Il film è nelle sale il 9, 10 e 11 Aprile
Van Gogh. Tra il grano e il cielo - La nostra recensione
I mulini di Kinderdijk, immagine tratta dal film Van Gogh. Tra il Grano e il Cielo
Samantha De Martin
28/03/2018
Mondo - In quell’ "oceano sconfinato che ha il respiro delle origini, del tempo che precede l’uomo, nel cuore verde dell’Olanda, in un’oasi intatta tra mura di alberi e distese sabbiose, tra quella luce e quelle foglie dove forse il grande maestro avrebbe finalmente trovato il suo Dio” c’è un tempio nel quale una donna decise, un giorno, di celebrare il proprio culto a Vincent Van Gogh, come in un santuario fuori dal tempo, lontano dal tumulto della città, vicino solo all’anima.
Quella sorta di ara bucolica dove Helene Kröller-Müller - una delle donne più ricche d’Olanda - ai primi del Novecento, ammaliata da un viaggio tra Milano, Roma e Firenze, e sull'esempio del mecenatismo dei Medici - decise di collocare i quasi 300 lavori di Vincent, 88 dipinti e 180 disegni, che aveva acquistato nel corso della sua vita, è uno dei luoghi più intensi che un film abbia mai potuto descrivere.
Si respira bellezza, tenerezza, intimità, devozione all’arte nelle scene che cuciono "Van Gogh. Tra il Grano e il Cielo", il film evento - forse uno dei più belli dal punto di vista narrativo e dell’originalità dei contenuti - prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital, diretto da Giovanni Piscaglia e scritto da Matteo Moneta con la consulenza scientifica e la partecipazione di Marco Goldin.
Più che una semplice produzione cinematografica, questa storia inedita, raccontata dalla voce e dalla presenza di Valeria Bruni Tedeschi, nelle sale il 9, 10 e 11 aprile, è un viaggio, un dialogo tra due anime belle che schiva i girasoli e i banali cliché che ruotano talvolta intorno alla follia di Vincent, per celebrare, con delicatezza estrema, l'unione spirituale di due persone che, pur non incontrandosi mai, condivisero durante le rispettive vite la stessa tensione verso l'assoluto, la medesima ricerca di una dimensione religiosa e artistica pura, senza compromessi.
In questa avvicente trama narrativa che inizia ad Auvers-sur-Oise per trovare compimento nello stesso luogo in cui l’artista trascorse gli ultimi, drammatici settanta giorni della sua sfortunata esistenza, si incontrano opere inedite, lettere e luoghi, studiosi e testimonianze. Come quella della scrittrice e storica della cultura, Eva Rovers, autrice della biografia di Helene, colei che ha dedicato quattro anni a strappare al polveroso baule del tempo le oltre 3mila lettere scritte dalla donna per raccontare, o solo condividere, la smisurata passione per Vincent e per l’arte.
Osservare Eva mentre sfoglia la corrispondenza raccogliendo l’eredità lasciata da Helene, è commovente, quasi come entrare nel laboratorio degli esperti restauratori che monitorano e controllano le tele di Vincent prima che lascino il Museo Kröller-Müller di Otterlo per raggiungere, a Vicenza, il percorso espositivo allestito da Marco Goldin, una mostra straordinaria, dalla quale il film trae ispirazione.
Ed eccola la settima arte mentre sfodera la sua potente dote nell’annullare il tempo e le distanze, e per catapultare lo spettatore dalla scrivania di Helene, dal suo piccolo, umile letto di Otterlo, alle sale della Basilica Palladiana, la "Dama Bianca", dove Goldin fa dono del suo appassionato slancio al solitario cantore della terra e dei paesaggi, “filtrando il mondo di Vincent attraverso lo sguardo di Helene”.
