A qualche mese dal debutto all'Opera di Parigi con l'Aida di Giuseppe Verdi
Shirin Neshat: io artista nomade, non di propaganda

Shirin Neshat - courtesy © the artist
Piero Muscarà
17/07/2025
Mondo - Scorrendo il cartellone dell’Opéra di Parigi, una sorpresa: Aida sarà diretta da Shirin Neshat. Sì, proprio lei - l’artista iraniana celebre per le sue fotografie calligrafate, le video-installazioni ipnotiche e i film che intrecciano poesia, memoria e resistenza. Dal 24 settembre al 4 novembre 2025, Neshat porterà la sua visione sull’immortale opera verdiana all’Opéra Bastille, in una produzione che promette di essere tutto fuorché convenzionale.
Aida nacque su commissione del viceré d’Egitto Ismail Pascià, che nel 1870 affidò a Giuseppe Verdi l’incarico di comporre un’opera celebrativa per il nuovo Teatro dell’Opera del Cairo. In piena epoca coloniale, l’intento era chiaro: esaltare l’Egitto moderno come potenza culturale e politica sotto l’egida europea. La prima, prevista per il 1871, fu rimandata a causa della guerra franco-prussiana, ma Aida debuttò comunque al Cairo il 24 dicembre di quell’anno. Dietro l’apparato esotico e spettacolare - marce trionfali, templi, costumi “egizi” - molti storici hanno letto un’opera di propaganda raffinata, costruita per consolidare il prestigio di un impero in costruzione.
Il libretto di Antonio Ghislanzoni, basato su un soggetto originale dell'archeologo francese Auguste Mariette, primo direttore del Museo Egizio del Cairo narra una storia che si svolge nell’antico Egitto e che ruota attorno a un triangolo amoroso segnato dal potere e dalla guerra: Radamès, valoroso comandante egiziano, è diviso tra il dovere verso la patria e l’amore per Aida, una schiava etiope che in realtà è figlia del re nemico. Il loro amore proibito è ostacolato da Amneris, figlia del faraone, anch’ella innamorata di Radamès. Sullo sfondo, l’ossessione per il potere, il fanatismo religioso e il peso delle scelte personali. La storia si chiude in tragedia, con Aida e Radamès sepolti vivi, uniti solo nella morte, mentre Amneris prega invano per la pace.

Shirin Neshat Looking For Oum Kulthum | © 2017 Razor Films
Affidare alla regia di un'artista come Sherin Neshat un’opera di questo calibro non è cosa da poco. Chi la conosce sa bene che il suo sguardo non lascia indifferenti. Dagli esordi con la serie Women of Allah negli anni ’90 - immagini potenti di donne velate con versi persiani e pistole in pugno - fino ai film Women Without Men (Leone d’Argento a Venezia), Looking for Oum Kulthum, e Land of Dreams, Neshat ha costruito un linguaggio che unisce cinema, arte visiva e riflessione politica. Sempre in bilico tra Oriente e Occidente, spiritualità e dissenso, silenzio e grido.
Nel 2025 il PAC di Milano ha dedicato a Shirin Neshat la retrospettiva più ampia mai realizzata in Italia: Body of Evidence, una mostra intensa e coraggiosa, che ha ripercorso trent’anni di battaglie estetiche e politiche. A portarla in Italia, fin dagli esordi, è stata una gallerista che non ama le strade facili: Lia Rumma, nome storico dell’arte contemporanea, anche lei donna fuori dagli schemi, capace di sostenere ricerche complesse, radicali e scomode con una coerenza rara nel sistema dell’arte.
Ed è proprio da questi temi che parte anche la lettura di Aida firmata Neshat: dopo le regie al Festival di Salisburgo nel 2017 e 2022, quella parigina si annuncia come la versione più compiuta. Dimenticate i geroglifici e i faraoni di cartapesta: per Neshat, Aida è una tragedia di potere e identità, un conflitto tra amore e oppressione, dove la religione è più inquietante della guerra e i veri protagonisti sono spesso quelli che la storia relega sullo sfondo.
Un’opera “totale” affidata ad un’artista che da sempre abita i confini, e che sa trasformare ogni scena in un incubo sospeso tra realtà e sogno. Prepariamoci: l’Egitto secondo Neshat sarà forse meno storico, ma molto più vicino al nostro presente.

