Capolavori dai musei italiani
Rinascimento in mostra
01/10/2001
La lettura del nostro Rinascimento proposta dal curatore della mostra romana pare legata ad una interpretazione tradizionalistica, non distante da quelle proposte nei manuali di storia dell’arte che tutti abbiamo sfogliato al liceo, perfettamente rispondente alle esigenze del pubblico giapponese: ricevere poche ma chiare informazioni e nozioni su uno dei momenti più esaltanti della storia occidentale.
Il primato fiorentino nella storia dell’arte, promulgato dal Vasari alla metà del XVI secolo e materia di discussione tra gli specialisti del settore da più di due secoli, fa da filo conduttore all’esposizione, oscurando in parte l’interesse per l’attività degli artisti operanti negli altri centri italiani. La scoperta della prospettiva scientifica, il ritorno all’antico, l’apertura verso il naturalismo (le fondamentali linee di ricerca del Rinascimento) se a Firenze hanno infatti trovato un terreno particolarmente fertile per germogliare e fiorire, a Milano, Mantova, Urbino, Venezia hanno goduto di altrettanta fortuna, in decenni forse successivi ma in forme altrettanto originali e dirompenti. I curatori potevano forse pensare ad una selezione meno ristretta di opere provenienti dall’Italia padana e veneta.
A connotare il progetto espositivo contribuisce anche lo sconfinamento temporale oltre gli anni Venti e Trenta del Cinquecento, nel periodo cosiddetto della “Maniera” (al secondo piano delle Scuderie). Si tratta, in realtà, di una stagione artistica autonoma, succeduta alla morte di Leonardo e Raffaello e coincidente con la fase matura dell’attività di Michelangelo e Tiziano, quando le ricerche degli artisti hanno abbandonato i vecchi sentieri quattrocenteschi e aperto nuove strade all’invenzione. L’angosciante grido di dolore proveniente dalle opere di Pontormo, Rosso Fiorentino o Beccafumi, l’intellettualismo e la sofisticatezza dei prodotti usciti dalle botteghe di Giambologna, Cellini, Vasari e Salviati, le astrazioni formali dei dipinti di Parmigiano e Bronzino possono considerarsi tutt’al più uno sviluppo della ricerca del vero e del naturale del secolo precedente, non certo sue parti costitutive. Valgono cioè a documentare una fase successiva, inglobata per esigenze “manualistiche” di semplificazione e ordine nella categoria più generale di Rinascimento.
L’ultimo appunto riguarda la scelta delle opere. Si tratta di assoluti capolavori, belli da togliere il fiato, perfetti per lo scatenamento dell’effetto “choc” in terra nipponica. Per la tappa romana qualche cambiamento avrebbe forse giovato: potevano essere scelti pezzi più omogenei gli uni agli altri, capaci di favorire confronti e riflessioni personali maggiormente calzanti. I responsabili dei nostri musei (che tanto si sono lamentati per i copiosi prestiti) avrebbero ceduto ben volentieri qualche pezzo di minor pregio qualitativo, più rispondente però allo scopo di “riconsegnare” al moderno visitatore il quadro generale dell’epoca.
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