Warhol, artista globale

©courtesy of Electa | Opera di Andy Warhol
 

14/01/2004

Ancora una mostra importante per Salerno, città antica ma dallo spirito giovane e fervente. Dopo la mostra-evento sul genio di Joan Mirò, il Caravaggio “impossibile” e l’interessante retrospettiva su Chagall, il Complesso di Santa Sofia ospita un altro appuntamento con l’arte: Global Warhol. Si tratta di una ricca retrospettiva sull’artista cecoslovacco adottato dall’America e divenutone simbolo. “The Pope of Pop”, Andrew Warhola, meglio conosciuto come Andy Warhol viene celebrato in questa esposizione che raccoglie 100 lavori e 73 fotografie. La maggior parte delle opere provengono da collezioni italiane, questo a dimostrare quanto l’artista fosse apprezzato in Italia. Si va dall’inconfondibile Campbell’s Soup, a Marilyn Monroe, da Mao a Che Guevara, da Jackie Kennedy a Guglielmo Achille Cavallini a Enrico Coveri a Mick Jagger, da Vesuvius a Electric Chair per finire con The Last Supper, omaggio al grande Leonardo dell’Ultima Cena. In esposizione anche 45 foto di Chris Makos che ritraggono il genio en travesti che rifà Duchamp in abiti femminili e che comparirono sulla rivista Interview nata in seno alla Factory. E, poi, 28 in cui si celebra l’incontro con Dino Prediali. Quello che colpisce di questa mostra è il senso di multimedialità che si respira nelle sale. Sì, perché il re dei mass media diventati arte amava estrinsecare la sua vena creatrice non solo attraverso la serigrafie, le tele, i colori acrilici. Amava più d’ogni altra cosa la fotografia. E per questo ritraeva e si faceva ritrarre, o ancor meglio si metteva dietro la cinepresa. E creava. Nella terza sala di questa mostra, infatti, sono in proiezione i lungometraggi a cui Warhol diede vita insieme ai compagni della Factory. Dal cinema primitivo privo di montaggio alla pellicola muta in bianco e nero. La sezione, curata da Mario Zonta, contiene i film Kiss, Empire, Blow Job, nonché l’inedito per l’Italia Woman in Revolt di Paul Morissey e filmati che testimoniano il fermento che visse il gruppo The Velvet Undergound, in particolare uno che ritrae i primi concerti della band presso la Factory e improvvisamente interrotti dalla polizia. Una mostra globale, dunque, per un artista globale che fece dell’immagine il veicolo della sua filosofia. Il suo genio certamente giovò anche del periodo storico in cui visse, in un’America del boom economico, della pubblicità, del glam, della carta patinata. Tutto era omologato, uguale e uguale a se stesso, come se l’uomo cercasse disperatamente di conformarsi in una omogeneità che non generasse angoscia esistenziale, ma un confortevole senso di appartenenza. Lontano dal mondo europeo fautore e sostenitore dell’individualismo. L’unica individualità in quest’opera immensa è il modo in cui l’artista legge la realtà e la sublima in un livello più alto, più colto rendendola opera d’arte, o meglio prodotto d’arte di un artista/manager che inventò la cosiddetta business art.

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