute of American Indian Arts a Santa Fe, New Mexico. I suoi lavori personali affiancheranno un video realizzato collettivamente tramite il programma di scambio internazionale DIGITAL NATIVES. Questo progetto è il risultato di una collaborazione tra studenti dell’Institute of American Indian Arts a Santa Fe, New Mexico, e l’Institute of Sainte-Marie a Bruxelles, Belgio. DIGITAL NATIVES permette ai giovani artisti studenti di esplorare e concettualizzare come la loro cultura ed il loro patrimonio si intersechino in un contesto legato alle questioni di accesso e fruizione di strumenti digitali, così come alla rappresentazione delle minoranze nell’immaginario popolare. La comprensione di questo fenomeno è stata portata a termine tramite progetti artistici collettivi realizzati sia attraverso la rete che attraverso scambi internazionali. Il titolo e tema complessivo della raccolta delle opere di Delaney è Tutto in un colpo/ Feeling Everything All At Once. L’opera di Keshena Piccoli mondi/ Small Worlds rende omaggio al futurismo indigeno e alla mitologia. Il simbolismo dietro al concetto di “mondi” ha radici profonde nelle culture native americane che variano da tribù a tribù. Ogni tribù nativa americana ha una sua specifica storia della creazione del mondo che solitamente si sviluppa a partire da tradizioni mitologiche, cosmologiche ed escatologiche, originate da precedenti culture mesoamericane. Stando alle teorie moderne, la civilizzazione, così come la conosciamo noi, è alla sua quinta fase o mondo. Il tema principale del mito ritiene che ci siano stati quattro altri cicli di creazione e distruzione che hanno preceduto il Quinto Mondo. Secondo Keshena l’occhio del mondo è rivolto verso i cosiddetti Dead Indians/ Indiani morti. Il concetto di Dead Indian/l’indiano morto, introdotto da Thomas King, è legato a una idealizzazione di un indiano docile, nobile ma soprattutto estinto. Questa fantasia viene alimentata dalle immagini di Catlin e Curtis. Nell’immortalare l’indiano che scompare, Curtis produce trofei della supremazia americana. Di conseguenza la voce indigena viene ridotta a una voce irrilevante di un passato lontano. Questa prospettiva è raramente sfidata nell’arte della cultura dominante.
Keshena ritiene che le istituzioni artistiche preferiscano esporre le forme più appetibili dell’artigianato tradizionale, tuttavia concedono spazi alle popolazioni indigene perche agiscano nel narrare del passato e del presente. Vale a dire che è ormai chiaro come l’arte indigena sia destinata a chiedere in prestito uno spazio all’interno delle istituzioni artistiche contemporanee, ma non a possederlo. Se gli artisti indigeni sono esposti è tra gli artefatti delle ‘antichità americane’. Questa tendenza ha due scopi: in primis di mantenere una distanza tra arte indigena e arte contemporanea ‘autentica’. Secondariamente, rassicura il visitatore di fronte a una possibile critica dell’essere bianchi. Al suo secondo anno di università, il lavoro di Keshena oltrepassa i confini e sfida l’estetica dell’arte indigena, facendo in modo che l’osservatore crei un collegamento per comprendere la comunità indigena e l’umanità. “Una soluzione alla rappresentazione dell’arte indigena contemporanea può non essere possibile nello spazio tradizionale dedicato all’arte. I luoghi designati all’arte hanno le proprie fondamenta nell’elitarismo e credo che il futuro dell’arte indigena dipenda dal ricostruire ‘il museo’ tramite piattaforme digitali accessibili”. Il tema della mostra viene ulteriormente esplorato dall’uso dei Totem Talks, una modalità contemporanea di interazione introspettiva e dialogica per i visitatori di ogni età. Per ogni mostra del triennio di partnership previsto da Soul of Nations, Totem Talk sarà una costante per cui visitatori in gruppo o scolaresche potranno esprimere i loro sentimenti ed emozioni rispondendo alle domande che ciascun totem presenterà, come ad esempio “Cosa significa essere indigeno”? oppure “Cosa intendi per sacro?”. Gli studenti dell’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova interagiranno con i “totem talks” durante un laboratorio interattivo prima dell’apertura della mostra, mentre gli studenti del Dipartimento di Lingue e Culture moderne dell’Università di Genova sono stati invitati a rispondere alle domande e le loro opinioni verranno incorporate nell’esposizione. La loro partecipazione prevede anche attività di traduzione ed interpretariato.
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