Zoom sul capolavoro dei Musei Vaticani
Tesori d'Italia: il Laocoonte
Agesandro, Polidoro e Atanodoro di Rodi, Laocoonte, 40-20 a.C., Musei Vaticani
Francesca Grego
13/05/2020
“Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitata da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata. Quest’anima, nonostante le più atroci sofferenze, si palesa nel volto del Laocoonte, e non nel volto solo (…). Laocoonte soffre: il suo patire ci tocca il cuore, ma noi desidereremmo poter sopportare il dolore come quest’uomo sublime lo sopporta”. È questa la reazione del grande archeologo e storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann di fronte al più famoso gruppo scultoreo dell’antichità: due metri e 42 centimetri di tragica bellezza, corpi contorti nello spasimo, muscoli e nervi tesi che raccontano un dramma antico.
“Nel palazzo dell’imperatore Tito”, scriveva Plinio il Vecchio 17 secoli prima, il Laocoonte era opera “da anteporre a tutte le cose dell’arte sia per la pittura sia per la scultura. Da un solo blocco i sommi artisti Agesandro, Polidoro e Atanadoro di Rodi fecero lui e i figli e i mirabili intrecci dei serpenti”.
Figurarsi la gioia di papa Giulio II quando, il 14 gennaio del 1506, il colosso di marmo emerse da una vigna sul Colle Oppio sotto gli occhi stupefatti di Michelangelo e Giuliano da Sangallo. Proprio lì, nei pressi della Domus Aurea di Nerone, doveva trovarsi un tempo la residenza di Tito. Il pontefice non perse neanche un attimo: il Laocoonte sarebbe stato suo.
Agesandro, Polidoro e Atanodoro di Rodi, Laocoonte, 40-20 a.C., Musei Vaticani | Foto: harnvi via Pixabay
Qual è la storia narrata dal capolavoro dei Musei Vaticani?
Nell’Eneide di Virgilio, Laocoonte è il sacerdote troiano che si oppone all’ingresso tra le mura di Troia del cavallo di legno nel cui ventre si nascondono i guerrieri greci. “Temo i Danai anche quando portano doni”, esclama disperato l’uomo facendo appello al buonsenso dei suoi concittadini. Ma Atena e Poseidone, sostenitori di Ulisse e dei suoi compagni, inviano dal mare due mostruosi serpenti che stritolano Laocoonte e i due figli. I Troiani interpretano l’episodio come un segno divino e accolgono il cavallo che li porterà alla rovina.
Nel marmo il pathos del mito si esprime attraverso virtuosismi ad alta intensità emotiva e uno sviluppo a tutto tondo che permette di ammirarne il gruppo da ogni angolazione. Con il suo fisico scolpito, Laocoonte sembra un campione di lotta: mentre chiama a raccolta le forze per liberarsi dalla stretta, il busto si contorce, i muscoli si tendono e si slanciano nello spazio in posa dinamica. Fragili e impotenti, i ragazzi implorano l’aiuto paterno. Pena e terrore prendono corpo sul volto del forzuto sacerdote, che rappresenta il punto culminante della composizione.
Le origini del Laocoonte
Sono poche le notizie disponibili sul passato del gruppo scultoreo. Di certo c’è che da Rodi i suoi autori giunsero a Roma, come testimonia il ritrovamento di sculture dedicate alle storie di Ulisse nella vicina Sperlonga. Lo stile dell’opera ci riporta all’arte ellenistica, ma non sappiamo con esattezza a quando risalga: ultimamente sembra prevalere l’ipotesi che colloca il Laocoonte intorno al 40-30 a.C.
Alcuni dettagli tecnici fanno pensare che la statua sia in realtà una copia da un originale di bronzo, come ha sostenuto l’archeologo austriaco Bernard Andreae. Ma resta senza risposta una questione sollevata dal racconto di Plinio: secondo lo scrittore romano il Laocoonte fu scolpito da un solo blocco di pietra, mentre il gioiello del Colle Oppio risulta composto di più parti. Come mai?
