Al Pirelli HangarBicocca fino al 18 febbraio 2024

James Lee Byars. Milano 2023 d.C.

James Lee Byars, Ritratto, 1994 © The Estate of James Lee Byars, courtesy Michael Werner Gallery, New York e Londra © The Estate of Lothar Schnepf
 

Eleonora Zamparutti

11/10/2023

Vedo la mia autobiografia come un segmento arbitrario di tante pagine di tempo, di cose a cui ho prestato attenzione fino a questo momento della mia vita" affermava a 37 anni James Lee Byars nel 1969, l’anno in cui, nel mezzo del cammin della sua vita, decise di dare alle stampe la sua “1/2 autobiografia".

Oggi, più di 25 anni dalla sua morte, i fatti della vita e della ricerca artistica di Byars rimangono ancora avvolti da un velo di mistero e appaiono volutamente incompleti. E’ stato definito “the most famous unknown artist of the world”, ma rappresenta senza dubbio una delle pagine più leggendarie della storia dell’arte del Novecento, accanto a maestri come Yves Klein e Joseph Beuys.
Grande escluso alla Biennale di Venezia nel 1993, il giorno del vernissage James Lee Byars completamente vestito d’oro, attendeva i visitatori ai tornelli d’ingresso e donava loro una minuscola moneta dorata in carta velina, sulla quale, in dimensioni microscopiche, era stampata la frase: "Your presence is the best work”. Lui stesso era un’opera d’arte in sé.

La mostra che Pirelli HangarBicocca dedica a James Lee Byars è volutamente senza titolo, dichiara il curatore Vicente Todolí durante la conferenza stampa. “E’ un omaggio alla visione poetica dell’artista”.

JAMES LEE BYARS”, aperta fino al 18 febbraio 2024 e organizzata in collaborazione con il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid, è la prima retrospettiva in Italia sull’artista americano, dopo la sua scomparsa avvenuta nel 1997.

James Lee Byars. Veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milan, 2023 Primo piano: The Door of Innocence, 1986-89 Secondo piano: The Figure of Question is in the Room, 1986 Toyota Municipal Museum of Art Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Todolí aveva già curato in passato due mostre di James Lee Byars: a Valencia nel 1994 e al Museo Serralves di Porto nel 1997. Ma questa volta l’impresa è stata diversa: il gigantesco ex-capannone industriale che ospita l’installazione a Milano non ha niente a che vedere con gli ambienti dove Byars abitualmente esponeva. Lui, che dichiarava di essere nato da qualche parte in America - certamente a Detroit, la capitale dell’auto -, amava trovare il punto di equilibrio per le sue opere nei volumi degli edifici d’epoca e aveva scelto di vivere immerso nella bellezza delle architetture urbane di città storiche come Kyoto e Venezia (dove trascorse lunghi periodi della sua vita) o negli spazi infiniti del deserto.

Tutte le persone che hanno incontrato James Lee Byars hanno la mente affollata di ricordi e aneddoti che tratteggiano aspetti diversi della figura dell’artista e contribuiscono a tramandare la sua leggenda. “Amava chiedere l’impossibile” afferma Todolí.

Se fosse stato presente nei giorni scorsi, durante l’allestimento della mostra, avrebbe probabilmente chiesto di dipingere interamente l’HangarBicocca di rosso. Il pubblico ride. “Tutta la sua vita è stata un rituale. Era una figura seduttiva e sfidante. Aveva mutuato dalla cultura orientale l’idea che assenza e vuoto sono delle entità. La sua ricerca si pone al crocevia di tante culture diverse: americana, europea e giapponese. Mai come in questo momento la sua arte è estremamente attuale” racconta il curatore.

E poi c’è la questione della morte, un tema ricorrente, che l’artista ha rappresentato e messo in scena tante volte durante le sue performance, e che è realmente avvenuta a Giza in una stanza del Mena House Hotel dalle cui finestre poteva ammirare le piramidi. Morì all'età di 65 anni, e fu sepolto nel cimitero americano del Cairo. Non era stata ordinata una lapide, ma un barattolo di latta spogliato del suo involucro di carta, fu conficcato nella terra smossa sopra la sua tomba con il suo nome e la data scritti su di esso con un pennarello Magic Maker nero, così almeno si narra.

Come uno specchio delle riflessioni intorno al mistero della vita e della morte, i visitatori possono ammirare in esposizione The Tomb of James Lee Byars (1986): l’artista racchiude metaforicamente in una sfera di pietra arenaria i concetti intangibili e assoluti della spiritualità e della purezza, che si contrappongono al materiale poroso e stratificato.


