A Firenze fino al 20 gennaio
A Palazzo Strozzi 50 anni di Marina Abramovic
Marina Abramović, Artist Portrait with a Candle, dalla serie Places of Power, 2013. Courtesy of Marina Abramović Archives © Marina Abramović by SIAE 2018
Samantha De Martin
24/09/2018
Firenze - “Indossa le scarpe a piedi nudi. Chiudi gli occhi. Resta immobile. Parti”.
“Conta i chicchi di riso e le lenticchie, tenendo dei conti separati sul foglio, ma libero di andartene in qualsiasi momento”.
Per la prima volta è la voce della stessa Marian Abramovic, attraverso le istruzioni che corrono su un’innovativa audioguida, ad accompagnare i visitatori di Palazzo Strozzi tra le performance e i diversi momenti della sua vita carismatica. Una vita artistica iniziata a Belgrado come pittrice figurativa e poi astratta, i cui esordi sono racchiusi in opere come l’Autoritratto del 1965 e i dipinti delle serie Truck Accident (1963) e Clouds (1965-1970) in cui si ripetono ossessivamente violenti incidenti di camion e nuvole quasi astratte.
The Cleaner, in corso fino al 20 gennaio, è la prima grande mostra retrospettiva italiana dedicata a Marina Abramovic, una delle personalità più celebri e controverse dell’arte contemporanea, che con le sue opere ha rivoluzionato l’idea di performance mettendo alla prova il proprio corpo, i suoi limiti e le sue potenzialità di espressione.
Ma è anche la prima mostra di Palazzo Strozzi ad avere come protagonista assoluta una donna. Oltre 100 opere dell’artista - realizzate tra gli anni Sessanta e gli anni Duemila - scorrono tra Piano Nobile, la Strozzina e il cortile - accogliendo il pubblico con video, fotografie, dipinti, oggetti, installazioni, e celebri performance rieseguite dal vivo da parte di un gruppo di performer specificatamente selezionati e formati in occasione della mostra.
“Come in una casa: tieni solo quello che ti serve e fai pulizia del passato, della memoria, del destino”. Come spiega l’artista, il titolo dell’esposizione, The Cleaner, allude a un particolare momento creativo ed esistenziale, ad una riflessione della Abramovic sulla propria vita, con azioni forti, violente, rischiose, veri e propri incontri con il pubblico, che negli ultimi anni è diventato sempre più protagonista nelle sue opere.
L’utilizzo diretto del proprio corpo nelle performance, a partire dagli anni Settanta, è evidente in opere come la serie Rhythm (1973-1974) e Thomas Lips (1975) - in cui l’artista si espone a dure prove di resistenza fisica e psicologica - o ancora in Art Must Be Beatiful/Artist Must Be Beatiful (1975), dove, nuda, pettina i propri capelli fino a far sanguinare la cute, o The Freeing Series (Memory, Voice, Body, 1975), nella quale mette alla prova la capacità di resistenza individuale attraverso estenuanti azioni ripetitive di parole, suoni e gesti.
E poi c’è l’incontro, nel 1975, con l’artista tedesco Ulay con il quale intrattiene un rapporto sentimentale e professionale il cui simbolo è il furgone Citroën - esposto nel cortile di Palazzo Strozzi - in cui i due hanno vissuto, viaggiando incessantemente in Europa per tre anni.
Da questa esperienza sono nate celebri performance di coppia come Imponderabilia (1977) - nella cui re-performance, che si ripete ogni giorno all’interno dell’esposizione, il pubblico è costretto a passare attraverso i corpi nudi dei due artisti come fossero gli stipiti di una porta - o azioni come Relation in Space (1976) e Light/Dark (1977) dove ad essere sperimentato è l’incontro/scontro tra energia femminile e maschile.
La ricerca e lo studio, da parte dei due, di pratiche di meditazione in Australia, India e Thailandia, negli anni Ottanta, dà vita a opere come Nightsea Crossing, in cui i due artisti rimangono immobili l’uno di fronte all’altra per ore, e a Nightsea Crossing Conjunction, in cui le culture aborigena e tibetana vengono messe a confronto.
Ma è la performance The Lovers a celebrare, nel 1988, la fine di questa relazione sentimentale e professionale. I due artisti si incontrano per dirsi addio a metà della Grande Muraglia cinese, dopo aver percorso a piedi duemilacinquecento chilometri ciascuno, partendo lei dall’estremità orientale e lui da quella occidentale.
Negli anni Novanta il dramma della guerra in Bosnia ispira l’opera Balkan Baroque (1997), che le vale il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1997, e che assurge a metafora contro tutte le guerre. All’interno di un buio scantinato, Abramovic pulisce una ad una mille ossa di bovino raschiando pezzi di carne e cartilagine mentre intona canzoni della tradizione popolare serba.
