Campigli. Il Novecento antico
Dal 22 Marzo 2014 al 29 Giugno 2014
Traversetolo | Parma
Luogo: Fondazione Magnani Rocca
Indirizzo: via Fondazione Magnani Rocca 4, Mamiano di Traversetolo
Orari: dal martedì al venerdì continuato 10-18 (la biglietteria chiude alle 17) – sabato, domenica e festivi continuato 10-19
Enti promotori:
- Fondazione Cariparma
- Cariparma Crèdit Agricole
Costo del biglietto: intero € 9, scuole € 5
Telefono per informazioni: 0521 848327 / 848148
E-Mail info: info@magnanirocca.it
Sito ufficiale: http://www.magnanirocca.it
Donne, infinite donne, elegantissime, ingioiellate, eppure prigioniere; il mistero che si cela nell’arte di Massimo Campigli viene indagato in oltre ottanta opere, concesse da celebri musei e raccolte private, a documentare l’intero percorso dell’artista, dagli anni venti agli anni sessanta, quando le sue iconografie tipiche, figure femminili racchiuse in sagome arcaiche di grande suggestione simbolica, divengono esplicite meditazioni sull’archetipo femminile, sempre in equilibrio fra ingenuità e cultura, con una stilizzazione geometrica che rende personalissima la sua maniera. In concomitanza con la pubblicazione del Catalogo generale dell’artista (realizzato dagli Archivi Campigli) la mostra “Campigli. Il Novecento antico”, a cura di Stefano Roffi, presso la Villa dei Capolavori, sede della Fondazione Magnani Rocca a Mamiano di Traversetolo (Parma), dal 22 marzo al 29 giugno 2014, richiama così l’attenzione su uno dei pittori più significativi del Novecento italiano, presente nei maggiori musei del mondo ma pressoché assente dalla grande scena espositiva dopo la memorabile mostra che la Germania gli dedicò nel 2003.
Cinque le sezioni: la stupenda ritrattistica, con le effigi di personalità del mondo della cultura, ma anche amici, signore belle e famose; la città delle donne, che accosta opere che rivelano l’ossessione per un mondo che pare tutto al femminile; le figure in sé prive di identità ma caratterizzate da scene di gioco, spettacolo, lavoro; i dialoghi muti, coppie vicine spazialmente ma incapaci di comunicare, prigioniere del proprio mistero; gli idoli, presentati nell’evoluzione dalle figure idolatriche tratte da Carrà negli anni venti a quelle di ispirazione primitiva che compaiono a partire dagli anni cinquanta. Di particolare interesse l’accostamento, per la prima volta in un’esposizione, delle quattro enormi tele che Campigli teneva nel proprio atelier.
L’esposizione si avvale del sostegno di Fondazione Cariparma e di Cariparma Crédit Agricole.
Il catalogo Silvana editoriale presenta interventi di Luca Massimo Barbero, Nicola Campigli, Mauro Carrera, Nicoletta Pallini, Paolo Piccione, Stefano Roffi, Rita Rozzi, Sileno Salvagnini, Eva e Marcus Weiss.
Tedesco di nascita, italiano di formazione, parigino per cultura, egizio, etrusco, romano, mediterraneo per elezione, Campigli (Berlino, 1895 – Saint-Tropez, 1971) fu un personaggio colto ed europeo (parlava cinque lingue), inusuale nel nostro panorama artistico. Uomo solitario, nella sua pittura si intrecciano geometrie e magie, memorie e simboli (lesse Freud e Jung in lingua originale); fu anche scrittore raffinato e riservato.
Per conoscere l’artista e la sua ossessione dell’immagine femminile bisogna entrare nella sua vita familiare. Il mistero è infatti protagonista nella vita di Campigli: solo in tempi relativamente recenti si è scoperto che era nato a Berlino e che il suo vero nome era Max Ihlenfeld. La madre, tedesca di appena diciotto anni, non era sposata; per evitare lo scandalo, il bambino viene portato in Italia, nella campagna fiorentina. La madre, che gli aveva dato il cognome, lo raggiunge saltuariamente; nel 1899 sposa un commerciante inglese e può prendere il bambino con sé, fingendo (per salvare le apparenze) di essere sua zia. A quattordici anni, Max scoprirà casualmente la verità.
Questa vicenda familiare può spiegare, almeno da un punto di vista psicologico, il mondo espressivo dell’artista: il suo universo di donne quasi inconoscibili, immobili e insieme sfuggenti e distanti, è in definitiva una lunga meditazione sull’enigma femminino, sull’icona della Dea-Madre.
Non uscirà più dalla dimensione infantile e permetterà alla sua immaginazione di prendere il sopravvento sulla realtà per rendergliela accettabile. Scrive infatti: “Non mi sono mai rifugiato nel sogno, nell’infantilismo, ci sono semplicemente rimasto, non ne sono mai uscito”.
