S T A N Z E Paola Fonticoli
Dal 08 Maggio 2024 al 14 Giugno 2024
Milano
Luogo: Art Studio Finestreria
Indirizzo: Via Ascanio Sforza 69
Orari: Opening 7 Mag 18 - 21 | Lun - Ven 15 - 19.30 | Sab - Dom su appuntamento
Curatori: Claudia Ponzi
Telefono per informazioni: +39 333 647 361
E-Mail info: finestreria@gmail.com
Sito ufficiale: http://www.artstudiofinestreria.com
Un equilibrio inquieto accompagna lo sguardo lungo linee taglienti e, a tratti, quasi esilaranti. In questa sua mostra personale dal titolo Stanze, Paola Fonticoli crea un susseguirsi di ambientazioni nelle quali la carta è protagonista assoluta. Astrazioni essenziali, ironiche, precise ed eleganti in cui collage e minimi gesti pittorici costruiscono mondi rarefatti ma densi di poesia. I minuscoli ambienti creati dentro scatole riciclate o il respiro più ampio del bianco (o del nero) che si dilata indisturbato su vaste superfici, ci offrono un’ampia varietà di geometrie insolite e silenti, sempre in bilico e pronte al “passo falso”, liricamente protese verso luoghi da scoprire. L’artista a volte si serve di materiali di scarto che rinascono diventando cosmi evanescenti e sospesi.
TRASPARIRE
Testo a cura Maria Nadotti
Quando un’opera artistica si accasa sul limine dell’impercettibile, le coordinate spaziali cominciano a muoversi e la materia a svariare. Si è accolti in un campo di silenzio e di luce. Ecco perché vorrei invitare chi legge a entrare con me nell’atelier di Paola Fonticoli e a domandarsi in che modo e in quale punto dello spazio si tracci quel limine, all’interno dell’opera e nel suo intorno, e in quell’altrove misterioso in cui la memoria dei sensi - quelli dell’artista e i nostri - lo colloca e incessantemente lo disloca. I lavori più recenti dell’artista - paesaggi mentali e dell’anima fugaci come la materia cartacea di cui sono fatti e indelebili come le scie del tempo vissuto e gli indizi di quello a venire - ti invitano con gentile fermezza ad assumere una postura sensoriale complessa, mai univoca e di sicuro non unidirezionale. Qui, per vedere, devi innanzitutto ascoltare, tastare, scortecciare il già visto, rimemorare, dubitare, interrogare, guardare, girare intorno, riguardare, avvicinarti, allontanarti, cambiare angolo visuale. E, innanzitutto, accettare non la vaghezza ingannevole dell’ombra, ma la sua solidità, il suo esserci casa. Paola Fonticoli disegna contorni netti e permeabili - un paradosso che è proprio l’ombra a consentire, proponendosi come zona mai statica del possibile, allusione al processo incostante del divenire - e lo fa tagliando e unendo, accostando forme e colori come a sottolineare che solo la disparità e la dissonanza mettono in relazione.
Le sue Stanze di carta rigorosamente contenute in piccole scatole orfane sono microinstallazioni che sembrano avere luogo alla periferia dello sguardo. Chi le osserva è testimone di un’evoluzione che si dà al loro interno, ma che solo l’atmosfera in cui sono immerse può attivare. È un’evoluzione simile a quella di cui si è testimoni quando si osservano a lungo e da vicino i fili d’erba ai bordi di un campo o il farsi e disfarsi di una nuvola in primavera o il movimento della luce tra le foglie di un albero: tutto muove e si muove in un tenace lavorio della materia. Groviglio, attrito, attrazione, fusione, incontro: è da lì che scaturisce - proprio perché senza un obiettivo che lo preceda e lo trascenda - quel tertium che in natura e nell’arte è sempre già dato e che tuttavia è in attesa di essere visto, scoperto, riconosciuto. La carta - materiale cui Fonticoli è approdata per successive spoliazioni, passando dalla leggerezza resistente del legno alla compattezza duttile della creta, dall’inconsistenza della creta diluita in acqua e usata come vernice alla trasparenza del vetro -, oltre a essere significante pienamente assunto di fragilità, permette al silenzio e alla luce di farsi sostanza corporea dell’opera.
In questo triadico intreccio agiscono la mano, l’occhio e l’orecchio di un’artista che si fa tramite tra il vuoto racchiuso in ogni perimetro (tela, pagina, scatola o altra superficie delimitata) e il vuoto che lo avvolge, tra il loro reciproco dentro e il loro scambievole fuori, tra il chiuso e l’aperto, il celato e l’esposto, il circoscritto e il diffuso e sui bordi allusivi di un’ombra che dà e toglie spessore allo spazio. C’è, nelle scatole create in questi mesi da Fonticoli, uno studio accurato e sottilmente sensuale di ciò che avviene all’interno di un territorio concluso, scelto e al contempo subito, che è lì a far da barriera, ostacolo e inciampo, ma anche a offrire la protezione e la rassicurazione del limite e a suggerire strategie di coesistenza, convivenza e collaborazione. Alcune minuscole scatole sono veri e propri dispositivi ottici: invitano a guardare attraverso una stratificazione di piani che mette in forse la percezione, la certezza della percezione, e induce a chiedersi se ciò che si vede sia tutto il visibile o se ci sia un oltre, nascosto dietro la mutevolezza e l’opacità dell’apparente. Le carte sovrapposte e incollate tra loro, senza alterarne il colore, lavorando sullo scarto percettivo prodotto dalla loro concrezione, dalla giustapposizione dei ritagli, dalla loro sagomatura, da quei lievi segni che l’artista traccia a pennarello sul recto o sul verso del foglio, generano minuscoli universi fluttuanti e ventosi di cui si stenta ad ammettere la dimensione reale. Come se l’artista avesse usato una lente di rimpicciolimento per dare una misura al respiro.