Grazie alla rinnovata collaborazione di Palazzo Strozzi con l’Opera di Santa Maria del Fiore, due opere saranno eccezionalmente esposte al Museo dell'Opera del Duomo in dialogo con capolavori come la Pietà Bandini di Michelangelo. Si tratta di una fotografia della Pietà (Anima Mundi) dove l'artista reinterpreta l’iconografia sacra della Pietà (1983/2002) e del video The Kitchen V, Carrying the Milk (2009) in cui rende omaggio alla mistica santa Teresa d’Avila.
La mostra è soprattutto un racconto speciale del rapporto di Marina Abramovic con l’Italia. Nel lungo, appassionante, a tratti estenuante Grand Tour artistico ed esistenziale dell’artista serba, c’è una foto scattata da Ulay, Somewhere in Tuscany nel 1977, dove Marina annusa un mazzo di fiori appena colti.
E ancora ci sono Roma, Milano, Napoli, Bologna, Venezia, Firenze, ma anche Ferrara, Genazzano, Volterra, Como, la Sicilia, Stromboli, la Ciociaria, passaggi importanti per la sua carriera e per il suo vissuto. Significativo nel suo percorso anche il centro buddista di Pomaia, in provincia di Pisa, dove nell’ottobre 1982 incontra per la seconda volta il Dalai Lama.
Nel 1974, allo Studio Morra di Napoli, si tiene la sua performance più estrema, Rhythm 0, in cui l’artista si abbandona al pubblico invitandolo ad utilizzare sul proprio corpo, e per ben sei ore, uno dei settantadue oggetti messi a disposizione, tra i quali un martello, una sega, una piuma, una forchetta, un’accetta, una rosa, un paio di forbici, degli aghi, una penna, miele, un coltellino, uno specchio, degli spilli, un rossetto, una macchina Polaroid, una pistola e un proiettile.
Negli spazi di Palazzo Strozzi, The Cleaner cambia volto, ogni giorno e a ogni ora, grazie a un fitto calendario di re-performance che coprono tutto l’arco cronologico di una retrospettiva.
Per la Abramovic, ciascuna “re-performance” rappresenta un mezzo per dare nuova vita alla performance, che invece allude all'arte effimera per eccellenza.
L’opera deve avere vita propria e sopravvivere all’autore. Ed è per questo che, interpretate, così, da nuovi artisti, i lavori in mostra - simili a brani musicali che cambiano profondamente al variare degli interpreti - perdono la loro funzione di documenti storici per acquisire nuova vita.
Leggi anche:
• Marina Abramovic. The Cleaner
“Conta i chicchi di riso e le lenticchie, tenendo dei conti separati sul foglio, ma libero di andartene in qualsiasi momento”.
Per la prima volta è la voce della stessa Marian Abramovic, attraverso le istruzioni che corrono su un’innovativa audioguida, ad accompagnare i visitatori di Palazzo Strozzi tra le performance e i diversi momenti della sua vita carismatica. Una vita artistica iniziata a Belgrado come pittrice figurativa e poi astratta, i cui esordi sono racchiusi in opere come l’Autoritratto del 1965 e i dipinti delle serie Truck Accident (1963) e Clouds (1965-1970) in cui si ripetono ossessivamente violenti incidenti di camion e nuvole quasi astratte.
The Cleaner, in corso fino al 20 gennaio, è la prima grande mostra retrospettiva italiana dedicata a Marina Abramovic, una delle personalità più celebri e controverse dell’arte contemporanea, che con le sue opere ha rivoluzionato l’idea di performance mettendo alla prova il proprio corpo, i suoi limiti e le sue potenzialità di espressione.
Ma è anche la prima mostra di Palazzo Strozzi ad avere come protagonista assoluta una donna. Oltre 100 opere dell’artista - realizzate tra gli anni Sessanta e gli anni Duemila - scorrono tra Piano Nobile, la Strozzina e il cortile - accogliendo il pubblico con video, fotografie, dipinti, oggetti, installazioni, e celebri performance rieseguite dal vivo da parte di un gruppo di performer specificatamente selezionati e formati in occasione della mostra.
“Come in una casa: tieni solo quello che ti serve e fai pulizia del passato, della memoria, del destino”. Come spiega l’artista, il titolo dell’esposizione, The Cleaner, allude a un particolare momento creativo ed esistenziale, ad una riflessione della Abramovic sulla propria vita, con azioni forti, violente, rischiose, veri e propri incontri con il pubblico, che negli ultimi anni è diventato sempre più protagonista nelle sue opere.
