I Is an Other / Be the Other
Dal 20 Marzo 2018 al 24 Giugno 2018
Roma
Luogo: Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Indirizzo: Viale delle Belle Arti 131
Orari: Mar - Dom 8.30 - 19.30 | Ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura
Curatori: Simon Njami
Costo del biglietto: Intero 10 € | Ridotto 5 €
Telefono per informazioni: +39 06 3229 8221
Sito ufficiale: http://lagallerianazionale.com
La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma presenta la mostra I is an Other / Be the Other, a cura Simon Njami, dedicata all’opera di 17 artisti contemporanei di origine africana.
Gli artisti in mostra, provenienti dal continente africano ma di formazione e ispirazione internazionale, condividono un orizzonte di ricerca comune sul rapporto con l’ignoto, che si individua a partire dall’incontro con l’altro.
Attraverso 34 opere, che includono pittura, scultura, installazioni, video, fotografia e performance, la mostra parla del rapporto con l’altro, punto di partenza per la nostra conoscenza del mondo. Ogni artista esprime la propria ricerca dell’alterità, affidandosi ora alla mitologia, ora all’elemento visionario, al gioco, all’ironia, restituendo una grande varietà di interpretazioni.
Il passato e il futuro si intrecciano e restituiscono una diversa visione della storia, caleidoscopica e aperta a stratificazioni temporali insolite, in cui si muovono le ricerche di questi artisti. La coralità delle loro opere dà forma ad un ricco insieme di prospettive con cui osservare la realtà. Accanto a maschere è quindi possibile trovare sculture di Nick Cave, evocative di ritualità immaginarie. Proprio la maschera è, per Simon Njami, il punto di partenza per indagare la relazione con l’altro, che mentre nasconde allude a qualcosa di diverso, fuori dal conosciuto.
Muovendosi invece nell’indagine del rapporto con lo spazio, Maurice Pefura mette in scena una Divina Commedia, sorta di labirinto dove le pagine che compongono le pareti recano iscrizioni visibili solo da certi angoli, accompagnandoci in un rito di iniziazione.
Il trittico di Bili Bidjocka ci trasporta nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, senza che ci sia davvero un ordine preciso per compiere questo viaggio, nel corso del quale ognuno è libero di scegliere la propria idea di temporalità.
Mehdi-Georges Lahlou propone riletture ironiche, mentre Theo Eshetu inventa figure mutanti con molteplici volti che si intrecciano a formare una figura unica, un volto universale che non corrisponde a nulla che possiamo conoscere.
Anche Jane Alexander crea un mondo in mutamento, un mondo post-apocalittico, che riecheggia nel lavoro di Phyllis Galembo.
Wifredo Lam rivisita il pantheon vudù cubano, che trae le proprie origini nel Golfo del Benin, come una bussola che non indica alcuna direzione, mentre all’arte tessile si dedica Igshaan Adams, mediante le linee geometriche di un labirinto che non porta da nessuna parte. È questa stessa sensazione di labirinto, non fisico ma mentale, che emerge dalle composizioni di Paulo Kapela, per raccontarci una storia che non è mai avvenuta, come la Venere di Gille Gacha, rappresentante di un mito che contiene tutti i miti.
Le parole di Simon Njami delineano la cornice di questo ambizioso progetto e della mostra I is an Other / Be the Other: “Il primo motore della tua esistenza, quello che ti fa uscire dalla tua caverna per spingerti oltre, oltre ciò che hai già visto, oltre ciò che già sai, è il bisogno di un altro. In ogni caso, favorevole o contrario, solo un altro ti permette di costruirti. È d’obbligo dunque ringraziarlo. Senza un altro, rinchiuso in te stesso, non avresti alcuna presenza nel mondo (...). La mostra invita a vivere esattamente questa esperienza di gioco di ruolo, nel senso psicanalitico del termine, proponendoci per un attimo di uscire da noi stessi per provare, con il corpo e con l’anima, l’ebbrezza di essere l’altro.”
Dal 22 giugno 2018 lo stesso Simon Njami insieme a Elena Motisi cura al MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo un’altra mostra dedicata alla cultura africana: African Metropolis. Una città immaginaria.
La mostra, realizzata in occasione della Seconda Conferenza Italia Africa organizzata dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, attraverso il lavoro di oltre 40 artisti, cerca di restituire il panorama di una scena artistica poliedrica e intensamente espressiva, e un’immagine contemporanea di città, una possibile città delle città basata sulla convivenza tra differenze.
Io è un altro
La mostra Io è un altro alla Galleria Nazionale di Roma, curata da Simon Njami, espone in Italia alcuni degli artisti più rappresentativi della scena contemporanea africana in un momento particolarmente intenso
e favorevole delle relazioni tra il nostro Paese e le nazioni del continente africano.
La prima conferenza ministeriale Italia Africa del 2016 con i rappresentanti di oltre 45 paesi, la missione dello scorso autunno del Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni in Tunisia, Angola, Ghana e Costa d’Avorio conclusasi con la partecipazione al vertice UE-Unione Africana, il grande forum economico e culturale Italia- Africa che si terrà a fine giugno 2018 a Roma con la presenza di molti capi di stato sono tutte tappe di un percorso intrapreso con la ferma convinzione di favorire il dialogo, la collaborazione e la reciproca conoscenza, elementi indispensabili per lavorare a un futuro all’insegna di pace, sviluppo e benessere.