Il Laocoonte e la nascita dei Musei Vaticani
Dal punto di vista romano, la morte del sacerdote troiano e dei suoi figli fu una necessaria premessa alla fuga di Enea dalla città in fiamme e dunque alla fondazione di Roma. Grande appassionato di arte classica, Giulio II non poteva lasciarsi sfuggire un tesoro così. Acquistò il gruppo appena ritrovato e ne fece il fulcro del nuovo Cortile delle Statue, progettato da Donato Bramante nel complesso del Belvedere per accogliere la collezione pontificia di scultura antica: un allestimento che è considerato l’atto fondativo dei Musei Vaticani, dove il Laocoonte rappresentò a lungo il pezzo più ammirato insieme all’Apollo del Belvedere.
Le tentazioni di Napoleone
Un solo uomo osò spostare il Laocoonte dai palazzi pontifici, e non poteva essere che Napoleone. Dopo le pesanti sconfitte inflitte al papa dai francesi e al Trattato di Tolentino, nella primavera del 1798 dodici carri carichi di opere d’arte partirono da Roma alla volta di Parigi. Insieme al Laocoonte c’erano capolavori come l’Apollo del Belvedere, la Venere de’ Medici e la Trasfigurazione di Raffaello. Sul Passo del Moncenisio il Laocoonte rovinò al suolo riportando gravi danni, ma per 17 anni occupò comunque un posto d’onore all’interno del Louvre, dove divenne fonte di ispirazione per gli artisti francesi. Fu lo scultore e diplomatico Antonio Canova a mediare perché il Laocoonte tornasse a casa insieme agli altri tesori sottratti e a occuparsi del suo restauro dopo il rimpatrio nel 1815.
Particolare del braccio di Laocoonte | Foto: Gentil Hibou (Own work) via Wikimedia Creative Commons
Il braccio del Laocoonte
Quello di Canova non fu né il primo né l’ultimo restauro del Laocoonte. La scultura che venne fuori dalla vigna di Felice de Fredis si presentava in buone condizioni ma senza un braccio, così come la statua del figlio minore. Il dibattito divampò tra gli esperti. Come ripristinare le parti perdute? E qual era la posizione originaria del braccio del sacerdote? Un braccio di terracotta teso all’infuori, in posa dinamica e carica di eroismo, fu attaccato alla spalla del Laocoonte. Più tardi gli studi di Winckelmann portarono a concludere che anticamente l’arto si volgeva all’indietro, ripiegato dietro la spalla come aveva già ipotizzato Michelangelo, ma si preferì lasciarlo così com’era.
Il colpo di scena arrivò nel 1906, quando l’archeologo praghese Ludwig Pollack ritrovò per caso il braccio originario nella bottega di uno scalpellino romano: donato al Vaticano, fu ricollocato al suo posto nel 1959, in un intervento che rimosse ogni integrazione posticcia secondo i principi del restauro moderno.
Dal Rinascimento alle avanguardie, un tesoro di ispirazione
Nel Cinquecento la scoperta del Laocoonte ebbe un’enorme risonanza: per causa sua il Cortile del Belvedere divenne meta di viaggiatori, artisti e curiosi che chiedevano di visitarlo anche nelle ore notturne. Nel frattempo disegni e incisioni portavano l’immagine della scultura in giro per l’Europa. L’arte del Rinascimento e del Barocco ne fu profondamente influenzata. Michelangelo ne trasse ispirazione per lo Schiavo ribelle e lo Schiavo morente e pare che Raffaello ne abbia tratto insegnamenti per la torsione del corpo di Cristo nella Pala Baglioni. Il dinamismo e la plasticità tormentata del gruppo lasciarono tracce in opere di Tiziano, El Greco e Andrea del Sarto.
Le repliche e le rielaborazioni del Laocoonte attraversano i secoli: da Sansovino a Rubens, da Gian Lorenzo Bernini a Francesco Hayez, da Arturo Martini a Salvador Dalì.
