Giulio Paolini. Fuori quadro
Dal 19 Aprile 2021 al 01 Giugno 2021
Napoli
Luogo: Alfonso Artiaco
Indirizzo: Piazzetta Nilo 7
Telefono per informazioni: +39 081 4976072
Sito ufficiale: http://alfonsoartiaco.com
Per la sua quinta personale da Alfonso Artiaco (le precedenti nel 2005, 2009, 2014, 2018), Giulio Paolini propone otto lavori, di cui quattro realizzati per l’occasione, unitamente a diversi collage inediti.
Tutte le opere in mostra sono caratterizzate dalla presenza di riferimenti alla storia dell’arte (Jean Antoine Watteau, Edouard Manet, Giorgio de Chirico), all’arte antica (lo scultore greco Policleto, la città di Pompei) e alla mitologia (Icaro e Antiope). Come sempre accade nella ricerca di Paolini, l’obiettivo non è quello di dar luogo a una mera celebrazione del passato, bensì di dare evidenza a frammenti tuttora significativi nell’arte attuale: essi affiorano dalla storia con una fissità metafisica e si interrogano sul trascorrere del tempo.
Dichiara a proposito l’artista: “I miei riferimenti alla storia della pittura non dipendono da un partito preso. Non mi propongo di analizzare il passato, di fare dell’esegesi. Sono io stesso prigioniero di un inventario di figure. In genere mi trovo a confronto con immagini di artisti che si ha l’abitudine di chiamare “classici”. Artisti che avevano un atteggiamento particolare con le immagini: più che proporle, le aspettavano, a una certa distanza; la mia è un’accoglienza indifferenziata, una memoria che vuole attingere al farsi stesso dell’opera, sono attratto dal mito del perché si fa arte”.
La mostra si apre con il collage La caduta di Icaro, 2020. Il mito narra della fuga dal labirinto del figlio di Dedalo con l’ausilio di ali unite al corpo con la cera, Icaro si fece prendere dall'ebbrezza del volo e si avvicinò troppo al sole, il calore fuse così la cera facendolo precipitare in mare, dove trovò la morte. Nelle parole di Paolini: “Una “falsa partenza” finisce col ripetersi sempre da capo, senza intravedere la speranza dell’arrivo. Tutto è posto al di là di una soglia, visibile, seppure invalicabile”. Nella stessa sala troviamo Vis-à-vis (Amazzone) (I), 2019 dove l’Amazzone di Policleto interroga le ragioni dell’esistenza stessa dell’opera e del suo farsi attraverso il nostro sguardo. Le due metà del calco in gesso della testa sono, infatti, collocate una di fronte all’altra – vis-à-vis come recita il titolo – su due basi addossate alla tela. Il disegno delineato a matita sulla tela propone un ambiente in prospettiva con una quadreria di (ri)quadri; inoltre le diagonali tracciate a matita rossa evocano lo spazio della rappresentazione, formulato dall’artista fin dal suo primo quadro, Disegno geometrico del 1960.
Nella seconda sala, l’opera inedita su tela Giove e Antiope, 2016-21 trae ispirazione dal dipinto Jupiter et Antiope (1715-16) dell’artista francese Jean Antoine Watteau. Nelle parole di Paolini il quadro raffigura “Giove in ombra e in secondo piano che scopre Antiope senza toccarla... Nessun contatto sembra annunciarsi in una scena dove la luce è la sola a offrire l’assoluta bellezza di un corpo”. Il soggetto centrale della scena, nella versione di Paolini, è il corpo di Antiope, desiderato da Giove, figura dissolta in frammenti intorno alla perfezione della sagoma femminile. Al centro della tela, una cornice dorata e una lastra trasparente fissano ed evocano gli elementi necessari al farsi dell’immagine. Nella stessa stanza, l’opera Fuori tempo (II), 2021 è un omaggio alla pittura, in particolare a Edouard Manet, artista prediletto di Paolini. Su una tavolozza di legno è posata la riproduzione fotografica della palette di Manet ritagliata a collage. Ad un destinatario immaginario vengono offerti, inoltre, busta e biglietto, sorrette da una sfera in vetro e recanti frammenti fotografici della tavolozza del pittore francese. La composizione degli elementi è iscritta, inoltre, in una dimensione ideale raffigurata da un poliedro in metallo. Queste opere presenti nella seconda sala, pur caratterizzate da mezzi e linguaggi distanti tra loro, sono accomunate dalla memoria delle forme d’arte per eccellenza, la scultura e la pittura.