Agganciato al racconto dall’inizio alla fine, lo spettatore ammira con devozione opere che non potrebbe mai gustarsi senza recarsi a Otterlo, perché “inamovibili” dal loro museo, come Terrazza del caffè la sera, Place du Forum, Arles, o i Mangiatori di patate, apprezzando il fascino straordinario di quell’atmosfera notturna o di vita quotidiana tanto cara al pittore, per poi ritrovarsi, in un rapido cambio di scena, tra le architetture della basilica Palladiana di Vicenza, dove è in corso, ancora per pochi giorni, la mostra dedicata a Vincent. E in queste sale, oltre alle primissime tele, sono i disegni a stupire, sono le scene di vita in campagna, i ritratti dei contadini dai volti scuri “solcati dalla fatica come campi arati”, i coltivatori di patate - che risentono dell’influsso dei naturalisti francesi e dei pittori della scuola dell’Aja - ad agganciare allo schermo l'osservatore.
Apprezzare i primi azzurri del maestro che si accendono nel cielo e i verdi che si schiariscono rispetto ai colori degli anni olandesi, grazie alle preziose incursioni di Goldin - che ci concede una sorta di visita privata, non priva di poesia, tra i pezzi in mostra - è un’occasione rara, uno dei tanti punti di forza del film.
Scivolando dagli esordi del maestro - tra matita, inchiostro, gessetto e carboncino, da quel disegno con cui volle esercitarsi per andare alla radice delle cose - ai primi rossi e ai viola che si accendono in seguito alla svolta parigina, durante la quale Vincent abbandonerà il marrone delle zolle e dei campi per avvicinarsi a colori vivi e a soluzioni mai osate, lo spettatore è come travolto da un turbinio di luoghi, colori, riflessioni. Eppure vorrebbe restarci a lungo in questa storia raccontata senza troppi paroloni e con semplicità, con competenza e senza fretta.
Attraversa ponti e campi, visita Parigi, passeggia per Montmartre, fino a condividere con Vincent la vista meravigliosa dal suo terrazzo al numero 54 di Rue Lepic. Ed è a Parigi, che ci si imbatte nell’origine del tratto inconfondibile di Van Gogh, in quelle piccole virgole cariche di colore, nate dalla conoscenza dei quadri di Georges Seurat, che influenzarono i suoi lavori, come Interno di un ristorante, realizzato nella Ville lumière nel 1887, autentico omaggio al neo impressionismo, ennesimo pezzo forte della mostra di Vicenza.
Adesso lo spettatore, inebriato da questo universo di tele e colori, si rialza, invitato a seguire il viaggio di Vincent verso il colore assoluto, acceso dalla luce del Sud. Ed eccola la Provenza, raggiunta nel giugno 1888 per “godere come una cicala” - e con un entusiasmo mai conosciuto in tutta la sua vita - del sole, dei frutteti e dei campi di grano di Arles.
Cantano, adesso, le tele di Vincent, sferzate da una pittura che esplode nella luce, dai ritratti, dai volti della gente comune, che più che una riproduzione della fisionomia, sono soprattutto un pretesto per incontrare l’anima dei soggetti rappresentati.
“Che cosa strana il tocco, il colpo del pennello all’aria aperta, esposti al vento, al sole, alla curiosità della gente. Si lavora come si può, si riempie il quadro alla disperata, ed è proprio facendo così che si coglie il vero, l’essenziale” scriveva il poeta del pennello.
In questo periodo in cui i quadri si caricano di un potere espressivo straordinario grazie alle pennellate fisiche e visive, Van Gogh stravolge il senso del colore, come si vede anche tra i prestiti di Vicenza, nella bella tela nella quale il cielo diventa giallo e i tronchi degli alberi azzurri.
In questa giostra di sensazioni che dagli entusiasmanti giorni di Arles precipitano verso il periodo della lotta contro la follia, le musiche di Remo Anzovino sono determinanti nell’accompagnare e scandire, con armonia vibrante, gli emblematici passaggi e le svolte, talvolta brusche, nella vita del maestro.
C’è un passaggio, in particolare, in cui l’ambientazione perde volutamente la sua coerenza storica per raccontare un periodo drammatico per l’artista, inserendo la vicenda tra gli inquietanti labirinti dell’ex manicomio di Mombello, piuttosto che collocarla, come da tradizione, nell’istituto per malattie mentali di Saint-Paul-de-Mausole a Saint-Rémy dove il pittore stesso aveva scelto di farsi ricoverare. Perché ciò che conta, adesso, non è la coerenza del luogo, ma la sua straordinaria potenza evocativa, la solitudine universale di un uomo, non solo dell’ artista, perseguitato da voci e visioni, impossibilitato a dedicarsi, anima e corpo, a quella pittura ormai divenuta astratta, a quell’unico viatico che gli consentirà di sopravvivere, anche se per poco, alla disperazione e allo sconforto.