L’utilizzo diretto del proprio corpo nelle performance, a partire dagli anni Settanta, è evidente in opere come la serie Rhythm (1973-1974) e Thomas Lips (1975) - in cui l’artista si espone a dure prove di resistenza fisica e psicologica - o ancora in Art Must Be Beatiful/Artist Must Be Beatiful (1975), dove, nuda, pettina i propri capelli fino a far sanguinare la cute, o The Freeing Series (Memory, Voice, Body, 1975), nella quale mette alla prova la capacità di resistenza individuale attraverso estenuanti azioni ripetitive di parole, suoni e gesti.
E poi c’è l’incontro, nel 1975, con l’artista tedesco Ulay con il quale intrattiene un rapporto sentimentale e professionale il cui simbolo è il furgone Citroën - esposto nel cortile di Palazzo Strozzi - in cui i due hanno vissuto, viaggiando incessantemente in Europa per tre anni.
Da questa esperienza sono nate celebri performance di coppia come Imponderabilia (1977) - nella cui re-performance, che si ripete ogni giorno all’interno dell’esposizione, il pubblico è costretto a passare attraverso i corpi nudi dei due artisti come fossero gli stipiti di una porta - o azioni come Relation in Space (1976) e Light/Dark (1977) dove ad essere sperimentato è l’incontro/scontro tra energia femminile e maschile.
La ricerca e lo studio, da parte dei due, di pratiche di meditazione in Australia, India e Thailandia, negli anni Ottanta, dà vita a opere come Nightsea Crossing, in cui i due artisti rimangono immobili l’uno di fronte all’altra per ore, e a Nightsea Crossing Conjunction, in cui le culture aborigena e tibetana vengono messe a confronto.
Ma è la performance The Lovers a celebrare, nel 1988, la fine di questa relazione sentimentale e professionale. I due artisti si incontrano per dirsi addio a metà della Grande Muraglia cinese, dopo aver percorso a piedi duemilacinquecento chilometri ciascuno, partendo lei dall’estremità orientale e lui da quella occidentale.
Negli anni Novanta il dramma della guerra in Bosnia ispira l’opera Balkan Baroque (1997), che le vale il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1997, e che assurge a metafora contro tutte le guerre. All’interno di un buio scantinato, Abramovic pulisce una ad una mille ossa di bovino raschiando pezzi di carne e cartilagine mentre intona canzoni della tradizione popolare serba.
Grazie alla rinnovata collaborazione di Palazzo Strozzi con l’Opera di Santa Maria del Fiore, due opere saranno eccezionalmente esposte al Museo dell'Opera del Duomo in dialogo con capolavori come la Pietà Bandini di Michelangelo. Si tratta di una fotografia della Pietà (Anima Mundi) dove l'artista reinterpreta l’iconografia sacra della Pietà (1983/2002) e del video The Kitchen V, Carrying the Milk (2009) in cui rende omaggio alla mistica santa Teresa d’Avila.
La mostra è soprattutto un racconto speciale del rapporto di Marina Abramovic con l’Italia. Nel lungo, appassionante, a tratti estenuante Grand Tour artistico ed esistenziale dell’artista serba, c’è una foto scattata da Ulay, Somewhere in Tuscany nel 1977, dove Marina annusa un mazzo di fiori appena colti.
E ancora ci sono Roma, Milano, Napoli, Bologna, Venezia, Firenze, ma anche Ferrara, Genazzano, Volterra, Como, la Sicilia, Stromboli, la Ciociaria, passaggi importanti per la sua carriera e per il suo vissuto. Significativo nel suo percorso anche il centro buddista di Pomaia, in provincia di Pisa, dove nell’ottobre 1982 incontra per la seconda volta il Dalai Lama.
Nel 1974, allo Studio Morra di Napoli, si tiene la sua performance più estrema, Rhythm 0, in cui l’artista si abbandona al pubblico invitandolo ad utilizzare sul proprio corpo, e per ben sei ore, uno dei settantadue oggetti messi a disposizione, tra i quali un martello, una sega, una piuma, una forchetta, un’accetta, una rosa, un paio di forbici, degli aghi, una penna, miele, un coltellino, uno specchio, degli spilli, un rossetto, una macchina Polaroid, una pistola e un proiettile.
Negli spazi di Palazzo Strozzi, The Cleaner cambia volto, ogni giorno e a ogni ora, grazie a un fitto calendario di re-performance che coprono tutto l’arco cronologico di una retrospettiva.
Per la Abramovic, ciascuna “re-performance” rappresenta un mezzo per dare nuova vita alla performance, che invece allude all'arte effimera per eccellenza.
L’opera deve avere vita propria e sopravvivere all’autore. Ed è per questo che, interpretate, così, da nuovi artisti, i lavori in mostra - simili a brani musicali che cambiano profondamente al variare degli interpreti - perdono la loro funzione di documenti storici per acquisire nuova vita.
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