E del respiro le sue Stanze hanno il ritmo, la durata, le pause, gli intervalli, il suono attutito, calmo, gentile. L’atto compositivo ha un esito acustico e temporale: il gesto della mano persiste nell’impersistenza. La luce lambisce la carta, la inonda, la nasconde, la sfrangia e vi si infrange. I margini sono diventati centro e il centro è migrato sui margini. Qui si gioca seriamente e la regola è un intatto, rinnovato stupore. Guardare avvicina.
TRASPARIRE
Testo a cura Maria Nadotti
Quando un’opera artistica si accasa sul limine dell’impercettibile, le coordinate spaziali cominciano a muoversi e la materia a svariare. Si è accolti in un campo di silenzio e di luce. Ecco perché vorrei invitare chi legge a entrare con me nell’atelier di Paola Fonticoli e a domandarsi in che modo e in quale punto dello spazio si tracci quel limine, all’interno dell’opera e nel suo intorno, e in quell’altrove misterioso in cui la memoria dei sensi - quelli dell’artista e i nostri - lo colloca e incessantemente lo disloca. I lavori più recenti dell’artista - paesaggi mentali e dell’anima fugaci come la materia cartacea di cui sono fatti e indelebili come le scie del tempo vissuto e gli indizi di quello a venire - ti invitano con gentile fermezza ad assumere una postura sensoriale complessa, mai univoca e di sicuro non unidirezionale. Qui, per vedere, devi innanzitutto ascoltare, tastare, scortecciare il già visto, rimemorare, dubitare, interrogare, guardare, girare intorno, riguardare, avvicinarti, allontanarti, cambiare angolo visuale. E, innanzitutto, accettare non la vaghezza ingannevole dell’ombra, ma la sua solidità, il suo esserci casa. Paola Fonticoli disegna contorni netti e permeabili - un paradosso che è proprio l’ombra a consentire, proponendosi come zona mai statica del possibile, allusione al processo incostante del divenire - e lo fa tagliando e unendo, accostando forme e colori come a sottolineare che solo la disparità e la dissonanza mettono in relazione.
Le sue Stanze di carta rigorosamente contenute in piccole scatole orfane sono microinstallazioni che sembrano avere luogo alla periferia dello sguardo. Chi le osserva è testimone di un’evoluzione che si dà al loro interno, ma che solo l’atmosfera in cui sono immerse può attivare. È un’evoluzione simile a quella di cui si è testimoni quando si osservano a lungo e da vicino i fili d’erba ai bordi di un campo o il farsi e disfarsi di una nuvola in primavera o il movimento della luce tra le foglie di un albero: tutto muove e si muove in un tenace lavorio della materia. Groviglio, attrito, attrazione, fusione, incontro: è da lì che scaturisce - proprio perché senza un obiettivo che lo preceda e lo trascenda - quel tertium che in natura e nell’arte è sempre già dato e che tuttavia è in attesa di essere visto, scoperto, riconosciuto. La carta - materiale cui Fonticoli è approdata per successive spoliazioni, passando dalla leggerezza resistente del legno alla compattezza duttile della creta, dall’inconsistenza della creta diluita in acqua e usata come vernice alla trasparenza del vetro -, oltre a essere significante pienamente assunto di fragilità, permette al silenzio e alla luce di farsi sostanza corporea dell’opera.
In questo triadico intreccio agiscono la mano, l’occhio e l’orecchio di un’artista che si fa tramite tra il vuoto racchiuso in ogni perimetro (tela, pagina, scatola o altra superficie delimitata) e il vuoto che lo avvolge, tra il loro reciproco dentro e il loro scambievole fuori, tra il chiuso e l’aperto, il celato e l’esposto, il circoscritto e il diffuso e sui bordi allusivi di un’ombra che dà e toglie spessore allo spazio. C’è, nelle scatole create in questi mesi da Fonticoli, uno studio accurato e sottilmente sensuale di ciò che avviene all’interno di un territorio concluso, scelto e al contempo subito, che è lì a far da barriera, ostacolo e inciampo, ma anche a offrire la protezione e la rassicurazione del limite e a suggerire strategie di coesistenza, convivenza e collaborazione. Alcune minuscole scatole sono veri e propri dispositivi ottici: invitano a guardare attraverso una stratificazione di piani che mette in forse la percezione, la certezza della percezione, e induce a chiedersi se ciò che si vede sia tutto il visibile o se ci sia un oltre, nascosto dietro la mutevolezza e l’opacità dell’apparente. Le carte sovrapposte e incollate tra loro, senza alterarne il colore, lavorando sullo scarto percettivo prodotto dalla loro concrezione, dalla giustapposizione dei ritagli, dalla loro sagomatura, da quei lievi segni che l’artista traccia a pennarello sul recto o sul verso del foglio, generano minuscoli universi fluttuanti e ventosi di cui si stenta ad ammettere la dimensione reale. Come se l’artista avesse usato una lente di rimpicciolimento per dare una misura al respiro.
E del respiro le sue Stanze hanno il ritmo, la durata, le pause, gli intervalli, il suono attutito, calmo, gentile. L’atto compositivo ha un esito acustico e temporale: il gesto della mano persiste nell’impersistenza. La luce lambisce la carta, la inonda, la nasconde, la sfrangia e vi si infrange. I margini sono diventati centro e il centro è migrato sui margini. Qui si gioca seriamente e la regola è un intatto, rinnovato stupore. Guardare avvicina.
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