Non c’è enfasi nella descrizione di quest’ultimo periodo di vita del pittore, che rischia talvolta di far scivolare molti nella banalità dei soliti cliché intorno ad una morte che resta ancora in parte misteriosa, ed ai disturbi mentali da cui Vincent era affetto. Ciò che conta infatti, e il film lo sottolinea, sono le opere straordinarie prodotte a Saint-Rémy, come Notte stellata.
“La vita passa così, il tempo non ritorna, ma io mi accanisco nel mio lavoro, e anche per questo so che anche le occasioni per lavorare non ritornano. Mi viene in mente quella frase di Delacroix che aveva trovato la pittura quando non aveva più né denti né fiato” scriveva l’artista.
Ed eccola “l’ultima stazione del viaggio forsennato di Vincent che cambiò 37 domicili in 37 anni”, Auvers-sur-Oise con l’umile Auberge Ravoux, che il maestro, come in un disperato ritorno alle origini prima del triste epilogo, raggiunse per trascorrere i suoi ultimi giorni, in quella campagna unica e pittoresca, tra i caratteristici tetti in paglia ritratti con pennellate più calme, libere ormai dagli arabeschi contorti e vorticanti di Saint-Rémy.
A questo punto, l'emozione con la quale lo spettatore si aggira ammaliato, già da metà film, tra i sentieri tracciati da Anzovino e dalla voce di Valeria Bruni Tedeschi, diventa davvero intensa. Adesso domina un senso di abbandono finale, racchiuso nelle grandi visioni orizzontali ritratte dal maestro, dove ritorna la sua passione per l’arte giapponese e dove i cieli si preparano ad accogliere la sua assunzione, simile una divina apoteosi, nell’olimpo dell’arte. E il Campo di grano con la pioggia, come spiega Goldin, “una vera e propria lastra tombale” dell’artista”, è quel paesaggio che accoglie la sua anima immortale, definitivamente.
“Chissà se nel suo ultimo giorno Vincent è passato qui accanto, nella strada di fianco alla chiesa, mentre andava all’appuntamento con la morte che lui stesso aveva fissato. Era festa. Da queste navate probabilmente venivano dei canti. Lo immagino allontanarsi come la contadina del suo quadro, di spalle, come per alzare tra noi e lui un muro di solitudine, prima di sparire”.
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Quella sorta di ara bucolica dove Helene Kröller-Müller - una delle donne più ricche d’Olanda - ai primi del Novecento, ammaliata da un viaggio tra Milano, Roma e Firenze, e sull'esempio del mecenatismo dei Medici - decise di collocare i quasi 300 lavori di Vincent, 88 dipinti e 180 disegni, che aveva acquistato nel corso della sua vita, è uno dei luoghi più intensi che un film abbia mai potuto descrivere.
Si respira bellezza, tenerezza, intimità, devozione all’arte nelle scene che cuciono "Van Gogh. Tra il Grano e il Cielo", il film evento - forse uno dei più belli dal punto di vista narrativo e dell’originalità dei contenuti - prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital, diretto da Giovanni Piscaglia e scritto da Matteo Moneta con la consulenza scientifica e la partecipazione di Marco Goldin.
Più che una semplice produzione cinematografica, questa storia inedita, raccontata dalla voce e dalla presenza di Valeria Bruni Tedeschi, nelle sale il 9, 10 e 11 aprile, è un viaggio, un dialogo tra due anime belle che schiva i girasoli e i banali cliché che ruotano talvolta intorno alla follia di Vincent, per celebrare, con delicatezza estrema, l'unione spirituale di due persone che, pur non incontrandosi mai, condivisero durante le rispettive vite la stessa tensione verso l'assoluto, la medesima ricerca di una dimensione religiosa e artistica pura, senza compromessi.
