L'artigiano della fotografia

Berengo Gardin
 

25/02/2004

Arte.it incontra Gianni Berengo Gardin, in occasione della mostra intitolata “Copyright” allestita negli spazi del Palazzo delle Esposizioni di Roma. Suddivisa in aree tematiche, la selezione è composta da centocinquanta immagini rappresentative della carriera di Berengo Gardin, tutte in bianco e nero, tra cui alcune nuove o inedite. Quali sono stati i suoi rapporti con il cinema e il neorealismo? G.B.G. “Direi che la fotografia scattata per strada è sempre stata neorealista. Così è per i fotografi americani del Life, per Cartier-Bresson, per i fotografi francesi e per quelli di oggi, anche se la fotografia recente tende più al concettuale. Se poi nel mio lavoro uso quasi esclusivamente il bianco e nero, lo devo a un semplice motivo: la mia cultura visiva si è formata attraverso i maestri del cinema dell’epoca, che ho amato moltissimo…” La figura di Cesare Zavattini, che con lei ha collaborato, ha spesso ispirato riflessioni sul rapporto tra la parola e l’immagine. Le sue fotografie sembrano voler raccontare delle storie… G.B.G. “Ero amico di Zavattini. L’ho conosciuto proprio perché ha scritto i testi di alcuni dei miei libri di fotografia. A me Zavattini piaceva più come scrittore che come uomo di cinema. Avendolo conosciuto ho imparato moltissimo da lui. Nell’immediato dopoguerra, quando ero ragazzo e non fotografavo ancora, eravamo tutti molto influenzati dagli scrittori americani, perché per noi rappresentavano la novità. Faulkner, Steinbeck naturalmente Hemingway, ma soprattutto Dos Passos, un grande romanziere, ma nello stesso tempo un sociologo. Più tardi, una volta cominciato, quando sono stato in America, ho capito che le immagini che fotografavo, le avevo già da anni in testa, grazie a tutto ciò che avevo letto di questi scrittori. “ Cosa ne pensa delle nuove tecnologie applicate alla fotografia, come il digitale? G.B.G. “Non dico di essere nemico del digitale, perché è una tecnologia moderna e importante soprattutto per chi fa attualità o cronaca. Non non mi interessa perché mi trovo benissimo con la fotografia tradizionale. Il digitale è come mettere a una bicicletta un motore potentissimo; non è più una bicicletta, diventa una motocicletta. Il digitale non è ancora arrivato, anche se in brevissimo tempo ci arriverà, alla qualità che ancora possiede la fotografia su pellicola, specie quella in bianco e nero. Il digitale, il magnetico, l’elettronica, rappresentano il futuro, forse saranno meglio della fotografia classica di oggi, ma comunque un’altra cosa. Col digitale c’è la possibilità di falsificare quasi tutte le immagini, il che è terribile, poiché non sai più cosa vedi e non sai se veramente è una cosa costruita a tavolino, chiusi in una stanza o un effettivo scatto dal vero. Noi come associazione di fotografi, da anni tentiamo di ottenere una legge che obblighi chi lavora il digitale ad applicare un segno riconoscitivo che identifichi il lavoro fatto al computer.” Può parlarci della scelta dei soggetti e di cosa succede nei momenti che precedono lo scatto? G.B.G. “Non esiste un momento che precede lo scatto. Come reporter, devi intuire che sta per succedere qualcosa, perché se lo capisci un attimo dopo, la foto non c’è più. Dipende comunque dai lavori: certe volte c’è una preparazione preliminare che avviene attraverso la documentazione, indagando e leggendo, altre volte vai un po’ all’avventura e quando ti trovi lì dipende sempre dalla tua capacità di sintetizzare una situazione. Ogni situazione è diversa. Il mondo va così veloce che, anche se ti sei documentato su una cosa, vai lì e ti rendi conto che quello che ti eri preparato e che avevi letto non serve quasi più a niente. Spesso sono preconcetti. La mia esperienza con gli zingari in questo senso è stata importante. Passando del tempo nei campi Rom, ho scoperto la dignità di questa gente, contro ogni pregiudizio. Hanno poeti straordinari, una musica straordinaria, ma questo rimane nell’ombra. E' gente perseguitata…” Com’è stata l’esperienza di fotografare le opere architettoniche di Renzo Piano? Ne ha tratto qualche motivo di ispirazione? G.B.G. “Indubbiamente, ma da qualsiasi architettura, non solo da quella di Piano. Quando tengo corsi di fotografia, spesso noto che gli architetti fotografano subito molto bene, perché hanno già una preparazione visiva a vedere le cose in un certo modo. Quando mi fanno i complimenti per la qualità compositiva delle mie immagini, mi stupisco, perché è un qualcosa di cui non mi accorgo; dopo 45 anni di fotografie viene istintiva. La composizione non si studia in modo particolare, ma viene fuori dall’osservazione e dallo studio del soggetto. Ad esempio le critiche rivolte alle immagini “troppo perfette” di Salgado, a mio parere, sono sterili perché, fermo restando che è il contenuto che conta, se oltre ad esso ci sono anche valori formali, che aiutano a leggere meglio la fotografia, che invogliano ad osservarla, ben vengano. Al contrario i giovani oggi sono purtroppo convinti che facendo foto sfocate, mosse, con un colpo di flash quando non serve, ottengano foto d’arte. Un punto di vista diverso, probabilmente noi avevamo troppe regole…” Percorrendo la mostra ritroviamo spesso degli specchi nelle sue foto: è una ricerca particolare? G.B.G. “Sì già altri fotografi mi hanno fatto notare questa cosa, ma non si tratta di una mia ricerca, anche se ne vengono fuori effetti importanti per la costruzione dell’immagine. Ci sono dei giochi fondamentali di sdoppiamento, d’illusione o, ad esempio, di figure viste solo attraverso lo specchio.” Eppure lei si è definito “artigiano della fotografia”… G.B.G. “Be’, alcuni vogliono fare dell’arte e usano la macchina fotografica come un mezzo per questo fine, proprio come una volta i pittori usavano il pennello. Io non punto all’opera d’arte. Sono due interessi completamente diversi. Io sono meno sognatore, meno poeta, meno lirico, più coi piedi per terra: mi interessa raccontare la vita di tutti i giorni.”