In questo processo l’arte contemporanea ha un ruolo incisivo e determinante, spesso anticipatorio.
Lo dimostra il Padiglione Africano alla Biennale di Venezia del 2007, co-curato da Njami prima di prendere
le redini della dodicesima Biennale di Dakar, dove è stato gettato un nuovo seme fecondo.
A quel primo importante passo, ne sono seguiti molti altri che portano fino a questa mostra alla Galleria Nazionale. La capacità visionaria degli artisti esposti, le potenti energie che scaturiscono dalle loro opere
e i simboli universali che le connaturano sono capaci di costruire quei ponti all’apparenza impossibili,
che permettono di incontrarci l’un l’altro e di riconoscerci per quello che siamo: persone prima di tutto.
Lo sguardo si posa su altri territori, la conoscenza della nuova arte americana diventa motivo per sottolineare una diversità, una diversità non conflittuale che segna il passo di quegli anni in un dinamico incontro di mostre e percorsi dove identificare una euritmica compresenza su un terreno unico di partecipazione. Un terreno
che rifugge dal potere dell’artificio, espressione che si accorda allo scorrere del tempo, alla materialità dell’agire, al magico richiamo degli elementi, alla semplice percezione di fenomeni fisici, alla registrazione di processi basilari della mente, al voler imprimere la propria orma come indizio di un flusso continuo di energia tra sé e la sostanza dell’universo. Nello spazio del loro semplice accadere. Da scavalcare sono i limiti della pittura, di una tradizione che non si smorza in un solo gesto. La pittura non è più l’atto visibile dell’immagine;
la pittura non è più il solo atto visibile dell’immagine. Dell’immagine permane il senso morale, la misura, una misura fisica e metaforica. E ancora, il fantasma dell’affresco, la potenza dei ritmi, la tensione della scultura.
Il passato come impronta di una cultura ancora viva, fondata su radici millenarie; diventa allora necessario trovare la regola per incanalare la tradizione verso nuovi sistemi. Prima di tutto lo spazio.
Lo spazio della pittura, lo spazio dell’immagine nel sopravvenire dell’evento, scandito da una temporalità
che si identifica nella dimensione stessa dell’opera. È questa la nuova geografia della giovane arte italiana.
Lo spazio pensato come unità dell’opera e non come verità o sublimazione di coordinate fisse. Neppure come territorio da conquistare o da segnare. Fondamentale differenza con le ricerche americane della minimal
o del concettuale e delle strutture primarie pur nell’apparente coincidenza di forme e volumi, nell’assenza tuttavia di quegli archetipi su cui molta arte povera costruisce le figure di una propria architettura della
visione. «Una forma, un volume, un colore, una superficie è di per sé un’entità. Non dovrebbe essere dissimulata come parte di un tutto differente», afferma infatti nel 1966 uno dei protagonisti americani della mostra Primary Structures. Mentre dalle sponde mediterranee dell’arte povera si contrappone una visione
più magica e cosmica: «Anche se si è elementari bisogna esercitare un sortilegio su se stessi, altrimenti non
si è artisti. [...] Devi partire da una cosa che riguarda la capacità di formare. La capacità di formare è prima della forma. La forma viene dopo». Le dimensioni si ampliano, evocano segni che crescono al ritmo di una proliferazione biologica. Se la pittura è velocità, lo è in tutti i sensi e in tutte le direzioni, dal passato al presente al futuro e viceversa; il punto di partenza è nella mente dell’artista. Esternare, segnalare un’inversione da opporre all’artificio, assimilare l’idea di contraddizione, quindi, attraverso una crescita organica in continua progressione.
Dario Franceschini
Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo
Io è un altro - il titolo che senza esitazioni Simon Njami ha scelto per questa mostra - cita Rimbaud pensando a Lacan, tiene insieme mitologie e archetipi, intreccia biografia, visione, passioni e ossessioni, tra tutte Dante e la Divina Commedia: Inferno, Purgatorio e Paradiso a segnare il passo, ancora una volta con inattesa e sorprendente attualità.
La mostra si muove “Out of Joint”, non tiene conto di cronologie ma di ordinamenti sapienti, ancestrali
e primordiali. Dilata e concentra lo sguardo sul mondo e solo così riesce a essere veggente prima ancora che visionaria. Rifiuta l’idea che esista un’unica storia, un’unica versione della stessa storia in un unico luogo,
e questa mostra, infatti, racconta qualcos’altro rispetto alla cronaca e alla storia a cui siamo abituati: non guarda indietro, non va a integrare le cancellature ma costruisce una nuova potente rappresentazione, uno strumento essenziale per demolire i luoghi comuni e creare nuove forme di identificazione che tengono conto del futuro, che non hanno paura, che non scendono a compromessi e non chiedono il permesso.
Sono, stanno, esistono, ricostruendo per tutti una nuova metafora della diaspora contemporanea, il movimento nomade di chi cerca, trova, porta, prende, lascia, ricorda, sogna, vive, ama, muore e prima e dopo comunque genera. Genera la propria storia, non se la fa raccontare da qualcun altro, che non sia l’io che è anche un altro.
Cristiana Collu
Direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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