A Firenze fino al 3 giugno
Il filo e l'infinito: a Palazzo Pitti le creazioni liriche di Maria Lai
Maria Lai, Tela cucita, 1976, collage di stoffe e lana. Lanusei (Nuoro), Archivio Maria Lai
Samantha De Martin
19/03/2018
Firenze - C’è una leggenda che tutti conoscono nel comune di Ulassai, il piccolo centro del nuorese incorniciato dai monti dell’Ogliastra. È la storia di una bambina che, durante un furioso temporale, esce dalla grotta dove si era rifugiata attratta da un bellissimo nastro volante nel cielo, gesto che le consente di scampare a una frana devastante. Questa straordinaria allusione al potere, talvolta salvifico, dell’arte e della bellezza, era già stata trasformata in esperienza tattile dall'artista Maria Lai che, in collaborazione con gli abitanti del paese di Ulassai, nel 1981, aveva dato vita alla prima opera relazionale realizzata in Italia, dal titolo Legarsi alla montagna, un’ambiziosa operazione sul territorio ispirata a quella leggenda.
L’artista aveva legato tutte le porte, le vie e le case con circa 27 chilometri di nastri di stoffa celeste. L'operazione materiale durò tre giorni e coinvolse donne, bambini, pastori, anziani.
Ed è proprio quel nastro con cui Lai entra nella scena dell’arte contemporanea internazionale - come dimostra la sua presenza alla Biennale di Venezia e a Documenta di Kassel - il primo elemento da cui partire per seguire Il filo e l’infinito, la mostra che fino al prossimo 3 giugno, nell’Andito degli Angiolini di Palazzo Pitti celebra l’artista sarda.
«Al centro di questa rassegna - spiega Eike Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi - sta il mezzo più tipico del suo lavoro, cioè quel filo che ‘lega e collega’ in maniera senz’altro viva e che spesso rimane libero e non ancora cucito: tra i vari riferimenti mitologici non può che ricordare Penelope che tesse durante il giorno e nella notte scioglie i fili».
E infatti, quelli intrecciati da Maria Lai sono fili che compongono geografie, leggende, libri illustrati.
La mostra, a cura di Elena Pontiggia, celebra gli oltre 70 anni di ricerca artistica di Lai, dal realismo lirico degli anni Quaranta alle scelte informali dei tardi anni Cinquanta fino ai lavori polimaterici dei primi anni Sessanta e alle successive opere concettuali.
Tra i fili cari a questa donna, attiva tra Ulassai, Cagliari, Roma, ci sono quelli del telaio, lo strumento millenario della tessitura, che compare già in un suo disegno degli anni Quaranta, per lasciare il posto, nelle carte successive, alle figure di tessitrici. “Ho sentito un batter di telaio, e il villaggio non mi sembrava più morto”, scriveva Salvatore Cambosu, scrittore sardo, insegnante e suo grande amico.
Del 1967 è Oggetto-paesaggio, esposto nella prima sala della mostra: un telaio disfatto, ingombro di fili spezzati e scomposti, che occupa lo spazio, simile a un totem.
Le Tele cucite, nate dai Telai, pur continuando a evocare il mondo arcaico dell’arte tessile in Sardegna, si inseriscono nella ricerca espressiva che lavora con la tela, e sembrano richiamare i Sacchi di Alberto Burri, le Tele fasciate di Scarpitta, i tessuti di Piero Manzoni.
L’artista legata a Ulassai da vincoli di affetto - ma anche dall’esperienza tragica della morte del fratello, ucciso a trentadue anni in un tentativo di sequestro - trasforma l’oggetto semplice, quotidiano, dalla funzione puramente decorativa, in uno strumento poetico che invita a riflettere, a pensare, a capire.
“Questo dovrebbe fare l’arte: farci sentire più uniti” ripeteva Maria.
E poi ci sono le Scritture, create sempre utilizzando i fili, dalle quali nascono, alla fine degli anni Settanta, i Libri, caratterizzati da fiabe visive, come Tenendo per mano l’ombra, del 1987, incentrata sulla capacità di accettare il negativo che è in noi tutti. Era dal 2004 che Maria Lai non faceva ritorno agli Uffizi, precisamente da quando, aveva allestito, al Giardino di Boboli, l’Invito a tavola, un grande desco imbandito di pane e libri in terracotta, e adesso in mostra a New York.
