Il canale mondo di Philip Tsiaras

Opera di Philip Tsiaras
 

17/07/2003

Inoltre, come anticipato sopra, tutti i lavori del maestro americano sono parti gemellari, dunque fuori dall'ordinario. Monozigoti per forma ma differenti e inconciliabili per quanto riguarda la sostanza. A ogni figura in vetro ne corrisponde una analoga e opposta di bronzo cromato, vista e titolata come se osservata attraverso lo specchio di Carroll e Alice. Alla trasparenza corrisponde l'opacità, alla fragilità la resistenza, alla leggerezza la gravità, allo spessore esiguo uno duro e massiccio. Laddove le opere in vetro appaiono aeree e impalpabili, quelle in lega si presentano come prepotenti, inattaccabili, e le forme di oggetti e creature risultano leggibili all'istante. Ma anche in questi casi, per la monocromia dominante, per la tonalità argento abbagliante e riflettente, l'aggressività dei soggetti sembra essere contenuta e messa sotto silenzio, è rimandata a una lettura secondaria molto più attenta. Tutti gli elementi sempre coloratissimi e sfolgoranti dei lavori di Tsiaras – i vasi, gli aerei, i cavalli, le scarpe e le pistole che fanno mostra di sé anche e soprattutto nelle ceramiche e nei dipinti (si pensi a tele come Desert Storm del 1991, Duel del 1992 e Oriental Blue del 1994) – nel ciclo Trasparent Mirrors subiscono una muta stagionale, perdono la livrea multicromatica per indossarne una perfettamente mimetica, adatta all'ambiente veneziano del vetro e dei cristalli. Il grigio lucente della cromatura, velato in oro grazie a studiate illuminazioni dei soggetti, si confonde con le tonalità degli ambienti veneziani, s'inserisce perfettamente nella loro storia e nelle loro atmosfere, punta a rimandare piuttosto che a esaltare il desiderio d'aggressività dei pezzi. I gemelli, strani e diversi, aspettano nella loro tana che qualcuno si arrenda, si conceda, abbassi la guardia per lasciarsi trascinare in un racconto folle e immaginifico, tempestato di criniere, gorilla, aeroplani e volti arcimboldeschi, che solo un artista visionario per davvero avrebbe potuto mettere in piedi. A esaltare l'atmosfera straniante di una mostra sui generis, in paradossale bilico tra l'esagerazione e la contenutezza, tra l'eccesso e la pulizia di segno, ci pensa la musica di Martyn Ware e Vince Clarke studiata appositamente per l'installazione veneziana delle dodici coppie gemellari di sculture. Lungo il pavimento metallico e contro il nero delle pareti rimbalzano le note secche, asciutte, ripetitive di una colonna sonora fatta d'interventi acuti o profondi, a seconda che debbano sembrare assorbiti dal vetro o respinti dal bronzo argentato. La melodia scompare nei fondi senza fondo degli elementi trasparenti, si tuffa al loro interno, mentre rimbalza tintinnando sulle superfici metalliche, e torna contro lo spettatore, lo investe, lo colpisce. La composizione è costruita tra sparizioni e ritorni, echeggia la sostanza e la materia dei lavori, la loro morbidezza e la loro resistenza, la freddezza o la sensualità. Il senso d'insieme suggerito dai suoni di Ware e Clarke è quello tipico di situazioni asettiche, fredde, controllate e ipertecnologiche che si sposano perfettamente con l'allestimento della mostra e con la monocromia dominante (da "2001 Odissea nello spazio"), ma che fanno a pugni coi soggetti dei lavori, coi musi in trasformazione, con le bestie antropomorfe, con le icone da dark lady degni piuttosto di film come "La Cosa" di Carpenter e "Specie Mortale" di Roger Donaldson. Ancora una volta l'allestimento e la presentazione puntano a nascondere il pericolo, a rimandarlo, per rendere ancora più micidiale, se possibile, l'attacco al cuore del visitatore. Che non si aspetta e non può aspettarsi di trovarsi al cospetto di opere predatrici, mutanti, luminose, inquietamente affascinanti.