Mariangela Calabrese. Mediterrando

Mariangela Calabrese, E lo stridore del vento non crea fantasmi

 

Dal 17 Febbraio 2018 al 23 Febbraio 2018

Roma

Luogo: Museo Venanzo Crocetti

Indirizzo: via Cassia 492

Orari: Lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì: 11:00 - 13:00 e 15:00- 19:00; sabato: 11:00 - 19:00

Costo del biglietto: ingresso gratuito

Telefono per informazioni: +39 06 33711468

E-Mail info: info@fondazionecrocetti.it

Sito ufficiale: http://https://www.fondazionecrocetti.it



Si inaugura sabato 17 febbraio alle ore 17, negli spazi del Museo Venanzo Crocetti, a Roma, la mostra “Mediterrando”, dedicata alla ricerca pittorica più recente e intensa di Mariangela Calabrese. Venti opere selezionate da un nucleo molto più nutrito ma che segnano, probabilmente, uno dei momenti centrali del percorso narrativo dell’artista di origine salernitana.

La mostra Mediterrando è prologo e approdo di un viaggio metaforico nel nostro mondo confidenziale e velato tra i frammenti dei territori dell’anima; ma è anche contenitore di quelle emozioni che raccontano la speranza e il dramma dei percorsi dei migranti, come inizio ed esito di un tragitto in cui cogliere i concetti chiave del progetto: viaggio, legame, distacco, lotta, salvezza, ritorno ....

Questi i temi principali, dove una concessione formale aperta - sollevata da reminiscenze figurative, che arriva a riferimenti visivi di Rothko, di Klein, di Twombly quali informazioni di energia ideativa, vitale e passionale - suggerisce colori intensi, info tematiche ed approfondimenti per rilevare i frammenti delle nostre inquietudini. Per creare un itinerario simbolico ed espressivo che va dall’aria alla terra, fino all’acqua, librandosi e incrociandosi fra i tre elementi.
 
Marcello Carlino -Università La Sapienza di Roma scrive:
Un continuo moto ondoso sospinge la pittura di Mariangela Calabrese, facendola fluire come corrente da riva a riva. La materia cromatica s’addensa, attratta verso il centro, e calamita i segni, che s’aggrumano e fanno vortice e tempestano; eppure è costante un dilatarsi su rotte centrifughe, finché la materia, resa diafana, ossimoricamente si sostanzia di immaterialità e avvista i lidi dell’altrove.
Si ha il sentore di lenti processi effusivi, scanditi sul ritmo di una risacca; e tuttavia a volte si ascolta il ruggito rosso-sangue del mare. Il colore, periodicamente, si schiarisce sperimentando i toni dell’azzurro e del bianco: e allora prende di acqua e prende di aria questa pittura, che assomiglieresti a un che di liquido e di aereo al tempo stesso, fasciato di silenzio in un’atmosfera sospesa.
E così essa trasporta il suo carico di idee e di sogni tra l’informale, che ha precedenti di gran rilievo nella ricerca artistica del Novecento, e l’astratto nella cui filigrana sembrano affiorare cenni di figure, tracce di memorie. E così unisce, da navetta in andata e ritorno, la musica asemantica del gesto che urge e vuole espressione, anche gridato e dolente, e il significato che si compone in una storia, quello talora alluso da un ipotesto che si scorge nel profilo di lettere in sequenze. Ed esplode spruzzando lapilli a raggera e affaccia sulle cascate di un maelstrom. E fa la spola tra le sponde di un’emozione che sale – e vuole essere partecipata prim’ancora di rapprendersi e di strutturarsi – e di un progetto che include il pensiero e la ragione e reca testimonianza di un bisogno di comunicare, di condividere, di aprirsi agli altri entrando nella loro vita. E diviene metafora di un viaggio ininterrotto e senza confini: un viaggio storico e mitico e metafisico, un viaggio di tragedie e di speranze, un viaggio integrale per acqua e per aria, dentro e fuori di noi. Per ritrovarci.