Più volte ha reso omaggio a questa città, ad esempio con le sue mappe immaginarie di Leonardo da Vinci o con l’opera Il mare ha bisogno di fichi, realizzata nel 1986 in occasione del ventesimo anniversario dell’alluvione del 4 novembre 1966.
Leggi anche:
• Maria Lai. Il filo e l'infinito
• Maria Lai. Invito a Tavola
L’artista aveva legato tutte le porte, le vie e le case con circa 27 chilometri di nastri di stoffa celeste. L'operazione materiale durò tre giorni e coinvolse donne, bambini, pastori, anziani.
Ed è proprio quel nastro con cui Lai entra nella scena dell’arte contemporanea internazionale - come dimostra la sua presenza alla Biennale di Venezia e a Documenta di Kassel - il primo elemento da cui partire per seguire Il filo e l’infinito, la mostra che fino al prossimo 3 giugno, nell’Andito degli Angiolini di Palazzo Pitti celebra l’artista sarda.
«Al centro di questa rassegna - spiega Eike Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi - sta il mezzo più tipico del suo lavoro, cioè quel filo che ‘lega e collega’ in maniera senz’altro viva e che spesso rimane libero e non ancora cucito: tra i vari riferimenti mitologici non può che ricordare Penelope che tesse durante il giorno e nella notte scioglie i fili».
E infatti, quelli intrecciati da Maria Lai sono fili che compongono geografie, leggende, libri illustrati.
La mostra, a cura di Elena Pontiggia, celebra gli oltre 70 anni di ricerca artistica di Lai, dal realismo lirico degli anni Quaranta alle scelte informali dei tardi anni Cinquanta fino ai lavori polimaterici dei primi anni Sessanta e alle successive opere concettuali.
Tra i fili cari a questa donna, attiva tra Ulassai, Cagliari, Roma, ci sono quelli del telaio, lo strumento millenario della tessitura, che compare già in un suo disegno degli anni Quaranta, per lasciare il posto, nelle carte successive, alle figure di tessitrici. “Ho sentito un batter di telaio, e il villaggio non mi sembrava più morto”, scriveva Salvatore Cambosu, scrittore sardo, insegnante e suo grande amico.
Del 1967 è Oggetto-paesaggio, esposto nella prima sala della mostra: un telaio disfatto, ingombro di fili spezzati e scomposti, che occupa lo spazio, simile a un totem.
Le Tele cucite, nate dai Telai, pur continuando a evocare il mondo arcaico dell’arte tessile in Sardegna, si inseriscono nella ricerca espressiva che lavora con la tela, e sembrano richiamare i Sacchi di Alberto Burri, le Tele fasciate di Scarpitta, i tessuti di Piero Manzoni.
L’artista legata a Ulassai da vincoli di affetto - ma anche dall’esperienza tragica della morte del fratello, ucciso a trentadue anni in un tentativo di sequestro - trasforma l’oggetto semplice, quotidiano, dalla funzione puramente decorativa, in uno strumento poetico che invita a riflettere, a pensare, a capire.
“Questo dovrebbe fare l’arte: farci sentire più uniti” ripeteva Maria.
E poi ci sono le Scritture, create sempre utilizzando i fili, dalle quali nascono, alla fine degli anni Settanta, i Libri, caratterizzati da fiabe visive, come Tenendo per mano l’ombra, del 1987, incentrata sulla capacità di accettare il negativo che è in noi tutti. Era dal 2004 che Maria Lai non faceva ritorno agli Uffizi, precisamente da quando, aveva allestito, al Giardino di Boboli, l’Invito a tavola, un grande desco imbandito di pane e libri in terracotta, e adesso in mostra a New York.
Più volte ha reso omaggio a questa città, ad esempio con le sue mappe immaginarie di Leonardo da Vinci o con l’opera Il mare ha bisogno di fichi, realizzata nel 1986 in occasione del ventesimo anniversario dell’alluvione del 4 novembre 1966.
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