Vorrei cominciare parlando di Aida. In alcune interviste hai detto che è un’opera incredibilmente attuale: parla di guerra, religione, intolleranza. E al tempo stesso fu concepita come un’opera celebrativa, quasi di propaganda, molto politica per il contesto storico in cui fu prodotta. Come hai affrontato questa doppia natura - coloniale e celebrativa - e cosa ti ha spinto a lavorare su un progetto così complesso?
“È stato un vero percorso, una trasformazione. La mia prima regia di Aida risale al 2017, poi c’è stata una seconda versione nel 2022, e ora, finalmente, quella definitiva a Parigi nel 2025. Aida resta una delle storie più potenti e senza tempo dell’opera proprio per la complessità della sua struttura narrativa. Da un lato è una celebrazione della guerra, una glorificazione del potere - lo scontro tra l’Egitto e l’Etiopia rappresenta l’Oriente in modo volutamente esotico, quasi barbarico - ma allo stesso tempo è una riflessione sul dominio, sulla tirannia, sull’uso della violenza come strumento positivo. Quello che mi ha colpito e che si lega profondamente al mio lavoro è come Aida rappresenti i diversi poteri in gioco: da una parte il fanatismo religioso, con sacerdoti che sono i personaggi più violenti e crudeli, dall’altra il potere monarchico, con il Re, l’autorità, e infine il triangolo amoroso. In fondo, oggi la più grande minaccia per l’umanità è proprio il fanatismo religioso - che si tratti di Islam, Cristianesimo o Ebraismo - una religione estremizzata che genera odio, violenza, guerre. E poi c’è il potere politico, i governi, gli uomini al comando. Ma ci sono anche le persone comuni, la dimensione umana, rappresentata dai protagonisti di questa storia. Per me, questi tre elementi sono ancora oggi estremamente attuali”.
Hai detto che il fanatismo religioso è la minaccia più grande per l’umanità. Eppure, se guardiamo all’Occidente del Ventesimo secolo, sembrava che la religione stesse scomparendo dalla scena pubblica. Negli anni ‘70 del Novecento si diceva che “Dio è morto”, che vivevamo in una società consumistica. E invece oggi assistiamo a un ritorno della religione, che è sempre più centrale. Ti sei data una spiegazione?
“Sì, ci ho riflettuto molto. Penso al mio progetto Women of Allah, che nasce proprio come uno studio sul ritorno della religione e sul fanatismo in Iran. Negli anni dello Shah, l’Iran era un Paese cosmopolita, proiettato verso l’Occidente. Ma questa modernizzazione aveva creato un divario enorme tra un’élite ricca e privilegiata e una parte della popolazione povera, marginalizzata, ignorata. Per queste persone, la religione è diventata un’ancora di salvezza, un modo per ritrovare dignità, fede, identità. Una risposta all’ingiustizia e alla discriminazione. In Women of Allah ho cercato di entrare nella mente di una martire, di una kamikaze, per capire cosa renda così attraente un certo tipo di religione. Non sto parlando di fede in senso laico o spirituale - io stessa sono una persona di fede, in modo laico - ma del fanatismo. E credo che, in molti casi, si tratti di persone povere, discriminate, senza accesso all’educazione, che si rifugiano in un’ideologia che dia loro una speranza. È anche una forma di rifiuto del capitalismo, della modernità, del modello occidentale”.
Dal punto di vista filosofico, una delle grandi promesse della religione è l’idea di destino. Può essere terribile, ma anche un appiglio. Ti libera dalla paura della morte, ti dà una direzione.
“Esatto. E proprio per questo molte persone si aggrappano alla religione. Il destino dà senso all’esistenza, anche nelle condizioni più disperate”.

Shirin Neshat, Stories of Martyrdom (Women of Allah series), 1994. New York, Glandstone Gallery
In un’intervista che mi hai rilasciato qualche tempo fa, dicevi di non amare l’arte di propaganda, perché implica manipolazione. Eppure la tua arte è molto politica. Come affronti questa tensione?
“È vero, ho opinioni politiche molto chiare, ma non voglio mai che un’opera dica al pubblico cosa pensare. Questo per me è propaganda. Scelgo temi forti, ma li affronto con un linguaggio poetico, simbolico, evocativo. Non spiego, non semplifico. Chiedo al pubblico uno sforzo di partecipazione attiva. È una forma di poesia visiva, più che di narrazione. Uso metafore, allegorie, surrealismo. L’opera resta politica, ma mai didascalica”.