Chi rimase deluso fu Francesco I di Francia, che insistette inutilmente per acquistare la scultura o averne almeno una copia. Ma la replica eseguita allo scopo dallo scultore fiorentino Baccio Bandinelli non valicò mai le Alpi (oggi si trova agli Uffizi) e il re dovette accontentarsi di inviare a Roma Francesco Primaticcio per ricavare un calco e avere finalmente un Laocoonte di bronzo alla Reggia di Fontainbleau.
Baccio Bandinelli, Laocoonte, 1520, Firenze, Gallerie degli Uffizi | Foto: Sailko (Own work) via Wikimedia Creative Commons
“Nel palazzo dell’imperatore Tito”, scriveva Plinio il Vecchio 17 secoli prima, il Laocoonte era opera “da anteporre a tutte le cose dell’arte sia per la pittura sia per la scultura. Da un solo blocco i sommi artisti Agesandro, Polidoro e Atanadoro di Rodi fecero lui e i figli e i mirabili intrecci dei serpenti”.
Figurarsi la gioia di papa Giulio II quando, il 14 gennaio del 1506, il colosso di marmo emerse da una vigna sul Colle Oppio sotto gli occhi stupefatti di Michelangelo e Giuliano da Sangallo. Proprio lì, nei pressi della Domus Aurea di Nerone, doveva trovarsi un tempo la residenza di Tito. Il pontefice non perse neanche un attimo: il Laocoonte sarebbe stato suo.
Agesandro, Polidoro e Atanodoro di Rodi, Laocoonte, 40-20 a.C., Musei Vaticani | Foto: harnvi via Pixabay
Qual è la storia narrata dal capolavoro dei Musei Vaticani?
Nell’Eneide di Virgilio, Laocoonte è il sacerdote troiano che si oppone all’ingresso tra le mura di Troia del cavallo di legno nel cui ventre si nascondono i guerrieri greci. “Temo i Danai anche quando portano doni”, esclama disperato l’uomo facendo appello al buonsenso dei suoi concittadini. Ma Atena e Poseidone, sostenitori di Ulisse e dei suoi compagni, inviano dal mare due mostruosi serpenti che stritolano Laocoonte e i due figli. I Troiani interpretano l’episodio come un segno divino e accolgono il cavallo che li porterà alla rovina.
Nel marmo il pathos del mito si esprime attraverso virtuosismi ad alta intensità emotiva e uno sviluppo a tutto tondo che permette di ammirarne il gruppo da ogni angolazione. Con il suo fisico scolpito, Laocoonte sembra un campione di lotta: mentre chiama a raccolta le forze per liberarsi dalla stretta, il busto si contorce, i muscoli si tendono e si slanciano nello spazio in posa dinamica. Fragili e impotenti, i ragazzi implorano l’aiuto paterno. Pena e terrore prendono corpo sul volto del forzuto sacerdote, che rappresenta il punto culminante della composizione.
Le origini del Laocoonte
Sono poche le notizie disponibili sul passato del gruppo scultoreo. Di certo c’è che da Rodi i suoi autori giunsero a Roma, come testimonia il ritrovamento di sculture dedicate alle storie di Ulisse nella vicina Sperlonga. Lo stile dell’opera ci riporta all’arte ellenistica, ma non sappiamo con esattezza a quando risalga: ultimamente sembra prevalere l’ipotesi che colloca il Laocoonte intorno al 40-30 a.C.
Alcuni dettagli tecnici fanno pensare che la statua sia in realtà una copia da un originale di bronzo, come ha sostenuto l’archeologo austriaco Bernard Andreae. Ma resta senza risposta una questione sollevata dal racconto di Plinio: secondo lo scrittore romano il Laocoonte fu scolpito da un solo blocco di pietra, mentre il gioiello del Colle Oppio risulta composto di più parti. Come mai?
Il Laocoonte e la nascita dei Musei Vaticani
Dal punto di vista romano, la morte del sacerdote troiano e dei suoi figli fu una necessaria premessa alla fuga di Enea dalla città in fiamme e dunque alla fondazione di Roma. Grande appassionato di arte classica, Giulio II non poteva lasciarsi sfuggire un tesoro così. Acquistò il gruppo appena ritrovato e ne fece il fulcro del nuovo Cortile delle Statue, progettato da Donato Bramante nel complesso del Belvedere per accogliere la collezione pontificia di scultura antica: un allestimento che è considerato l’atto fondativo dei Musei Vaticani, dove il Laocoonte rappresentò a lungo il pezzo più ammirato insieme all’Apollo del Belvedere.
