La lingua di Andrea Felice

La lingua di Andrea Felice, Mediamuseum, Pescara

 

Dal 10 Luglio 2013 al 18 Luglio 2013

Pescara

Luogo: Mediamuseum

Indirizzo: piazza Alessandrini 34

Orari: 10.30-12.30/ 17-19

Curatori: Claudio Crescentini

Costo del biglietto: ingresso gratuito

Telefono per informazioni: +39 085 4517898

E-Mail info: info@mediamuseum.it

Sito ufficiale: http://www.fondazionetiboni.it


«L’arte pittorica è un’arte di pensare». Questa è la decifrazione più logica dell’arte di René Magritte par Magritte, tramite la quale l’artista belga finisce per deviare la prospettiva analitica del proprio fare arte dall’occhio verso il pensiero, da un’arte del guardare a «un’arte del pensare» (Magritte dixit). Pensare per immagini si potrebbe obiettare, ma sempre di pensiero si tratta. É ancora Magritte a indicarci l’attraversamento: «I miei quadri sono pensieri visibili» e «dipingere significa far vivere il mio pensiero», quindi stimolare vicende, aggiungiamo noi, mediante una speculazione condotta ai danni della pittura, per la gloria del pensiero e del linguaggio che li sostanzia, in un lungo, lucido, recidivo e controllato tradimento mentale dell’immagine stessa e perciò dell’arte figurativa in generale. 
Questo ci sembra il parallelo, la convergenza più specifica per determinare l’arte e il linguaggio creativo di Andrea Felice, il quale potrebbe rappresentare proprio l’altro lato evolutivo della creazione di quel «pensiero dell’arte attraverso il pensiero» teorizzata e operata anche da Marcel Duchamp in contemporanea con Magritte e che oggi noi interpretiamo come un’arte cerebrale giocata sui teoremi delle rappresentazioni e sulle sublimi elucubrazioni della mente. 
Fra Magritte e Felice quindi, con tutti i distinguo storici, artistici e teoretici del caso, in modo però che potremmo, proprio sulla scia del “Magritte pensiero”, definire Andrea Felice come un pittore di concetti/immagini, modificati e ribaltati per paradosso, tramite i quali la logica deraglia proprio per eccesso di logica. Si vedano, come minimale esempio, le due opere del 1991, “Alba al Teatro Marcello” e ”Su e giù per il tempo-spazio”, dove un’astronave molto vintage sorvola minacciosamente la scalinata di Trinità dei Monti. Ecco i concetti/immagini di Andrea Felice, spogliati di consequenzialità e dispersi nella fissità apparentemente ultimativa del racconto; immagini destituite dal simbolo e abbinate fra loro per sensibilità, concettualismi e non-sense. Del resto, come ha insegnato Carl Gustav Jung, un’immagine non è un’espressione del pensiero, essa è pensiero, finendo per identificarsi proprio con ciò che è pensato e poi creato, diventando quindi arte e concetto collettivo. 
Questo è a nostro avviso il culmine/limite delle opere di Felice, quello di far parte – essere parte – di una storia iconografica deviata, tramite la storia dell’arte tout court ma anche la storia della cultura e dei media contemporanei, dal fascino per il passato rivisto e a volte distrutto – ecco un altro paradosso di Felice – con l’utilizzo di una tecnologia mediale molto raffinata, arte dei mass-media, dove il fattore “α”, Giovan Battista Piranesi, vive e si confronta con il “δ”, Carl Banks, padre e architetto di quella grande illusione rappresentata da Paperopoli. 
In tale modo i concetti/immagini creati e manipolati da Felice, sono totalmente svuotati delle loro intrinseche potenzialità, in modo da finire per individuare la loro reale sincronia con il sistema destrutturante, specifico dell’ambito della filosofia di Ludwig Wittgenstein e dell’analisi di Jacques Lacan, in salsa cartoons. 