La sua formazione avviene tra Firenze e Milano, in quegli anni città artisticamente vivace, in pieno Futurismo. Sono di questo periodo opere dal marcato senso ritmico, una composizione a tessere di mosaico che riaffiorerà sempre nell’opera dell’artista. Nel 1914 egli inizia a lavorare presso il Corriere della Sera e, dopo la sofferta parentesi della guerra, italianizzato il cognome in “Campigli”, ne diviene corrispondente da Parigi; nel 1919 la città è il cuore del Ritorno all’ordine, di quel rinnovato dialogo con la classicità che percorre l’Europa, e che molto influenza l’artista.
Il 1928 è un anno cruciale per Campigli. A Roma visita il museo di Villa Giulia, restando affascinato dall'arte etrusca, e le Terme di Diocleziano, dove viene colpito dalla ritrattistica romana del basso impero. Dopo questo vero colpo di fulmine per l’antico, approccia le prime figure femminili dai grandi occhi senza sguardo inserite in raffinate trame architettoniche. La sua pittura mostra ora un mondo perfetto che affascina con i suoi colori fantasmatici, gli elementi geometrici di donne dal corpo a clessidra, statue dal busto stretto (come era lo stereotipo-donna della sua infanzia), fermate in un’espressione incantata, con grande attenzione per l’abbigliamento, la moda. Donne prive di realismo, a parte la bellissima ritrattistica femminile ma anche maschile, in una dimensione mitica e idealizzante, un “non luogo” dell'astrazione antropomorfica e sentimentale: si guardano i quadri e si entra nell’ “altrove”, nelle visioni interiori dell’artista, in stretto confine onirico. Alle reminiscenze etrusche si mescolano quelle egizie del Fayum, poi copte, romane; è tutta la millenaria arte mediterranea che lo ispira. Campigli, insomma, in sintonia col concetto di tempo assoluto espresso dal Ritorno all’ordine (“Tutte le età sono contemporanee” scrive Pound in questi anni) attinge a un passato complesso e stratificato. Sono peraltro gli anni in cui l’appello alle radici della civiltà antica, al “mito della romanità”, assume in Italia (dove l’artista torna a stabilirsi nel 1931, in pieno fascismo) anche un significato di celebrazione nazionalista. Quello che in realtà Campigli persegue è soprattutto sospendere il presente e raggiungere, attraverso l’emergere dell’antico, una dimensione di eternità dipinta.
Negli anni trenta conquista fama internazionale ed espone a Milano, Parigi, Amsterdam, New York, poi alle Biennali veneziane. Oltre a importanti committenze pubbliche e private, ad acquisizioni museali, vanno ricordati i quattro magnifici affreschi che realizzò fra il 1933 ed il 1940 per il Palazzo della Triennale di Milano, il Palazzo delle Nazioni di Ginevra, il Palazzo di Giustizia di Milano e quello monumentale all'Università di Padova, oltre ai grandiosi cicli per i transatlantici.
Dai primi anni cinquanta si avverte una crescente stilizzazione, alla ricerca dell’archetipo, del primitivo: ai suoi interrogativi la cultura occidentale contemporanea, per lui improntata a una ricerca minimalista prossima al nulla, non offriva risposta; è così che annulla la prospettiva nello spazio come nel tempo e ne racchiude l'essenza in uno schema in cui i corpi dei suoi nuovi “idoli” galleggiano irrigiditi in una infinita varietà di atteggiamenti, tornando a esprimere l’enigma della sua infanzia, di quelle donne dall’identità sfuggente, una volta per sempre.
“Nelle mie fantasticherie, le mie innamorate erano sempre prigioniere” (M. Campigli, da “Scrupoli”, 1955).
Cinque le sezioni: la stupenda ritrattistica, con le effigi di personalità del mondo della cultura, ma anche amici, signore belle e famose; la città delle donne, che accosta opere che rivelano l’ossessione per un mondo che pare tutto al femminile; le figure in sé prive di identità ma caratterizzate da scene di gioco, spettacolo, lavoro; i dialoghi muti, coppie vicine spazialmente ma incapaci di comunicare, prigioniere del proprio mistero; gli idoli, presentati nell’evoluzione dalle figure idolatriche tratte da Carrà negli anni venti a quelle di ispirazione primitiva che compaiono a partire dagli anni cinquanta. Di particolare interesse l’accostamento, per la prima volta in un’esposizione, delle quattro enormi tele che Campigli teneva nel proprio atelier.
L’esposizione si avvale del sostegno di Fondazione Cariparma e di Cariparma Crédit Agricole.
Il catalogo Silvana editoriale presenta interventi di Luca Massimo Barbero, Nicola Campigli, Mauro Carrera, Nicoletta Pallini, Paolo Piccione, Stefano Roffi, Rita Rozzi, Sileno Salvagnini, Eva e Marcus Weiss.
Tedesco di nascita, italiano di formazione, parigino per cultura, egizio, etrusco, romano, mediterraneo per elezione, Campigli (Berlino, 1895 – Saint-Tropez, 1971) fu un personaggio colto ed europeo (parlava cinque lingue), inusuale nel nostro panorama artistico. Uomo solitario, nella sua pittura si intrecciano geometrie e magie, memorie e simboli (lesse Freud e Jung in lingua originale); fu anche scrittore raffinato e riservato.