Proprio su questo: la tua capacità di muoverti tra linguaggi diversi - fotografia, cinema, video, musica, opera - sembra perfetta per il concetto di “arte totale”. Come vivi questa multidisciplinarietà?
“Quando fui invitata a dirigere l’Aida per il Festival di Salisburgo nel 2017, dissi subito che non conoscevo bene l’opera lirica. Ma mi fecero notare che i miei video sono già costruiti come una coreografia tra immagini e musica. Uso pochi dialoghi, ma molto movimento, scenografia, estetica. Il mio approccio è sempre stato più emotivo che razionale. In Aida, ogni scena è come un tableau vivente. La musica di Verdi è meravigliosa. Ho cercato di mettere in scena i conflitti religiosi, politici e affettivi in modo visivamente potente, senza confondere lo spettatore, ma anche senza semplificare”.
In molti tuoi film, come Women Without Men o Land of Dreams, sogno e memoria hanno un ruolo centrale. Hai portato anche in Aida questa dimensione onirica?
“Sì, assolutamente. Nella prima versione ero troppo realista, e mi sono accorta che non è il mio linguaggio. Mi interessa un realismo che si avvicina al sogno, ma che non lo diviene mai del tutto. Lavoro molto sul parallelismo tra realtà e incubo, tra storia e illusione. Alcune scene di Aida sono troppo lunghe e noiose se restano ancorate alla messa in scena tradizionale. Con la mia dramaturga (Yvonne Gebauer - ndr) abbiamo cercato di trasformarle in momenti di sospensione, anche attraverso il sogno e l’allucinazione”.
Hai diretto Aida per la prima volta nel 2017 a Salisburgo, poi nel 2022, e ora nel 2025 arrivi a Parigi. Ti definisci un’artista in esilio, eppure lavori nel cuore del mondo culturale occidentale. Come vivi questa apparente contraddizione?
“All’inizio della mia carriera ero totalmente assorbita dall’Iran e dalla Rivoluzione iraniana. Ero vista come un’artista iraniana musulmana che parlava del proprio Paese. Ma a un certo punto, con progetti come Land of Dreams, ho capito che non dovevo più sentirmi obbligata a parlare solo dell’Iran. Finché sono iraniana, qualunque cosa faccia porterà con sé quell’identità. Ma ora mi sento un’artista globale. Pur vivendo da anni a New York, sento di appartenere a due mondi in conflitto. La mia identità si muove costantemente tra l’Occidente e il Medio Oriente. Mi considero un’artista nomade, senza una vera appartenenza geografica”.

Shirin Neshat, Anna, from "The Home of My Eyes" series, 2015. Silver Gelatin Print and Ink, 152.4 × 101.6 cm / 40 × 60 in | Courtesy Written Art Foundation, Frankfurt am Main, Germany
Nella nostra precedente intervista ti chiesi in che lingua sogni. Oggi ti chiedo: quando scrivi, quale lingua usi?
“Non scrivo molto, preferisco lavorare con storyboard. Vivo circondata da persone iraniane, ma ormai penso sia in inglese che in farsi. Emotivamente sono ancora completamente iraniana: basta una canzone persiana e mi commuovo. Ma razionalmente sono molto occidentale: indipendente, pragmatica, determinata. Sono una donna indipendente, colta, abituata a viaggiare e a lavorare con rigore. Il mio mondo esterno è occidentale, ma quello interiore resta profondamente iraniano”.
Se Aida fosse uno specchio del presente, cosa rifletterebbe?
“Aida è una figura tragica che soffre dall’inizio alla fine. Per questo ho cercato di darle più forza, più profondità. In realtà, trovo Amneris ancora più interessante: è gelosa, innamorata, vulnerabile, vendicativa. È complessa, contraddittoria, umana. Aida è troppo ‘buona’, manca del lato oscuro che rende un personaggio credibile. E come pubblico siamo affascinati dalla complessità del male, perché tutti, in fondo, abbiamo un demone dentro di noi. La differenza sta nel saperlo controllare".
Giorni fa leggevo di Alejandro González Iñárritu: sta preparando una mostra Sueño Pérro alla Fondazione Prada a Milano. Tu sei un’artista visiva che è entrata nel cinema, lui un regista che vuole entrare nel mondo dell’arte. Che ne pensi di questi percorsi incrociati?