Le sale successive conducono l’osservatore in una dimensione più prossima a noi: il titolo delle tre opere Piazza d'Italia (I), Piazza d'Italia (II), 2001 e Piazza d'Italia (III), 2002 rende omaggio, infatti, a una nota serie di dipinti del periodo metafisico di Giorgio De Chirico. “Nelle sue Piazze d’Italia” – dichiara Paolini – “Giorgio De Chirico riporta quell’aria e quella luce al loro silenzio autentico e originario: anzi, a un silenzio ancora anteriore…, indefinito, insondabile.” Nelle Piazze d’Italia di Paolini gli elementi in gioco alludono a un quadro che, invece di comporsi nello sguardo dell’autore-spettatore si scompone sotto i nostri occhi lasciando a vista solo alcuni indizi iconografici: in Piazza d'Italia (I) vediamo la mano che tenta invano di trattenere una dimensione assoluta, rappresentata dal cielo, per definizione inafferrabile. Piazza d'Italia (II), mostra un quadrilatero disegnato, frammenti di scrittura, fogli sparsi. In Piazza d'Italia (III), il disegno in trompe l’œil richiama la tradizione culturale italiana come contesto di appartenenza, così come gli artifici propri della rappresentazione. L’orologio, dal canto suo, non solo costituisce un elemento d’immagine tipico dei dipinti metafisici di de Chirico, ma rappresenta anche una dimensione assoluta, il tempo, che sfugge a ogni tentativo di definizione.
Nei cinque collage Senza titolo (Pompei), 2020 e 2021, ospitati nella quinta sala, l’artista realizza un “ritratto” di Pompei, sito archeologico per eccellenza: disegna dei cerchi a matita e vi inquadra a collage immagini delle rovine unitamente a costellazioni celesti e quadranti di orologio. Afferma Paolini: “Se il classico è la distanza, l’antico è la lontananza. L’antico, l’archeologico, la rovina sono una lontananza che non può essere avvicinata. Sono quel tipo di fascinazione che emana da qualcosa d’intangibile appartenente alla nostra memoria”. Il medesimo senso di distanza invalicabile si coglie nell’opera inedita Nello stesso punto, 2021, dove la conchiglia e la sua immagine speculare a collage, simbolo dell’origine delle cose, si evidenzia nella sua forma perfetta, essenziale e compiuta. Dialoga con gli elementi circolari presenti nei collage in una vibrante tensione tra natura e storia.
La mostra si chiude con un omaggio alla dimensione dell’essere (o della sua assenza). L’opera inedita In scena (Gilles), 2021 presenta la riproduzione fotografica del personaggio di Gilles dipinto da Watteau in Pierrot, dit autrefois Gilles (1718-19) posta a collage in un nuovo contesto, ovvero in piedi al centro di un sipario. L’immagine di Gilles è posata, a sua volta, su un cavalletto da pittore e corredata da elementi d’arredo (una sedia, una tenda, una cornice) in bilico tra l’intimità di un atelier e un palcoscenico di teatro, in una sorta di “messa in scena privata”. Nelle parole di Paolini: “Gilles guarda, semplicemente guarda, figura assente, inconsapevole, di fronte a noi con assoluta innocenza, si affida al nostro sguardo”. Un’opera sulla visione e sulle sue condizioni di esistenza: il silenzio dello studio e quello di un teatro in cui è stato calato il sipario.
Tutte le opere in mostra sono caratterizzate dalla presenza di riferimenti alla storia dell’arte (Jean Antoine Watteau, Edouard Manet, Giorgio de Chirico), all’arte antica (lo scultore greco Policleto, la città di Pompei) e alla mitologia (Icaro e Antiope). Come sempre accade nella ricerca di Paolini, l’obiettivo non è quello di dar luogo a una mera celebrazione del passato, bensì di dare evidenza a frammenti tuttora significativi nell’arte attuale: essi affiorano dalla storia con una fissità metafisica e si interrogano sul trascorrere del tempo.
Dichiara a proposito l’artista: “I miei riferimenti alla storia della pittura non dipendono da un partito preso. Non mi propongo di analizzare il passato, di fare dell’esegesi. Sono io stesso prigioniero di un inventario di figure. In genere mi trovo a confronto con immagini di artisti che si ha l’abitudine di chiamare “classici”. Artisti che avevano un atteggiamento particolare con le immagini: più che proporle, le aspettavano, a una certa distanza; la mia è un’accoglienza indifferenziata, una memoria che vuole attingere al farsi stesso dell’opera, sono attratto dal mito del perché si fa arte”.
La mostra si apre con il collage La caduta di Icaro, 2020. Il mito narra della fuga dal labirinto del figlio di Dedalo con l’ausilio di ali unite al corpo con la cera, Icaro si fece prendere dall'ebbrezza del volo e si avvicinò troppo al sole, il calore fuse così la cera facendolo precipitare in mare, dove trovò la morte. Nelle parole di Paolini: “Una “falsa partenza” finisce col ripetersi sempre da capo, senza intravedere la speranza dell’arrivo. Tutto è posto al di là di una soglia, visibile, seppure invalicabile”. Nella stessa sala troviamo Vis-à-vis (Amazzone) (I), 2019 dove l’Amazzone di Policleto interroga le ragioni dell’esistenza stessa dell’opera e del suo farsi attraverso il nostro sguardo. Le due metà del calco in gesso della testa sono, infatti, collocate una di fronte all’altra – vis-à-vis come recita il titolo – su due basi addossate alla tela. Il disegno delineato a matita sulla tela propone un ambiente in prospettiva con una quadreria di (ri)quadri; inoltre le diagonali tracciate a matita rossa evocano lo spazio della rappresentazione, formulato dall’artista fin dal suo primo quadro, Disegno geometrico del 1960.
