L’ora di Mosca – Esperienza #02
Dal 10 Luglio 2021 al 29 Agosto 2021
Casale Monferrato | Alessandria
Luogo: Castello dei Paleologi
Indirizzo: Piazza Castello
Orari: Sabato e Domenica 10.00/13.00 - 15.00/19.00
Curatori: Chiara Tavella
Enti promotori:
- Patrocinio di
- Regione Piemonte
- Provincia di Alessandria
- Città di Casale Monferrato
E-Mail info: info@loradimosca.it
Sito ufficiale: http://www.loradimosca.it
Dal 10 luglio al 29 agosto, il Castello dei Paleologi a Casale Monferrato ospiterà la prima mostra – in realtà concettualmente la seconda, ecco perché il titolo Esperienza #02 – de L’ora di Mosca, gruppo artistico indipendente, nato nel giugno del 2020, alla fine del primo lockdown, per riaffermare il proprio “esserci”, la propria esistenza creativa, di fronte all’annullamento di molte attività culturali imposto dalla pandemia.
Il gruppo si compone di undici artisti – Aqua Aura, Giuliano Caporali, Loretta Cappanera, Elisa Cella, Andrea Cereda, Angelica Consoli, Nadia Galbiati, Marco Grimaldi, Alex Sala, Matteo Suffritti, Manuela Toselli – accomunati non tanto dall’appartenenza a movimenti o aree linguistiche ben definiti, ma dall’intento di instaurare un dialogo tra mondi immaginativi anche molto diversi tra loro, seppure afferenti a un’area che si colloca tra l’astrazione e le pratiche concettuali.
A questo allude il nome del gruppo, che prende spunto da una citazione di Wassily Kandinsky, tratta dal libro autobiografico Sguardi sul passato (1913), in cui l’artista russo rievoca la forte emozione suscitata in lui dalla molteplicità dei colori che la luce di un tramonto invernale genera riflettendosi sulle fantasmagoriche architetture del Cremlino; una molteplicità però che, come in una grande orchestra composta di strumenti diversi, è in grado di accordarsi e generare una “sinfonia”. E proprio la convivenza di modalità espressive così diverse appare cifra dell’orizzonte artistico contemporaneo, non più dominato da un movimento o da una tendenza prevalente, come in passato, ma frammentato in tante individualità che procedono in modo autonomo.
Se però la prima mostra prevista, Esperienza #01 – che dove svolgersi in primavera, presso la Rocca di Umbertide (PG), ed è stata rimandata al prossimo autunno a causa della sospensione delle attività culturali dovuta alla recrudescenza dell’epidemia – doveva essere, e sarà, un “pieno” d’orchestra, un percorso in cui i tratti peculiari di ciascun artista vengono sottolineati e amplificati, anche in voluto contrasto tra loro, questo secondo movimento de L’ora di Mosca è piuttosto un “pianissimo”, o un “adagio”, in cui alle distonie, ai forti del primo progetto viene sostituito un mood più morbido, uniforme e sussurrato, rappresentato dalla scelta cromatica cui tutti gli artisti si sono attenuti, impostata sul non colore, o meglio su un colore che affiora incerto, sporco, come per sottrazione, tra il bianco e il nero prevalenti. Questo soprattutto nello spazio espositivo principale, ampio ambiente aperto dove i lavori, sia a parete che scultorei, si articolano come un percorso continuo, dai blu profondi delle nebulose di Marco Grimaldi alle costellazioni atomiche, rarefatte e immateriali, benché ispirate agli elementi minimi della materia, di Elisa Cella; dagli interni impossibili, vuoti, disperatamente bianchi delle fotografie digitali di Aqua Aura, al colore pieno in sé di vita, anche quando è solo colore e solo bianco o nero, delle tele di Giuliano Caporali; dalle trame di racconti, miti e vissuto dei lavori tessili di Loretta Cappanera, agli intrecci di seta e specchi, di sentimento e razionalità, di Manuela Toselli, fino alla realtà attuale, distillata da Matteo Suffritti in installazioni che, avvalendosi della fotografia, riassumono il dramma delle migrazioni, per esempio, in un paio di braccia che, sole, emergono da una vasca d’acqua. Mentre nei due torrioni, spazi dal carattere più marcato, che hanno la forza un po’ brutale delle architetture a destinazione difensiva, risuonano nuovamente i contrasti: in un torrione, la contrapposizione tra le costruzioni “fredde”, razionali e architettoniche di Nadia Galbiati, e le strutture “calde”, sorta di carapaci di vecchie