Il documentario “Taking Venice” alla Festa del Cinema di Roma

Quando l’America propagandava Rauschenberg e il mondo libero

Taking Venice, di Amei Wallach
 

Piero Muscarà

19/10/2023

Roma - Che tutta l’arte sia “propaganda” lo aveva ben intuito George Orwell prima di Pearl Harbour. Lo scrittore inglese, che qualche anno più tardi guadagnerà la fama internazionale con i suoi romanzi La Fattoria degli Animali e 1984 per lungo tempo pagò le bollette e mise insieme il pranzo con la cena facendo il giornalista e il saggista, recensendo mostre d’arte, libri, film. Molti dei suoi saggi più interessanti furono raccolti in un libro intitolato appunto All Art is Propaganda pubblicato dalla casa editrice Sahara Publisher Books nel 1940. Orwell, che visse in un periodo storico a dir poco “turbolento” (era nato nel 1903 e morì ad appena 47 anni nel 1950), studiò da vicino le tre grandi ideologie che attraversarono il secolo breve - l’imperialismo, il fascismo e il comunismo - e intuì prima di molti altri le conseguenze sociali e politiche di come l’homo sapiens andasse costruendo il cosiddetto “mondo moderno”.

E di propaganda parla il documentario Taking Venice che la regista americana Amei Wallach ha presentato il 19 ottobre 2023 alla 18ª edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione non competitiva Freestyle.

La trama è presto detta. Al culmine della guerra fredda, il governo degli Stati Uniti è determinato a combattere il comunismo con la cultura. La Biennale di Venezia, la mostra d'arte più influente al mondo, diventa nel 1964 un banco di prova dove si svolgerà una delle più incredibili battaglie culturali della guerra fredda. Protagonisti tre improbabili personaggi: Alice Denney, una curatrice e esperta d’arte di Washington, che ha accesso all’inner circle dei Kennedy. Alan Solomon, scrittore d'arte, critico e organizzatore di mostre, direttore del The Jewish Museum di New York dal 1962 al 1964. E Leo Castelli,  il geniale mercante triestino che fece di New York la capitale mondiale dell’arte partendo dalla sua galleria al numero 420 di West Broadway.


Robert Rauschenberg davanti al suo dipinto serigrafico Express alla XXXII Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia, 1964 | Foto: Ugo Mulas | © Ugo Mulas Heirs

Nell’anno in cui gli Stati Uniti fanno ufficialmente il loro ingresso alla Biennale (il Padiglione USA era stato fino a quel momento gestito "privatamente" da un gruppo di gallerie d’arte newyorkesi - ndr) i tre mettono a punto un piano audace quanto incredibile: far vincere il premio più importante della kermesse veneziana a Robert Rauschenberg, un artista semi-sconosciuto, oltraggioso con le sue combinazioni di ready made raccolti tra la spazzatura in strada e l’iconografia di una pop-art che ancora non aveva un nome per essere definita. Un artista che chiaramente ha però tutta la potenzialità di epatér le bourgeois, di sconvolgere i benpensanti e di conquistare le attenzioni della stampa e del pubblico di tutto il mondo. E di far passare il messaggio - la propaganda direbbe Orwell - che l’America è la terra degli uomini liberi: the land of the free.

Un messaggio chiaro e semplice, che i protagonisti - tre individui che arrivano agli anni ‘60 con quello slancio di una società statunitense ancora “innocente e idealista” e che ha già saputo unirsi per sconfiggere altri mostri, il nazismo e il fascismo, e vincere la guerra - non esitano a fare proprio e intorno a cui costruiranno una mission impossible.

Come nella trama del più classico blockbuster hollywoodiano la Denney con Solomon (curatore ufficiale del Padiglione americano) e Castelli riusciranno nel loro intento. Il 19 giugno 1964 Robert Rauschenberg si aggiudica il Gran Premio Internazionale di Pittura e un assegno da due milioni di lire (l’equivalente oggi di circa 22 mila euro) alla 32ª Biennale di Venezia. In precedenza, gli unici americani a vincere premi di pittura erano stati James McNeill Whistler, nel 1895, e Mark Tobey, nel 1958. Alexander Calder vinse il Premio di Scultura nel 1952. La giuria comprende rappresentanti di Brasile, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Svizzera e un americano, Sam Hunter, direttore del Rose Art Museum. La decisione della giuria è controversa, poiché solo un'opera di Rauschenberg, Stop Gap (1963), è stata esposta nel Padiglione degli Stati Uniti ai Giardini; gli altri dipinti erano appesi nell'ex consolato americano che si affaccia su Canal Grande, accanto alla Peggy Guggenheim Collection.