Rocco Zani
, critico d’arte:
Il privilegio della conoscenza – repertorio di complici mutismi, di aliti lunari, di reticenze, di sbigottimenti cromatici – è la buona via per intendere o quanto meno per non subire il supplizio di palesi fraintendimenti. Sull’artista e sulle sue opere. Sugli inganni di una scrittura (quella pittorica in questo caso) capace di deviare la vista nostra per rotte talvolta inattendibili. O bugiarde. Il beneficio della conoscenza è un sedimentare lento, strappato spesso ad un altrove colmo di nebbie spesse, come la biacca offerta con generosità alla tela. Come l’oltremare che sommerge i cortili precari. Come le fronde dell’oro – o dell’argento – che disegnano sentieri o voli. Non è un caso allora parlare – o scrivere – di lei. Le due mostre personali che Mariangela Calabrese presenterà quasi con sequenzialmente, in una sorta di ispirato inseguimento, tra Roma (a febbraio al Museo Venanzo Crocetti) e Napoli (a marzo al Museo Minimo) non sono soltanto ulteriori stazioni di transito ma più concretamente l’inciso – comunque in progress – di una dimensione che l’artista ha preso a praticare – e ad indossare – nell’ultimo decennio, come indizio di luce, come vestiario di sbrecciato silenzio. Senza esagerare direi che la sua biacca remota, il suo blu, il rosso argilloso sono oggi sillabario mai stagnante di una narrazione che si fa giorno dopo giorno itinerario “consueto” della sua presenza artistica, della sua sostanza. La crescita espressiva – dalle percezioni figurali a quelle di un informale intenzionalmente disarmonico – non è una inversione estetica piuttosto uno “scarto” nel percorso esperienziale. Che è temporalità di sguardi, di incomprensioni, di simmetrie intollerabili, di autonomia finalmente tastata. Come il quotidiano, “toccato” nelle sue intemperanze, nelle premesse, nei ghirigori delle luci, negli afflati della notte. Quasi a riportare – con l’indugio del dubbio - sull’altrove della tela i frammenti più intensi e intimi della propria esistenza. Una pittura “autobiografica”? C’è forse un’arte deliberatamente non-autobiografica? Credo in verità che ogni linguaggio sia simultaneamente “principio proprio” e accento su criteri di un esistere analogo. Ovvero, l’opera nasce fatalmente dalla propria consapevolezza di attraversamento e da quella griglia frammentata (di ascolti, di riflessioni, di memorie) che accoglie le voci di uno stesso patire. Accade allora che le congetture del quotidiano – dai minuti sostentamenti al destino delle ombre, dalle militanze turbolenti alle parole abbuiate - diventino di colpo materia per imbastire capitoli o alloggio della propria identità espressiva. Credo che accada per tutti. Credo che accada per Mariangela Calabrese. Che svuota pareti per ripristinarne altrove. Il “vincolo dell’abbraccio” è l’appartenenza al tempo clemente, alle considerazioni sull’equilibrio finanche formale di una storia incentrata sulle certezze, sull’immaginifico della devozione.  Da qui la necessità probabilmente di una comunicazione latente, affidata ad una prospettiva esplicita e riconoscibile, come notifica alla percezione comune. Priva di filtri o di meditate profanazioni. Rivelatrice del dialogo. Ma “la vita di sempre” rinnova enigmi e concede estremi imprevedibili. E nell’arte l’imprevedibilità è foraggio e fame al contempo. Rimane vivo il “timbro” del prologo fatto di una perentorietà cromatica affidata ad una poetica tonale identitaria dove il blu, il rosso e la biacca si son fatti via via metalinguaggi preziosi, essenziali, quasi sonori. Come capitoli ricorrenti – ma originali – di una narrazione che non offre alibi conclusivi ma sopravvive e si alimenta, di volta in volta, di nuovi “ascolti”, di infrazioni, di registri inediti. Una pittura, quella di Mariangela Calabrese che vive il presente. Quello trascorso. Quello, non ancora addomesticato, che ci attende.

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