Nella seconda sala, l’opera inedita su tela Giove e Antiope, 2016-21 trae ispirazione dal dipinto Jupiter et Antiope (1715-16) dell’artista francese Jean Antoine Watteau. Nelle parole di Paolini il quadro raffigura “Giove in ombra e in secondo piano che scopre Antiope senza toccarla... Nessun contatto sembra annunciarsi in una scena dove la luce è la sola a offrire l’assoluta bellezza di un corpo”. Il soggetto centrale della scena, nella versione di Paolini, è il corpo di Antiope, desiderato da Giove, figura dissolta in frammenti intorno alla perfezione della sagoma femminile. Al centro della tela, una cornice dorata e una lastra trasparente fissano ed evocano gli elementi necessari al farsi dell’immagine. Nella stessa stanza, l’opera Fuori tempo (II), 2021 è un omaggio alla pittura, in particolare a Edouard Manet, artista prediletto di Paolini. Su una tavolozza di legno è posata la riproduzione fotografica della palette di Manet ritagliata a collage. Ad un destinatario immaginario vengono offerti, inoltre, busta e biglietto, sorrette da una sfera in vetro e recanti frammenti fotografici della tavolozza del pittore francese. La composizione degli elementi è iscritta, inoltre, in una dimensione ideale raffigurata da un poliedro in metallo. Queste opere presenti nella seconda sala, pur caratterizzate da mezzi e linguaggi distanti tra loro, sono accomunate dalla memoria delle forme d’arte per eccellenza, la scultura e la pittura.
Le sale successive conducono l’osservatore in una dimensione più prossima a noi: il titolo delle tre opere Piazza d'Italia (I), Piazza d'Italia (II), 2001 e Piazza d'Italia (III), 2002 rende omaggio, infatti, a una nota serie di dipinti del periodo metafisico di Giorgio De Chirico. “Nelle sue Piazze d’Italia” – dichiara Paolini – “Giorgio De Chirico riporta quell’aria e quella luce al loro silenzio autentico e originario: anzi, a un silenzio ancora anteriore…, indefinito, insondabile.” Nelle Piazze d’Italia di Paolini gli elementi in gioco alludono a un quadro che, invece di comporsi nello sguardo dell’autore-spettatore si scompone sotto i nostri occhi lasciando a vista solo alcuni indizi iconografici: in Piazza d'Italia (I) vediamo la mano che tenta invano di trattenere una dimensione assoluta, rappresentata dal cielo, per definizione inafferrabile. Piazza d'Italia (II), mostra un quadrilatero disegnato, frammenti di scrittura, fogli sparsi. In Piazza d'Italia (III), il disegno in trompe l’œil richiama la tradizione culturale italiana come contesto di appartenenza, così come gli artifici propri della rappresentazione. L’orologio, dal canto suo, non solo costituisce un elemento d’immagine tipico dei dipinti metafisici di de Chirico, ma rappresenta anche una dimensione assoluta, il tempo, che sfugge a ogni tentativo di definizione.
Nei cinque collage Senza titolo (Pompei), 2020 e 2021, ospitati nella quinta sala, l’artista realizza un “ritratto” di Pompei, sito archeologico per eccellenza: disegna dei cerchi a matita e vi inquadra a collage immagini delle rovine unitamente a costellazioni celesti e quadranti di orologio. Afferma Paolini: “Se il classico è la distanza, l’antico è la lontananza. L’antico, l’archeologico, la rovina sono una lontananza che non può essere avvicinata. Sono quel tipo di fascinazione che emana da qualcosa d’intangibile appartenente alla nostra memoria”. Il medesimo senso di distanza invalicabile si coglie nell’opera inedita Nello stesso punto, 2021, dove la conchiglia e la sua immagine speculare a collage, simbolo dell’origine delle cose, si evidenzia nella sua forma perfetta, essenziale e compiuta. Dialoga con gli elementi circolari presenti nei collage in una vibrante tensione tra natura e storia.
La mostra si chiude con un omaggio alla dimensione dell’essere (o della sua assenza). L’opera inedita In scena (Gilles), 2021 presenta la riproduzione fotografica del personaggio di Gilles dipinto da Watteau in Pierrot, dit autrefois Gilles (1718-19) posta a collage in un nuovo contesto, ovvero in piedi al centro di un sipario. L’immagine di Gilles è posata, a sua volta, su un cavalletto da pittore e corredata da elementi d’arredo (una sedia, una tenda, una cornice) in bilico tra l’intimità di un atelier e un palcoscenico di teatro, in una sorta di “messa in scena privata”. Nelle parole di Paolini: “Gilles guarda, semplicemente guarda, figura assente, inconsapevole, di fronte a noi con assoluta innocenza, si affida al nostro sguardo”. Un’opera sulla visione e sulle sue condizioni di esistenza: il silenzio dello studio e quello di un teatro in cui è stato calato il sipario.
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