lamiere, di Andrea Cereda; nell’altro, il contrasto tra una installazione, quella di Alex Sala, che pone in discussione l’individuo, più aleatorio delle “cose” concrete, oggetti e luoghi, dove l’individuo stesso abita, e una ricerca, quella di Angelica Consoli, in cui invece proprio la dimensione più profonda dell’io, il senso del sacro, si ritrova in piccoli oggetti quotidiani dalla valenza simbolico-religiosa. Anche le opere dei torrioni sono improntate però al monocromatismo, anch’esse partecipano di quella tonalità d’insieme che è non solo una questione di colore, ma di poetica e di messaggio: l’esposizione al Castello di Casale si propone come un tappeto visivo che scorre fluido, da un lavoro all’altro, come una sorta di “sottofondo”, come un discreto accompagnamento ad una voce narrante che, però, è il silenzio. Questa voce, questo silenzio, “potremmo definirlo come una sorta di ‘Reale’ che si sovrappone ai linguaggi – scrivono gli artisti – come l’impronta del momento storico in cui la mostra si colloca, che è esterno ad essa eppure incombente. L’isolamento e la pandemia ci hanno allontanati gli uni dagli altri e ci hanno insegnato la diffidenza. Una diffidenza che è diventata lentamente distanza da tutto ciò che prima era la nostra quotidianità. Questa forzata realtà dentro la quale un organismo, piccolissimo e invisibile, ci ha condotto, ha modificato anche le dinamiche della nostra stessa attività di artisti, il nostro porci di fronte alla creatività. Nel sottofondo generale di questa sub-realtà (o neo-realtà) che ha cancellato ogni riferimento consueto, ogni abitudine; in cui ogni legame sociale, ogni naturale gestualità è intrisa di disinfettante e i volti sono coperti e cancellati da maschere, si sta perdendo il colore, l’espressione naturale dell’essere (o dell’esserci stati)”.
L’ora di Mosca ha dunque cambiato registro. Rispetto al primo progetto, che poteva essere letto come una ribellione, anche rabbiosa, al primo lockdown, come una pervicace rivendicazione d’esistenza, ora, con il protrarsi della pandemia, nell’incertezza della realtà che si profila, nella consapevolezza di essere dentro una svolta epocale, la riaffermazione della necessità dell’arte va fatta con voce sommessa. “Eppure sotto questa coltre noi esistiamo. Siamo dentro una porzione di futuro, per quanto distopico – scrivono ancora gli artisti de L’ora di Mosca – La mostra però non vuole “urlare”, non vuole rivendicare nulla, anzi. Vorrebbe essere uno scorrere leggero di visioni, emozioni e pensieri, come a dire: ‘Noi siamo qui. Il nostro stato d’animo, sospeso e incerto, è come quello dello spettatore’. Come una fotografia in scala di grigio, come un quadro senza colore. […] Entreremo in scena con un mormorio, per non disturbare, un brusio di sottofondo dentro il quale l’unica nota che si distingue è la nostra dichiarata ‘diversità’: il nostro essere scivolamenti di tono.
Inaugurazione: sabato 10 luglio ore 17.00
Il gruppo si compone di undici artisti – Aqua Aura, Giuliano Caporali, Loretta Cappanera, Elisa Cella, Andrea Cereda, Angelica Consoli, Nadia Galbiati, Marco Grimaldi, Alex Sala, Matteo Suffritti, Manuela Toselli – accomunati non tanto dall’appartenenza a movimenti o aree linguistiche ben definiti, ma dall’intento di instaurare un dialogo tra mondi immaginativi anche molto diversi tra loro, seppure afferenti a un’area che si colloca tra l’astrazione e le pratiche concettuali.
A questo allude il nome del gruppo, che prende spunto da una citazione di Wassily Kandinsky, tratta dal libro autobiografico Sguardi sul passato (1913), in cui l’artista russo rievoca la forte emozione suscitata in lui dalla molteplicità dei colori che la luce di un tramonto invernale genera riflettendosi sulle fantasmagoriche architetture del Cremlino; una molteplicità però che, come in una grande orchestra composta di strumenti diversi, è in grado di accordarsi e generare una “sinfonia”. E proprio la convivenza di modalità espressive così diverse appare cifra dell’orizzonte artistico contemporaneo, non più dominato da un movimento o da una tendenza prevalente, come in passato, ma frammentato in tante individualità che procedono in modo autonomo.