Il trasporto di Express di Robert Rauschenberg alla XXXII Biennale Internazionale d'Arte di Venezia, 1964 | Foto: Ugo Mulas | © Ugo Mulas Heirs

All’ultimo minuto, Alan Solomon - venuto a conoscenza del regolamento della Biennale che prevedeva che solo le opere esposte nel recinto ufficiale della manifestazione potessero essere considerate eleggibili per un premio - sposta altre tre opere di Rauschenberg - Studio Painting (1960-1961), Express (1963) e Tree Frog (1964) nel Padiglione degli Stati Uniti per soddisfare i requisiti di ammissibilità dei giudici. C'è una serie di bellissime foto di Ugo Mulas che descrivono quel momenti in cui i quadri vengono caricati su un'imbarcazione per essere trasportati ai Giardini della Biennale. Alcuni critici europei affermeranno che il premio al giovane Rauschenberg sia la prova che l’Europa è ormai terra di conquista per gli Stati Uniti. I francesi in particolare - che mal tollerano la traiettoria inevitabile che sta spostando il cuore dell’arte planetaria da Parigi a New York - strepitano più di tutti.

Ma come scrive il critico italiano Gualtieri di San Lazzaro, nonostante tutte le polemiche, “nessuno può negare il vero talento di Rauschenberg come pittore, ed è a questo che la giuria ha voluto omaggiare”. Appena ricevuto il premio, l’artista americano chiamerà il suo assistente a New York - Tony Holder - impartendogli le istruzioni di distruggere le 150 serigrafie accatastate nel suo studio. Misura preventiva contro il rischio di ripetere sé stesso e contro la facile commercializzazione della sua arte.

La storia di Taking Venice non finisce qui, naturalmente - ed è molto più ricca ed approfondita di come poche righe di un articolo possano testimoniare.


Still da Taking Venice

Il documentario messo a punto da Amei Wallach regista e produttrice di Taking Venice con il supporto degli altri tre altri produttori - Andrea Miller, Tal Mandil e l’italiana Vanessa Bergonzoli - e del montatore del film Rob Tinworth è davvero rimarchevole. Non solo per la ricchezza di materiali storici e di testimonianze di prima mano raccolte. Taking Venice infatti è arricchito da innumerevoli interviste: su tutte quelle della sorella di Rauschenberg - Janet Begneaud - di artisti che furono testimoni diretti di quei giorni come Christo e Michelangelo Pistoletto o della vice commissioner del Padiglione degli Stati Uniti nel 1964 Alice Denney.

Quel che colpisce di più è l’intento del racconto di Taking Venice. Un documentario che ha l’intelligenza di saper semplificare ed enfatizzare la storia dove serve - su tutte la definzione bellissima della Biennale come “Olimpiade dell’Arte” che vale da sola il film - e di far emergere i punti salienti quando sono necessari.

“Sono cresciuta durante la guerra fredda - ha raccontato Amei Wallach - quando il mondo sembrava pericoloso quanto lo è oggi. Ma sembrava anche un mondo pieno di possibilità, un mondo dove le persone sognavano in grande e correvano grandi rischi. Questo film racconta la storia della Biennale di Venezia del 1964, in un momento in cui i funzionari del Dipartimento di Stato (il Ministero degli Esteri - ndr) e una squadra di improbabili cospiratori erano uniti nella convinzione che valesse la pena combattere per la democrazia americana. Erano determinati a sfruttare l’audacia dell’arte per promuovere il meglio della democrazia”.

Propaganda appunto. Ma la “nostra” propaganda, quella del mondo libero. Che non vuol dire non essere consapevoli, anche oggi a sessant’anni di distanza, di quanto ci siamo andati vicini un’altra volta a cadere nel baratro. E di quanto ancor oggi sia necessario combattere per difendere quell'unico imperfetto sistema politico, quello capace sempre di criticare sé stesso e di rimettersi costantemente in discussione. La democrazia, insomma.

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