Per conoscere l’artista e la sua ossessione dell’immagine femminile bisogna entrare nella sua vita familiare. Il mistero è infatti protagonista nella vita di Campigli: solo in tempi relativamente recenti si è scoperto che era nato a Berlino e che il suo vero nome era Max Ihlenfeld. La madre, tedesca di appena diciotto anni, non era sposata; per evitare lo scandalo, il bambino viene portato in Italia, nella campagna fiorentina. La madre, che gli aveva dato il cognome, lo raggiunge saltuariamente; nel 1899 sposa un commerciante inglese e può prendere il bambino con sé, fingendo (per salvare le apparenze) di essere sua zia. A quattordici anni, Max scoprirà casualmente la verità.
Questa vicenda familiare può spiegare, almeno da un punto di vista psicologico, il mondo espressivo dell’artista: il suo universo di donne quasi inconoscibili, immobili e insieme sfuggenti e distanti, è in definitiva una lunga meditazione sull’enigma femminino, sull’icona della Dea-Madre.
Non uscirà più dalla dimensione infantile e permetterà alla sua immaginazione di prendere il sopravvento sulla realtà per rendergliela accettabile. Scrive infatti: “Non mi sono mai rifugiato nel sogno, nell’infantilismo, ci sono semplicemente rimasto, non ne sono mai uscito”.
La sua formazione avviene tra Firenze e Milano, in quegli anni città artisticamente vivace, in pieno Futurismo. Sono di questo periodo opere dal marcato senso ritmico, una composizione a tessere di mosaico che riaffiorerà sempre nell’opera dell’artista. Nel 1914 egli inizia a lavorare presso il Corriere della Sera e, dopo la sofferta parentesi della guerra, italianizzato il cognome in “Campigli”, ne diviene corrispondente da Parigi; nel 1919 la città è il cuore del Ritorno all’ordine, di quel rinnovato dialogo con la classicità che percorre l’Europa, e che molto influenza l’artista.
Il 1928 è un anno cruciale per Campigli. A Roma visita il museo di Villa Giulia, restando affascinato dall'arte etrusca, e le Terme di Diocleziano, dove viene colpito dalla ritrattistica romana del basso impero. Dopo questo vero colpo di fulmine per l’antico, approccia le prime figure femminili dai grandi occhi senza sguardo inserite in raffinate trame architettoniche. La sua pittura mostra ora un mondo perfetto che affascina con i suoi colori fantasmatici, gli elementi geometrici di donne dal corpo a clessidra, statue dal busto stretto (come era lo stereotipo-donna della sua infanzia), fermate in un’espressione incantata, con grande attenzione per l’abbigliamento, la moda. Donne prive di realismo, a parte la bellissima ritrattistica femminile ma anche maschile, in una dimensione mitica e idealizzante, un “non luogo” dell'astrazione antropomorfica e sentimentale: si guardano i quadri e si entra nell’ “altrove”, nelle visioni interiori dell’artista, in stretto confine onirico. Alle reminiscenze etrusche si mescolano quelle egizie del Fayum, poi copte, romane; è tutta la millenaria arte mediterranea che lo ispira. Campigli, insomma, in sintonia col concetto di tempo assoluto espresso dal Ritorno all’ordine (“Tutte le età sono contemporanee” scrive Pound in questi anni) attinge a un passato complesso e stratificato. Sono peraltro gli anni in cui l’appello alle radici della civiltà antica, al “mito della romanità”, assume in Italia (dove l’artista torna a stabilirsi nel 1931, in pieno fascismo) anche un significato di celebrazione nazionalista. Quello che in realtà Campigli persegue è soprattutto sospendere il presente e raggiungere, attraverso l’emergere dell’antico, una dimensione di eternità dipinta.
Negli anni trenta conquista fama internazionale ed espone a Milano, Parigi, Amsterdam, New York, poi alle Biennali veneziane. Oltre a importanti committenze pubbliche e private, ad acquisizioni museali, vanno ricordati i quattro magnifici affreschi che realizzò fra il 1933 ed il 1940 per il Palazzo della Triennale di Milano, il Palazzo delle Nazioni di Ginevra, il Palazzo di Giustizia di Milano e quello monumentale all'Università di Padova, oltre ai grandiosi cicli per i transatlantici.
Dai primi anni cinquanta si avverte una crescente stilizzazione, alla ricerca dell’archetipo, del primitivo: ai suoi interrogativi la cultura occidentale contemporanea, per lui improntata a una ricerca minimalista prossima al nulla, non offriva risposta; è così che annulla la prospettiva nello spazio come nel tempo e ne racchiude l'essenza in uno schema in cui i corpi dei suoi nuovi “idoli” galleggiano irrigiditi in una infinita varietà di atteggiamenti, tornando a esprimere l’enigma della sua infanzia, di quelle donne dall’identità sfuggente, una volta per sempre.
“Nelle mie fantasticherie, le mie innamorate erano sempre prigioniere” (M. Campigli, da “Scrupoli”, 1955).
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