Se però la prima mostra prevista, Esperienza #01 – che dove svolgersi in primavera, presso la Rocca di Umbertide (PG), ed è stata rimandata al prossimo autunno a causa della sospensione delle attività culturali dovuta alla recrudescenza dell’epidemia – doveva essere, e sarà, un “pieno” d’orchestra, un percorso in cui i tratti peculiari di ciascun artista vengono sottolineati e amplificati, anche in voluto contrasto tra loro, questo secondo movimento de L’ora di Mosca è piuttosto un “pianissimo”, o un “adagio”, in cui alle distonie, ai forti del primo progetto viene sostituito un mood più morbido, uniforme e sussurrato, rappresentato dalla scelta cromatica cui tutti gli artisti si sono attenuti, impostata sul non colore, o meglio su un colore che affiora incerto, sporco, come per sottrazione, tra il bianco e il nero prevalenti. Questo soprattutto nello spazio espositivo principale, ampio ambiente aperto dove i lavori, sia a parete che scultorei, si articolano come un percorso continuo, dai blu profondi delle nebulose di Marco Grimaldi alle costellazioni atomiche, rarefatte e immateriali, benché ispirate agli elementi minimi della materia, di Elisa Cella; dagli interni impossibili, vuoti, disperatamente bianchi delle fotografie digitali di Aqua Aura, al colore pieno in sé di vita, anche quando è solo colore e solo bianco o nero, delle tele di Giuliano Caporali; dalle trame di racconti, miti e vissuto dei lavori tessili di Loretta Cappanera, agli intrecci di seta e specchi, di sentimento e razionalità, di Manuela Toselli, fino alla realtà attuale, distillata da Matteo Suffritti in installazioni che, avvalendosi della fotografia, riassumono il dramma delle migrazioni, per esempio, in un paio di braccia che, sole, emergono da una vasca d’acqua. Mentre nei due torrioni, spazi dal carattere più marcato, che hanno la forza un po’ brutale delle architetture a destinazione difensiva, risuonano nuovamente i contrasti: in un torrione, la contrapposizione tra le costruzioni “fredde”, razionali e architettoniche di Nadia Galbiati, e le strutture “calde”, sorta di carapaci di vecchie lamiere, di Andrea Cereda; nell’altro, il contrasto tra una installazione, quella di Alex Sala, che pone in discussione l’individuo, più aleatorio delle “cose” concrete, oggetti e luoghi, dove l’individuo stesso abita, e una ricerca, quella di Angelica Consoli, in cui invece proprio la dimensione più profonda dell’io, il senso del sacro, si ritrova in piccoli oggetti quotidiani dalla valenza simbolico-religiosa. Anche le opere dei torrioni sono improntate però al monocromatismo, anch’esse partecipano di quella tonalità d’insieme che è non solo una questione di colore, ma di poetica e di messaggio: l’esposizione al Castello di Casale si propone come un tappeto visivo che scorre fluido, da un lavoro all’altro, come una sorta di “sottofondo”, come un discreto accompagnamento ad una voce narrante che, però, è il silenzio. Questa voce, questo silenzio, “potremmo definirlo come una sorta di ‘Reale’ che si sovrappone ai linguaggi – scrivono gli artisti – come l’impronta del momento storico in cui la mostra si colloca, che è esterno ad essa eppure incombente. L’isolamento e la pandemia ci hanno allontanati gli uni dagli altri e ci hanno insegnato la diffidenza. Una diffidenza che è diventata lentamente distanza da tutto ciò che prima era la nostra quotidianità. Questa forzata realtà dentro la quale un organismo, piccolissimo e invisibile, ci ha condotto, ha modificato anche le dinamiche della nostra stessa attività di artisti, il nostro porci di fronte alla creatività. Nel sottofondo generale di questa sub-realtà (o neo-realtà) che ha cancellato ogni riferimento consueto, ogni abitudine; in cui ogni legame sociale, ogni naturale gestualità è intrisa di disinfettante e i volti sono coperti e cancellati da maschere, si sta perdendo il colore, l’espressione naturale dell’essere (o dell’esserci stati)”.
L’ora di Mosca ha dunque cambiato registro. Rispetto al primo progetto, che poteva essere letto come una ribellione, anche rabbiosa, al primo lockdown, come una pervicace rivendicazione d’esistenza, ora, con il protrarsi della pandemia, nell’incertezza della realtà che si profila, nella consapevolezza di essere dentro una svolta epocale, la riaffermazione della necessità dell’arte va fatta con voce sommessa. “Eppure sotto questa coltre noi esistiamo. Siamo dentro una porzione di futuro, per quanto distopico – scrivono ancora gli artisti de L’ora di Mosca – La mostra però non vuole “urlare”, non vuole rivendicare nulla, anzi. Vorrebbe essere uno scorrere leggero di visioni, emozioni e pensieri, come a dire: ‘Noi siamo qui. Il nostro stato d’animo, sospeso e incerto, è come quello dello spettatore’. Come una fotografia in scala di grigio, come un quadro senza colore. […] Entreremo in scena con un mormorio, per non disturbare, un brusio di sottofondo dentro il quale l’unica nota che si distingue è la nostra dichiarata ‘diversità’: il nostro essere scivolamenti di tono.
Inaugurazione: sabato 10 luglio ore 17.00
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