James Lee Byars, The Golden Tower, 1990 Acciaio dorato, 2000 x 250 x 250 cm Veduta dell’installazione, Campo San Vio, Venezia, 2017 © The Estate of James Lee Byars, courtesy Michael Werner Gallery, New York e Londra, Foto Richard Ivey

Di grande impatto visivo e fisico, il monolite posizionato all'inizio del percorso di visita, The Golden Tower (1990). Una gigantesca torre dorata alta 21,25 metri che riassume in sé l’indagine dell’artista sull’interazione tra forme perfette e materiali immutabili. Un’opera che era già nella mente di James Lee Byars fin dagli anni ’70: concepita per essere esposta in spazi pubblici, nell’idea iniziale doveva essere altra oltre 300 metri.

Poco distante The Capital of the Golden Tower aspira forse a dare una risposta alla domanda: qual è il colore dell’ombra? o a mostrare semplicemente allo stesso tempo le due facce della medaglia. Si tratta di un tronco di sfera che raggiunge la completezza della sua forma grazie al riflesso sulla base nera: suggerisce in un colpo d’occhio i due lati di un pianeta immaginario, quello illuminato dai raggi del sole e quello in ombra.

Ricerca della perfezione, dubbio come approccio esistenziale, finitudine dell’essere umano: questi i grandi temi d’indagine a cui James Lee Byars ha dedicato la sua vita. Forme archetipe, simili a obelischi e totem, diventano emblema della figura umana e dei suoi aspetti più trascendentali e spirituali come The Figure of Death (1986). La scultura, una struttura verticale composta da dieci cubi di basalto, invita a riflettere sulla natura della morte e sulla memorializzazione e monumentalizzazione della stessa.

Al culmine del percorso, Red Angel (1993): mille sfere di vetro rosso disposte a pavimento creano una sontuosa forma antropica e floreale. L’opera è una stilizzazione della figura umana ridotta alla sua essenza, mentre la connotazione angelica suggerita dal titolo apre nuovamente a una riflessione sulle sue potenzialità metafisiche.

Che James Lee Byars fosse un personaggio assolutamente originale lo testimoniano le tante fotografie che lo ritraggono.
Il suo essere dandy si ispirava probabilmente alla tradizione europea di Charles Baudelaire e Oscar Wilde. Era fortemente influenzato dai costumi dei sacerdoti shintoisti che osservò durante le sue ripetute visite in Giappone. Lì probabilmente Byars aveva attinto la sua eccentricità nell’abbigliamento. Solitamente vestiva di nero, indossando un cappello largo e a tesa leggermente floscia, abiti che si addicevano a un pistolero. Un cappuccio o una maschera di seta nera gli copriva completamente gli occhi e gran parte del naso. Lui poteva vedere vagamente attraverso la seta nera, ma nessuno poteva vedere i suoi occhi. Questa era l'uniforme di tutti i giorni. Poteva aggiungere una coda da diavolo di seta rosa con le estremità a punta, una camicia di forza e un cappello da cowboy di velluto rosso brillante, maniche nere così lunghe da nascondere completamente le sue mani, e un abito in lamé dorato con maniche altrettanto lunghe. Niente avrebbe potuto convincerlo a togliersi i suoi abiti. Una volta fu buttato fuori da un ristorante di lusso a New York perché si rifiutava di togliersi il cappuccio di seta nera. Evidentemente era uno di quelli di cui si dice: "Ha fatto della sua vita, la sua arte".

Si poteva capire sin dall'inizio di che stoffa fosse fatto, quando era ancora un ragazzo (ancora una volta sono gli aneddoti che come frammenti compongono l'insieme).
Ai tempi in cui frequentava il college, Byars conviveva con i suoi genitori in un quartiere operaio di Detroit. Un giorno invitò i professori a casa per supervisionare il suo progetto di tesi. Prima del loro arrivo, tolse tutti i mobili dalla casa, riponendoli nella cantina. Poi tolse tutte le porte e i vetri delle finestre, riponendo anche essi nella cantina. Anche i suoi genitori andarono nella cantina dove rimasero seduti ad aspettare. Quando i suoi professori arrivarono, trovarono la porta aperta ed entrarono nella casa. Attraversarono le stanze vuote cercando il luogo dell’esposizione, poi andarono al piano di sopra dove in una stanza trovarono Byars seduto su una sedia dallo schienale dritto (l'unico pezzo di mobile rimasto in casa), bendato e perfettamente immobile. La mostra di se stesso (da non confondere con una mostra di "esibizionismo") forniva il titolo che sarebbe poi diventato il tema centrale di tutta la ricerca di Byars negli anni a venire, fino alla fine.

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