“Sarò onesta: pochi registi fanno davvero il salto nell’arte visiva in modo convincente. Tim Burton, Wes Anderson, Kiarostami, Wenders... spesso si limitano a presentare fotografie o set tratti dai loro film. Quando noi artisti visivi facciamo cinema, abbracciamo la grammatica del film. Ma non è detto che un’inquadratura cinematografica sia automaticamente un’opera d’arte. Fondazione Prada cerca grandi nomi, certo, ma non sempre il risultato ha un reale valore artistico autonomo. Detto questo, Iñárritu è un regista visivamente potente, per esempio conosco bene Darius Khondji che ha dato una splendida fotografia al suo film Bardo. Mi domando perché una mostra ispirata al suo primo film Amores Perros. Ma gli diamo il privilegio del dubbio. Sono curiosa di vedere cosa presenterà”.
E tu, ti consideri una regista, una fotografa, una videoartista?
“Il mio per il cinema è soprattutto un love affair. Fare cinema è difficile, e i miei film sono sempre qualcosa di unico, nel senso che sono originali, non somigliano a nulla di già visto. Ma non sono capolavori: sono esperimenti, e come tutti gli esperimenti hanno delle imperfezioni. I problemi ci sono, a volte nella sceneggiatura, ma restano opere nuove. Credo di essere probabilmente una videoartista migliore di quanto non sia come fotografa o regista, perché il video mi viene naturale: è breve, diretto, più facile da controllare. Mentre nel cinema e nell’opera hai bisogno di collaborare con tantissime persone, ed è tutto molto più complesso”.
Qualche giorno fa ero a Spoleto con William Kentridge. Stava presentando alcune mostre e un talk sul suo “Centre for the Less Good Idea”. Trovo interessante il suo approccio: promuovere idee meno brillanti, meno funzionali, per sfuggire alla logica dell’efficienza e della perfezione che spesso domina l’arte contemporanea. Dice che puntare sempre alla “migliore idea” può portarci a una visione unica, quasi totalitaria. Lui, invece, cerca spazio per la serendipità, l’imprevisto. Che ne pensi?
“Capisco quello che vuole dire, ma io la vedo diversamente. Non c’è nulla di peggio della mediocrità. Il problema oggi è che già esistono pochissime opere davvero potenti e necessarie. Perché dovremmo promuovere quelle meno riuscite? Certo, l’idea di Kentridge è provocatoria, e forse serve proprio a liberare l’artista da certe pressioni. Ma bisogna anche dire che lui può permetterselo. È in una posizione unica: ha successo, è acclamato dalla critica, vende bene, lavora con le migliori gallerie del mondo (in Italia è sempre Lia Rumma a rappresentare Kentridge - ndr) Anche se facesse un’opera meno riuscita, verrebbe comunque accolta e celebrata. Non è così per tutti. Io, ad esempio, ho ricevuto critiche dure sia in Occidente che nel mondo iraniano. Non ho mai goduto di un’accettazione totale. Credo anche che Kentridge, tra le tante cose che fa, produca molto, forse troppo. Non so come riesca a garantire sempre la qualità. Forse può farlo perché ha un team eccellente, una macchina perfetta attorno a sé. È un artista eccezionale, senza dubbio. Ma la sua condizione non è generalizzabile. Dipende tutto da chi sei, da dove ti trovi, e da quanto margine ti è concesso per sbagliare”.
Lo ami ancora o sei stanca del mondo dell’arte contemporanea ?
“Amo il mondo dell’arte, ma con molte riserve, perché è dominato dal mercato. Il valore di un artista dipende troppo da quanto vende. C’è un’ossessione per la quotazione, per l’apparire. Per questo sto lavorando di meno nel sistema dell’arte e mi dedico ad altri progetti, come Aida a Parigi e Orfeo a Parma nel 2026. Forse nel 2026 farò anche una mostra a Venezia per la Biennale…”
Mi incuriosisce molto il progetto su Orfeo. Puoi anticiparci qualcosa?
“Dopo Aida, che dura tre ore e mezza, mi è stato proposto da Alessio Vlad di portare in scena Orfeo ed Euridice di Gluck per il Teatro Regio di Parma. È un’opera molto più breve, un’ora e mezza, e non ha lo stesso tono epico. Orfeo è un’opera sull’amore, sul mondo dei vivi e dei morti, sulle illusioni e i sogni. C’è di nuovo questa doppia dimensione tra realismo e surrealismo, tra luce e buio, che per me è perfetta. Sarà in scena a gennaio 2026”.

