Fino al 5 giugno al Palazzo della Cultura Pasquino Crupi

Make art not war. Il messaggio di pace di Obey in mostra a Reggio Calabria

Shepard Fairey OBEY, The Future is equalObey, Make Art Not War | Foto: Samantha De Martin per ARTE.it
 

Samantha De Martin

20/04/2022

Reggio Calabria - C’è il volto della Marianne, simbolo della République, incorniciata dal motto nazionale “Liberté, Egalité, Fraternité” tra colori della bandiera francese. E c’è lo stesso viso, segnato da una lacrima, “rivisitato” con le tinte della bandiera ucraina, al grido, che risuona come una preghiera, “Make art not war”.
Da Reggio Calabria l’artista americano Shepard Fairey, in arte Obey, lancia il suo messaggio di pace attraverso il suo universo dallo stile inimitabile, protagonista della mostra Make art not war accolta fino al prossimo 5 giugno negli spazi del Palazzo della Cultura Pasquino Crupi (prossimamente al centro di un complesso intervento di restyling).

L’edificio che ha accolto negli anni Venti un brefotrofio, bombardato nel 1943 per essere riconvertito, negli anni Ottanta, a sede della facoltà di Ingegneria, è divenuto da alcuni anni un’icona di legalità, ospitando le opere d’arte firmate da maestri come Lucio Fontana, Massimo Campigli, De Chirico, Ligabue, confiscate a un imprenditore reggino e restituite allo Stato.
In attesa di accogliere due mostre di punta del cinquantesimo anniversario del ritrovamento dei Bronzi di Riace, che ricorre quest’anno, Palazzo Crupi sarà la cornice di un viaggio visivo scandito da quattro punti tematici - Donna, Ambiente, Pace, Cultura - stimolando riflessioni su temi umanitari, passaggi esistenziali, utopie sociali, valori di giustizia al di sopra delle leggi.


Shepard Fairey OBEY, Voting rights are human rights offset, Obey, Make Art Not War, Palazzo della Cultura, Reggio Calabria | Foto: Samantha De Martin per ARTE.it

Prodotto e organizzato da MetaMorfosi Eventi in collaborazione con la Città Metropolitana di Reggio Calabria, il percorso, a cura di Gianluca Marziani e Stefano Antonelli, snocciola opere ispirate alle grafiche sovietiche e futuriste di inizio Novecento, alle pitture parietali latinoamericane, ai muralismi italiani alla Mario Sironi.

“Alcuni dicono che che la stampa sarà spazzata via dai media digitali, ma io dico che non si può mai sostituire l’esperienza provocatoria e tattile di una stampa per strada o in una galleria. La stampa conta ancora”. È il pensiero di Obey cui sembra alludere l’opera Print & Destroy, in mostra da collezione privata, che raffigura una stampante mentre produce i suoi “manifesti” e l’iconico “André the Giant”. Il titolo è un richiamo alla frase “Skate and Destroy” coniata dall’artista americano C.R. Stecyk che ha documentato la cultura dello skateboard cara a Fairey e che, come lui stesso afferma, “condivide con l’arte di strada molta della stessa energia nobile”.


Obey, Make Art Not War, Allestimento della mostra a Palazzo della Cultura, Reggio Calabria | Foto: Samantha De Martin per ARTE.it

La rivoluzione al femminile secondo lo street artist di Charleston ha lo sguardo fiero dell’attivista per i diritti civili e delle donne Angela Yvonne Davis, protagonista di Spirit of Independence e figura cardine del movimento afroamericano degli anni Settanta, che, dalla sua “Dynamite Hill” - un angolo di Alabama così chiamato perché le case dei neri che vi si trasferivano venivano fatte saltare in aria con la dinamite - ammicca alla Muslim woman. Questa figura velata sorregge un Kalašnikov la cui canna nasconde una rosa, mentre la parola “Pace” campeggia a caratteri cubitali sotto la firma “Obey”.

L'artista militante delle immagini urlanti e le stampe "bollenti", conosciuto soprattutto per l’immagine stilizzata in quadricromia di Barack Obama, assunta nel 2008 a icona della campagna elettorale del futuro presidente degli Stati Uniti, stravolge le pitture di propaganda muralista tuttora diffuse in Messico, Colombia, Perù, riprende la grafica di origine, impianta il modello muralista nel Costruttivismo sovietico di inizio Novecento, la carica della matrice grafica del Futurismo di Marinetti, del rigore lineare del Bauhaus, del minimalismo alla Dieter Rams fino a rendere le sue stampe magnetiche, e le sue figure organismi che respirano.


Shepard Fairey OBEY, Mujer fatale, Obey, Make Art Not War, Palazzo della Cultura, Reggio Calabria | Foto: Samantha De Martin per ARTE.it

“Obey produce immaginari simbolici ad alto valore emozionale - spiega Marziani -. La sua arte su carta attrae i nostri sensi in modo spontaneo, ampliando il linguaggio informativo dei muri metropolitani. Fairey ha capito che le pareti stradali rappresentano la prima pagina della comunicazione virale, una nuova home page da cui non puoi sottrarti e che ti avvolge nei rituali quotidiani”. Ed ecco Liberté, Egalité, Fraternité, una litografia del 2018 in prestito da collezione privata, con la quale Obey espresse la propria solidarietà ai cittadini di Parigi all’indomani degli attentati terroristici del novembre 2015. Ancora l’attualità si fa spazio in mostra con Diplomacy over violence, l’ultima creazione realizzata dall’artista a ridosso dello scoppio della guerra in Ucraina, un inno alla pace che simboleggia il proprio sostegno al popolo ucraino.
L'esposizione di Obey si inserisce nella prestigiosa staffetta che la città dello Stretto dedica ai grandi interpreti della Street Art internazionale. Dopo il successo della mostra di Banksy, il viaggio nell’arte di Obey, come ha sottolineato il Consigliere metropolitano con delega alla Cultura, Filippo Quartuccio, “vuole essere un’occasione in più, specie per i giovani, di avvicinarsi a questo artista e interrogarsi sui grandi mutamenti che attraversano il pianeta e sui fragili equilibri che minacciano le nostre esistenze”.
La mostra è visitabile tutti i giorni dalle 10 alle 20, ad eccezione del lunedì. Ultimo ingresso mezz’ora prima della chiusura. Per info e prenotazioni palazzo.cultura@cittametropolitana.rc.it.


Obey, Make Art Not War, Allestimento della mostra a Palazzo della Cultura, Reggio Calabria 

 Leggi anche:
• Dalla cucina dell'imprenditore al Palazzo della Cultura: quelle tele di Fontana, de Chirico, Dalì restituite allo Stato
• La rivoluzione di Obey nei nuovi spazi della Wunderkammern