Inevitabile il riscontro applicativo con le creazioni di Felice, per le quali l’artista sembra anche essersi avvalso del concetto di «ribaltamento» e «perturbante» freudiano, proprio nel suo modo di proporre e mixare le forme dedotte dagli archetipi della nostra civiltà: architetture antiche, figure femminili arcane, spazi naturali favolistici, immedesimazioni futuribili, ecc. In questo modo Felice, “perturbando” il comune senso dato ai suoi oggetti/forme archetipali, ottiene la sostituzione di tale “senso comune” con un “senso diverso", autre come l’avrebbero definito i Surrealisti, cosicché lo spaesamento finisce per rasentare la schizofrenia psichica, con un disarmante quanto efficace tradimento linguistico dell’oggetto, del suo significato e della sua forma che diventa linguaggio, spingendoci inevitabilmente a cercare una giusta corrispondenza nella ricerca linguistica di Ferdinand de Saussure. 
Il linguaggio, infatti, così come concepito da de Saussure, non è più elemento da abbinare a oggetti/soggetti e/o a nozioni già esistenti, ma è la possibilità di articolare la sostanza di questo dentro e dietro di essi. 
In tale ambito il linguaggio di de Saussure diviene sistematica possibilità di realizzazione della realtà, in modo che l’esperienza – conoscenza – è filtrata dal linguaggio stesso mediante il “segno”, mentre in parallelo, il significato/significante divengono dirette definizioni del “segno” stesso, in un’indivisibile unità. 
Partendo da queste premesse Roland Barthes, ad esempio, radicalizza ancor più la teoria, individuando una precisa relazione tra significato e significante che lo porta verso una diversa proposizione e verso una ricerca del «come» un oggetto/soggetto riesca ad assumere un determinato significato e non più «cosa» significa. Dal senso più ovvio quindi a un senso «altro», il «come» appunto di Barthes, contro il senso «ottuso» che però non può essere descritto perché «è un significante senza significato». 
Da qui, tornando alle opere di Andrea Felice, diventa inevitabile il riferimento ai concetti di significato e di significante, così come ai principi di “ribaltamento”, “scollamento” della e dalla realtà, per una vanificazione di questi verso la zona franca, lo ripetiamo, della linguistica. Ed è nella continua manipolazione del significato con il significante, teorizzato da Barthes, che Felice costruisce i suoi concetti/immagini, pensati e poi ricreati in una sovrapposizione razionale di tecniche mediali contemporanee, utilizzate per accumulo ideologico ed estetico, come nel caso di “Draghi al Foro Romano” e “Natale alla suburra”, ambedue del 2001. In queste due opere, infatti, svolte fra Giovanni Paolo Pannini e Walt Disney, Andrea Felice, partendo dal disincanto verso l’ormai non più assoluta certezza storica del linguaggio e creando una realtà autre, ci riporta nell’incertezza del nostro presente, dal passato verso un futuro arcano. Così come anche nel caso dell’opera, in corso di realizzazione, intitolata “Il cielo era pieno di navi” (2013) dove ancora di più si sente la vocazione “citazionista” dell’artista. Dall’anticonformismo di Dada e New Dada e la vivificazione pseudo-realista della Pop Art alle iper-storie della collana Urania con annessi il futuro “visto” da Isaac Asimov e James Graham Ballard. 
Felice svuota perciò la realtà formale di ogni effetto propositivo, in un percorso storicistico accidentato nel quale possiamo – dobbiamo – anche inserire la scienza/fantascienza di Sir Arthur C. Clarke, l’iconografia di massa di Walt Disney e Takashi Murakami, mixate con le strutture architettoniche archetipali dedotte dal già citato Piranesi. Senza dimenticare le linee cinetiche dei Manga e le campionature tecniche delle Stars Comics della Marvel, ritornate ora tanto di moda grazie alle immagini filmiche 3D. 
La lista potrebbe essere anche più sostanziosa e ancora più particolareggiata ma, proprio di là delle liste e delle contiguità reali e/o presunte tali, ci preme in conclusione porre l’accento sul fatto che Andrea Felice non dimentica mai il linguaggio dell’arte, l’armonia delle forme, l’organicità delle proporzioni e il naturalismo del colore, pur nella decontestualizzazione della convenzionalità data e quindi acquisita come tale. 

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