Shirin Neshat, Land of Dreams, 2019 | © Shirin Neshat
Aida nacque su commissione del viceré d’Egitto Ismail Pascià, che nel 1870 affidò a Giuseppe Verdi l’incarico di comporre un’opera celebrativa per il nuovo Teatro dell’Opera del Cairo. In piena epoca coloniale, l’intento era chiaro: esaltare l’Egitto moderno come potenza culturale e politica sotto l’egida europea. La prima, prevista per il 1871, fu rimandata a causa della guerra franco-prussiana, ma Aida debuttò comunque al Cairo il 24 dicembre di quell’anno. Dietro l’apparato esotico e spettacolare - marce trionfali, templi, costumi “egizi” - molti storici hanno letto un’opera di propaganda raffinata, costruita per consolidare il prestigio di un impero in costruzione.
Il libretto di Antonio Ghislanzoni, basato su un soggetto originale dell'archeologo francese Auguste Mariette, primo direttore del Museo Egizio del Cairo narra una storia che si svolge nell’antico Egitto e che ruota attorno a un triangolo amoroso segnato dal potere e dalla guerra: Radamès, valoroso comandante egiziano, è diviso tra il dovere verso la patria e l’amore per Aida, una schiava etiope che in realtà è figlia del re nemico. Il loro amore proibito è ostacolato da Amneris, figlia del faraone, anch’ella innamorata di Radamès. Sullo sfondo, l’ossessione per il potere, il fanatismo religioso e il peso delle scelte personali. La storia si chiude in tragedia, con Aida e Radamès sepolti vivi, uniti solo nella morte, mentre Amneris prega invano per la pace.

Shirin Neshat Looking For Oum Kulthum | © 2017 Razor Films
Affidare alla regia di un'artista come Sherin Neshat un’opera di questo calibro non è cosa da poco. Chi la conosce sa bene che il suo sguardo non lascia indifferenti. Dagli esordi con la serie Women of Allah negli anni ’90 - immagini potenti di donne velate con versi persiani e pistole in pugno - fino ai film Women Without Men (Leone d’Argento a Venezia), Looking for Oum Kulthum, e Land of Dreams, Neshat ha costruito un linguaggio che unisce cinema, arte visiva e riflessione politica. Sempre in bilico tra Oriente e Occidente, spiritualità e dissenso, silenzio e grido.
Nel 2025 il PAC di Milano ha dedicato a Shirin Neshat la retrospettiva più ampia mai realizzata in Italia: Body of Evidence, una mostra intensa e coraggiosa, che ha ripercorso trent’anni di battaglie estetiche e politiche. A portarla in Italia, fin dagli esordi, è stata una gallerista che non ama le strade facili: Lia Rumma, nome storico dell’arte contemporanea, anche lei donna fuori dagli schemi, capace di sostenere ricerche complesse, radicali e scomode con una coerenza rara nel sistema dell’arte.
Ed è proprio da questi temi che parte anche la lettura di Aida firmata Neshat: dopo le regie al Festival di Salisburgo nel 2017 e 2022, quella parigina si annuncia come la versione più compiuta. Dimenticate i geroglifici e i faraoni di cartapesta: per Neshat, Aida è una tragedia di potere e identità, un conflitto tra amore e oppressione, dove la religione è più inquietante della guerra e i veri protagonisti sono spesso quelli che la storia relega sullo sfondo.
Un’opera “totale” affidata ad un’artista che da sempre abita i confini, e che sa trasformare ogni scena in un incubo sospeso tra realtà e sogno. Prepariamoci: l’Egitto secondo Neshat sarà forse meno storico, ma molto più vicino al nostro presente.

Vorrei cominciare parlando di Aida. In alcune interviste hai detto che è un’opera incredibilmente attuale: parla di guerra, religione, intolleranza. E al tempo stesso fu concepita come un’opera celebrativa, quasi di propaganda, molto politica per il contesto storico in cui fu prodotta. Come hai affrontato questa doppia natura - coloniale e celebrativa - e cosa ti ha spinto a lavorare su un progetto così complesso?
