Il sacro bosco
Bomarzo
28/07/2001
L’ingresso al giardino di Bomarzo è costituito da una semplice porta merlata, unica “normalità” tra le bizzarrie formali che introduce. Chiaro il senso di una scelta di questo tipo: il visitatore, ignaro di cosa lo aspetta non deve presagire nulla. Varcata quella soglia ogni criterio razionale viene messo in scacco lasciando via libera alla fantasia più sfrenata. Ci si trova così di fronte a sfingi, elefanti, divinità classiche, giganti, draghi, orchi.
Splendido il gruppo di “Ercole e Caco” con l’eroe che viene colto nell’atto di squartare il figlio di Vulcano, reo di avergli rubato due tori, prendendolo dalle gambe. Un gesto terribile che segna la vittoria del bene sul male, della virtù sulla frode.
Poco più avanti in una piccola valle si vede una tartaruga che trasporta una donna in piedi su una sfera. La donna ha i caratteri di una vittoria alata. Ancora più in basso è posto un masso rappresentante una balena a fauci spalancate pronta ad inghiottire la preda. Lì vicino Pegaso pronto a spiccare il volo. Il tutto è riconducibile ad una rappresentazione astrologica: sotto il ciglio del torrente, che rappresenta la divisione tra i due emisferi, figura la costellazione della Balena, e a suo riscontro, nel nostro emisfero, fra essa e i Pesci, appare la piccola costellazione della Tartaruga. Il celebre poeta Manilio nel suo “Astronomica” del I secolo d.C. scrive: «Quando, sorti i Pesci, il loro ventunesimo grado, sull'orizzonte illumina la Terra, Pégaso si inclina, volando al cielo» (V,628-630).
Per quanto riguarda altre sculture legate alla cultura classica, qua e là compaiono Nettuno, Venere, Cerere, Proserpina, il mascherone con Giove Ammone, le tre Grazie, Cerbero, una Ninfa dormiente, Echidna e una delle Furie.
Le statue che meglio danno il senso della diversità di questo parco sono quelle che secondo l’immaginario collettivo appartengono alla tradizione fantastica. Su tutti la testa a bocca aperta dell’Orco, gigantesca e con all’interno un intero tavolo da banchetto; ma ancora un Drago che combatte contro un cane, un leone ed un lupo.
Di grande effetto il mastodontico Elefante sormontato da una torre e con un legionario stretto nella proboscide: secondo Pirro Ligorio l’elefante è animale che “discerne il bene dal male”. Allo stesso tempo per gli antichi è l’incarnazione dell’eternità: la sua presenza nel parco è ulteriore conferma della volontà di superare i limiti della morte terrena.
Da simbologie così elevate si passa di colpo all’ennesimo gioco che contrappone realtà a finzione: componente teatrale che è dominante nelle stravaganze manieristiche. In una radura trova spazio un’intera architettura di fantasia realizzata: una casa pendente, nata così per lasciare di stucco il visitatore, in cui è possibile passeggiare con ovvi problemi di equilibrio.
Tutto ciò che sorprende e meraviglia è a Bomarzo, secondo un dettame tradizionalmente legato a G.B. Marino, ma evidentemente in voga sin dal Rinascimento.
Non manca il fattore encomiastico legato agli emblemi familiari: in un angolo del giardino sono posti su dei piedistalli due piccoli orsi (=orsini) che reggono tra le zampe la rosa romana e lo stemma Orsini. C’è, inoltre, chi ha visto nel Pegaso scolpito nei pressi della grande Tartaruga la volontà di celebrare l’unicorno dell’emblema Farnese cui apparteneva Giulia, moglie del principe.
La visita al parco si chiude con il Tempio dedicato a Giulia Farnese: un edificio classico, senza particolari bizzarrie formali. L’aula del tempio, sormontata da una cupola, è introdotta da un pronao a quattro file di colonne, chiuse in alto da un timpano interrotto centralmente da un arco. L’aula e la cupola, che Vicino Orsini paragonava a quella di S. Maria del Fiore, sono di forma ottagonale. Tale struttura rimanda alla simbologia resurrezionale: il tempio, infatti, venne edificato alla morte di Giulia Farnese.
Per chi volesse approfondire il tema delle interpretazioni delle singole sculture del parco segnaliamo lo scritto dello studioso tedesco H. Bredekamp (“Vicino Orsini e il Sacro Bosco di Bomarzo”, Roma 1989).
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