Le tentazioni di Napoleone
Un solo uomo osò spostare il Laocoonte dai palazzi pontifici, e non poteva essere che Napoleone. Dopo le pesanti sconfitte inflitte al papa dai francesi e al Trattato di Tolentino, nella primavera del 1798 dodici carri carichi di opere d’arte partirono da Roma alla volta di Parigi. Insieme al Laocoonte c’erano capolavori come l’Apollo del Belvedere, la Venere de’ Medici e la Trasfigurazione di Raffaello. Sul Passo del Moncenisio il Laocoonte rovinò al suolo riportando gravi danni, ma per 17 anni occupò comunque un posto d’onore all’interno del Louvre, dove divenne fonte di ispirazione per gli artisti francesi. Fu lo scultore e diplomatico Antonio Canova a mediare perché il Laocoonte tornasse a casa insieme agli altri tesori sottratti e a occuparsi del suo restauro dopo il rimpatrio nel 1815.
Particolare del braccio di Laocoonte | Foto: Gentil Hibou (Own work) via Wikimedia Creative Commons
Il braccio del Laocoonte
Quello di Canova non fu né il primo né l’ultimo restauro del Laocoonte. La scultura che venne fuori dalla vigna di Felice de Fredis si presentava in buone condizioni ma senza un braccio, così come la statua del figlio minore. Il dibattito divampò tra gli esperti. Come ripristinare le parti perdute? E qual era la posizione originaria del braccio del sacerdote? Un braccio di terracotta teso all’infuori, in posa dinamica e carica di eroismo, fu attaccato alla spalla del Laocoonte. Più tardi gli studi di Winckelmann portarono a concludere che anticamente l’arto si volgeva all’indietro, ripiegato dietro la spalla come aveva già ipotizzato Michelangelo, ma si preferì lasciarlo così com’era.
Il colpo di scena arrivò nel 1906, quando l’archeologo praghese Ludwig Pollack ritrovò per caso il braccio originario nella bottega di uno scalpellino romano: donato al Vaticano, fu ricollocato al suo posto nel 1959, in un intervento che rimosse ogni integrazione posticcia secondo i principi del restauro moderno.
Dal Rinascimento alle avanguardie, un tesoro di ispirazione
Nel Cinquecento la scoperta del Laocoonte ebbe un’enorme risonanza: per causa sua il Cortile del Belvedere divenne meta di viaggiatori, artisti e curiosi che chiedevano di visitarlo anche nelle ore notturne. Nel frattempo disegni e incisioni portavano l’immagine della scultura in giro per l’Europa. L’arte del Rinascimento e del Barocco ne fu profondamente influenzata. Michelangelo ne trasse ispirazione per lo Schiavo ribelle e lo Schiavo morente e pare che Raffaello ne abbia tratto insegnamenti per la torsione del corpo di Cristo nella Pala Baglioni. Il dinamismo e la plasticità tormentata del gruppo lasciarono tracce in opere di Tiziano, El Greco e Andrea del Sarto.
Le repliche e le rielaborazioni del Laocoonte attraversano i secoli: da Sansovino a Rubens, da Gian Lorenzo Bernini a Francesco Hayez, da Arturo Martini a Salvador Dalì.
Chi rimase deluso fu Francesco I di Francia, che insistette inutilmente per acquistare la scultura o averne almeno una copia. Ma la replica eseguita allo scopo dallo scultore fiorentino Baccio Bandinelli non valicò mai le Alpi (oggi si trova agli Uffizi) e il re dovette accontentarsi di inviare a Roma Francesco Primaticcio per ricavare un calco e avere finalmente un Laocoonte di bronzo alla Reggia di Fontainbleau.
Baccio Bandinelli, Laocoonte, 1520, Firenze, Gallerie degli Uffizi | Foto: Sailko (Own work) via Wikimedia Creative Commons
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