“È stato un vero percorso, una trasformazione. La mia prima regia di Aida risale al 2017, poi c’è stata una seconda versione nel 2022, e ora, finalmente, quella definitiva a Parigi nel 2025. Aida resta una delle storie più potenti e senza tempo dell’opera proprio per la complessità della sua struttura narrativa. Da un lato è una celebrazione della guerra, una glorificazione del potere - lo scontro tra l’Egitto e l’Etiopia rappresenta l’Oriente in modo volutamente esotico, quasi barbarico - ma allo stesso tempo è una riflessione sul dominio, sulla tirannia, sull’uso della violenza come strumento positivo. Quello che mi ha colpito e che si lega profondamente al mio lavoro è come Aida rappresenti i diversi poteri in gioco: da una parte il fanatismo religioso, con sacerdoti che sono i personaggi più violenti e crudeli, dall’altra il potere monarchico, con il Re, l’autorità, e infine il triangolo amoroso. In fondo, oggi la più grande minaccia per l’umanità è proprio il fanatismo religioso - che si tratti di Islam, Cristianesimo o Ebraismo - una religione estremizzata che genera odio, violenza, guerre. E poi c’è il potere politico, i governi, gli uomini al comando. Ma ci sono anche le persone comuni, la dimensione umana, rappresentata dai protagonisti di questa storia. Per me, questi tre elementi sono ancora oggi estremamente attuali”.
Hai detto che il fanatismo religioso è la minaccia più grande per l’umanità. Eppure, se guardiamo all’Occidente del Ventesimo secolo, sembrava che la religione stesse scomparendo dalla scena pubblica. Negli anni ‘70 del Novecento si diceva che “Dio è morto”, che vivevamo in una società consumistica. E invece oggi assistiamo a un ritorno della religione, che è sempre più centrale. Ti sei data una spiegazione?
“Sì, ci ho riflettuto molto. Penso al mio progetto Women of Allah, che nasce proprio come uno studio sul ritorno della religione e sul fanatismo in Iran. Negli anni dello Shah, l’Iran era un Paese cosmopolita, proiettato verso l’Occidente. Ma questa modernizzazione aveva creato un divario enorme tra un’élite ricca e privilegiata e una parte della popolazione povera, marginalizzata, ignorata. Per queste persone, la religione è diventata un’ancora di salvezza, un modo per ritrovare dignità, fede, identità. Una risposta all’ingiustizia e alla discriminazione. In Women of Allah ho cercato di entrare nella mente di una martire, di una kamikaze, per capire cosa renda così attraente un certo tipo di religione. Non sto parlando di fede in senso laico o spirituale - io stessa sono una persona di fede, in modo laico - ma del fanatismo. E credo che, in molti casi, si tratti di persone povere, discriminate, senza accesso all’educazione, che si rifugiano in un’ideologia che dia loro una speranza. È anche una forma di rifiuto del capitalismo, della modernità, del modello occidentale”.
Dal punto di vista filosofico, una delle grandi promesse della religione è l’idea di destino. Può essere terribile, ma anche un appiglio. Ti libera dalla paura della morte, ti dà una direzione.
“Esatto. E proprio per questo molte persone si aggrappano alla religione. Il destino dà senso all’esistenza, anche nelle condizioni più disperate”.

Shirin Neshat, Stories of Martyrdom (Women of Allah series), 1994. New York, Glandstone Gallery
In un’intervista che mi hai rilasciato qualche tempo fa, dicevi di non amare l’arte di propaganda, perché implica manipolazione. Eppure la tua arte è molto politica. Come affronti questa tensione?
“È vero, ho opinioni politiche molto chiare, ma non voglio mai che un’opera dica al pubblico cosa pensare. Questo per me è propaganda. Scelgo temi forti, ma li affronto con un linguaggio poetico, simbolico, evocativo. Non spiego, non semplifico. Chiedo al pubblico uno sforzo di partecipazione attiva. È una forma di poesia visiva, più che di narrazione. Uso metafore, allegorie, surrealismo. L’opera resta politica, ma mai didascalica”.
Proprio su questo: la tua capacità di muoverti tra linguaggi diversi - fotografia, cinema, video, musica, opera - sembra perfetta per il concetto di “arte totale”. Come vivi questa multidisciplinarietà?
“Quando fui invitata a dirigere l’Aida per il Festival di Salisburgo nel 2017, dissi subito che non conoscevo bene l’opera lirica. Ma mi fecero notare che i miei video sono già costruiti come una coreografia tra immagini e musica. Uso pochi dialoghi, ma molto movimento, scenografia, estetica. Il mio approccio è sempre stato più emotivo che razionale. In Aida, ogni scena è come un tableau vivente. La musica di Verdi è meravigliosa. Ho cercato di mettere in scena i conflitti religiosi, politici e affettivi in modo visivamente potente, senza confondere lo spettatore, ma anche senza semplificare”.
In molti tuoi film, come Women Without Men o Land of Dreams, sogno e memoria hanno un ruolo centrale. Hai portato anche in Aida questa dimensione onirica?
“Sì, assolutamente. Nella prima versione ero troppo realista, e mi sono accorta che non è il mio linguaggio. Mi interessa un realismo che si avvicina al sogno, ma che non lo diviene mai del tutto. Lavoro molto sul parallelismo tra realtà e incubo, tra storia e illusione. Alcune scene di Aida sono troppo lunghe e noiose se restano ancorate alla messa in scena tradizionale. Con la mia dramaturga (Yvonne Gebauer - ndr) abbiamo cercato di trasformarle in momenti di sospensione, anche attraverso il sogno e l’allucinazione”.
Hai diretto Aida per la prima volta nel 2017 a Salisburgo, poi nel 2022, e ora nel 2025 arrivi a Parigi. Ti definisci un’artista in esilio, eppure lavori nel cuore del mondo culturale occidentale. Come vivi questa apparente contraddizione?
“All’inizio della mia carriera ero totalmente assorbita dall’Iran e dalla Rivoluzione iraniana. Ero vista come un’artista iraniana musulmana che parlava del proprio Paese. Ma a un certo punto, con progetti come Land of Dreams, ho capito che non dovevo più sentirmi obbligata a parlare solo dell’Iran. Finché sono iraniana, qualunque cosa faccia porterà con sé quell’identità. Ma ora mi sento un’artista globale. Pur vivendo da anni a New York, sento di appartenere a due mondi in conflitto. La mia identità si muove costantemente tra l’Occidente e il Medio Oriente. Mi considero un’artista nomade, senza una vera appartenenza geografica”.

Shirin Neshat, Anna, from "The Home of My Eyes" series, 2015. Silver Gelatin Print and Ink, 152.4 × 101.6 cm / 40 × 60 in | Courtesy Written Art Foundation, Frankfurt am Main, Germany
Nella nostra precedente intervista ti chiesi in che lingua sogni. Oggi ti chiedo: quando scrivi, quale lingua usi?
“Non scrivo molto, preferisco lavorare con storyboard. Vivo circondata da persone iraniane, ma ormai penso sia in inglese che in farsi. Emotivamente sono ancora completamente iraniana: basta una canzone persiana e mi commuovo. Ma razionalmente sono molto occidentale: indipendente, pragmatica, determinata. Sono una donna indipendente, colta, abituata a viaggiare e a lavorare con rigore. Il mio mondo esterno è occidentale, ma quello interiore resta profondamente iraniano”.
Se Aida fosse uno specchio del presente, cosa rifletterebbe?
“Aida è una figura tragica che soffre dall’inizio alla fine. Per questo ho cercato di darle più forza, più profondità. In realtà, trovo Amneris ancora più interessante: è gelosa, innamorata, vulnerabile, vendicativa. È complessa, contraddittoria, umana. Aida è troppo ‘buona’, manca del lato oscuro che rende un personaggio credibile. E come pubblico siamo affascinati dalla complessità del male, perché tutti, in fondo, abbiamo un demone dentro di noi. La differenza sta nel saperlo controllare".
Giorni fa leggevo di Alejandro González Iñárritu: sta preparando una mostra Sueño Pérro alla Fondazione Prada a Milano. Tu sei un’artista visiva che è entrata nel cinema, lui un regista che vuole entrare nel mondo dell’arte. Che ne pensi di questi percorsi incrociati?
“Sarò onesta: pochi registi fanno davvero il salto nell’arte visiva in modo convincente. Tim Burton, Wes Anderson, Kiarostami, Wenders... spesso si limitano a presentare fotografie o set tratti dai loro film. Quando noi artisti visivi facciamo cinema, abbracciamo la grammatica del film. Ma non è detto che un’inquadratura cinematografica sia automaticamente un’opera d’arte. Fondazione Prada cerca grandi nomi, certo, ma non sempre il risultato ha un reale valore artistico autonomo. Detto questo, Iñárritu è un regista visivamente potente, per esempio conosco bene Darius Khondji che ha dato una splendida fotografia al suo film Bardo. Mi domando perché una mostra ispirata al suo primo film Amores Perros. Ma gli diamo il privilegio del dubbio. Sono curiosa di vedere cosa presenterà”.
E tu, ti consideri una regista, una fotografa, una videoartista?
“Il mio per il cinema è soprattutto un love affair. Fare cinema è difficile, e i miei film sono sempre qualcosa di unico, nel senso che sono originali, non somigliano a nulla di già visto. Ma non sono capolavori: sono esperimenti, e come tutti gli esperimenti hanno delle imperfezioni. I problemi ci sono, a volte nella sceneggiatura, ma restano opere nuove. Credo di essere probabilmente una videoartista migliore di quanto non sia come fotografa o regista, perché il video mi viene naturale: è breve, diretto, più facile da controllare. Mentre nel cinema e nell’opera hai bisogno di collaborare con tantissime persone, ed è tutto molto più complesso”.
Qualche giorno fa ero a Spoleto con William Kentridge. Stava presentando alcune mostre e un talk sul suo “Centre for the Less Good Idea”. Trovo interessante il suo approccio: promuovere idee meno brillanti, meno funzionali, per sfuggire alla logica dell’efficienza e della perfezione che spesso domina l’arte contemporanea. Dice che puntare sempre alla “migliore idea” può portarci a una visione unica, quasi totalitaria. Lui, invece, cerca spazio per la serendipità, l’imprevisto. Che ne pensi?
“Capisco quello che vuole dire, ma io la vedo diversamente. Non c’è nulla di peggio della mediocrità. Il problema oggi è che già esistono pochissime opere davvero potenti e necessarie. Perché dovremmo promuovere quelle meno riuscite? Certo, l’idea di Kentridge è provocatoria, e forse serve proprio a liberare l’artista da certe pressioni. Ma bisogna anche dire che lui può permetterselo. È in una posizione unica: ha successo, è acclamato dalla critica, vende bene, lavora con le migliori gallerie del mondo (in Italia è sempre Lia Rumma a rappresentare Kentridge - ndr) Anche se facesse un’opera meno riuscita, verrebbe comunque accolta e celebrata. Non è così per tutti. Io, ad esempio, ho ricevuto critiche dure sia in Occidente che nel mondo iraniano. Non ho mai goduto di un’accettazione totale. Credo anche che Kentridge, tra le tante cose che fa, produca molto, forse troppo. Non so come riesca a garantire sempre la qualità. Forse può farlo perché ha un team eccellente, una macchina perfetta attorno a sé. È un artista eccezionale, senza dubbio. Ma la sua condizione non è generalizzabile. Dipende tutto da chi sei, da dove ti trovi, e da quanto margine ti è concesso per sbagliare”.
Lo ami ancora o sei stanca del mondo dell’arte contemporanea ?
“Amo il mondo dell’arte, ma con molte riserve, perché è dominato dal mercato. Il valore di un artista dipende troppo da quanto vende. C’è un’ossessione per la quotazione, per l’apparire. Per questo sto lavorando di meno nel sistema dell’arte e mi dedico ad altri progetti, come Aida a Parigi e Orfeo a Parma nel 2026. Forse nel 2026 farò anche una mostra a Venezia per la Biennale…”
Mi incuriosisce molto il progetto su Orfeo. Puoi anticiparci qualcosa?
“Dopo Aida, che dura tre ore e mezza, mi è stato proposto da Alessio Vlad di portare in scena Orfeo ed Euridice di Gluck per il Teatro Regio di Parma. È un’opera molto più breve, un’ora e mezza, e non ha lo stesso tono epico. Orfeo è un’opera sull’amore, sul mondo dei vivi e dei morti, sulle illusioni e i sogni. C’è di nuovo questa doppia dimensione tra realismo e surrealismo, tra luce e buio, che per me è perfetta. Sarà in scena a gennaio 2026”.

Shirin Neshat, Land of Dreams, 2019 | © Shirin Neshat
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Un'Aida all'Opera Bastille per Shirin Neshat
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Al via l’Art Nouveau Week. I luoghi del Liberty da vedere in tutta Italia