In questa avvicente trama narrativa che inizia ad Auvers-sur-Oise per trovare compimento nello stesso luogo in cui l’artista trascorse gli ultimi, drammatici settanta giorni della sua sfortunata esistenza, si incontrano opere inedite, lettere e luoghi, studiosi e testimonianze. Come quella della scrittrice e storica della cultura, Eva Rovers, autrice della biografia di Helene, colei che ha dedicato quattro anni a strappare al polveroso baule del tempo le oltre 3mila lettere scritte dalla donna per raccontare, o solo condividere, la smisurata passione per Vincent e per l’arte.
Osservare Eva mentre sfoglia la corrispondenza raccogliendo l’eredità lasciata da Helene, è commovente, quasi come entrare nel laboratorio degli esperti restauratori che monitorano e controllano le tele di Vincent prima che lascino il Museo Kröller-Müller di Otterlo per raggiungere, a Vicenza, il percorso espositivo allestito da Marco Goldin, una mostra straordinaria, dalla quale il film trae ispirazione.
Ed eccola la settima arte mentre sfodera la sua potente dote nell’annullare il tempo e le distanze, e per catapultare lo spettatore dalla scrivania di Helene, dal suo piccolo, umile letto di Otterlo, alle sale della Basilica Palladiana, la "Dama Bianca", dove Goldin fa dono del suo appassionato slancio al solitario cantore della terra e dei paesaggi, “filtrando il mondo di Vincent attraverso lo sguardo di Helene”.
Agganciato al racconto dall’inizio alla fine, lo spettatore ammira con devozione opere che non potrebbe mai gustarsi senza recarsi a Otterlo, perché “inamovibili” dal loro museo, come Terrazza del caffè la sera, Place du Forum, Arles, o i Mangiatori di patate, apprezzando il fascino straordinario di quell’atmosfera notturna o di vita quotidiana tanto cara al pittore, per poi ritrovarsi, in un rapido cambio di scena, tra le architetture della basilica Palladiana di Vicenza, dove è in corso, ancora per pochi giorni, la mostra dedicata a Vincent. E in queste sale, oltre alle primissime tele, sono i disegni a stupire, sono le scene di vita in campagna, i ritratti dei contadini dai volti scuri “solcati dalla fatica come campi arati”, i coltivatori di patate - che risentono dell’influsso dei naturalisti francesi e dei pittori della scuola dell’Aja - ad agganciare allo schermo l'osservatore.
Apprezzare i primi azzurri del maestro che si accendono nel cielo e i verdi che si schiariscono rispetto ai colori degli anni olandesi, grazie alle preziose incursioni di Goldin - che ci concede una sorta di visita privata, non priva di poesia, tra i pezzi in mostra - è un’occasione rara, uno dei tanti punti di forza del film.
Scivolando dagli esordi del maestro - tra matita, inchiostro, gessetto e carboncino, da quel disegno con cui volle esercitarsi per andare alla radice delle cose - ai primi rossi e ai viola che si accendono in seguito alla svolta parigina, durante la quale Vincent abbandonerà il marrone delle zolle e dei campi per avvicinarsi a colori vivi e a soluzioni mai osate, lo spettatore è come travolto da un turbinio di luoghi, colori, riflessioni. Eppure vorrebbe restarci a lungo in questa storia raccontata senza troppi paroloni e con semplicità, con competenza e senza fretta.
Attraversa ponti e campi, visita Parigi, passeggia per Montmartre, fino a condividere con Vincent la vista meravigliosa dal suo terrazzo al numero 54 di Rue Lepic. Ed è a Parigi, che ci si imbatte nell’origine del tratto inconfondibile di Van Gogh, in quelle piccole virgole cariche di colore, nate dalla conoscenza dei quadri di Georges Seurat, che influenzarono i suoi lavori, come Interno di un ristorante, realizzato nella Ville lumière nel 1887, autentico omaggio al neo impressionismo, ennesimo pezzo forte della mostra di Vicenza.
Adesso lo spettatore, inebriato da questo universo di tele e colori, si rialza, invitato a seguire il viaggio di Vincent verso il colore assoluto, acceso dalla luce del Sud. Ed eccola la Provenza, raggiunta nel giugno 1888 per “godere come una cicala” - e con un entusiasmo mai conosciuto in tutta la sua vita - del sole, dei frutteti e dei campi di grano di Arles.
Cantano, adesso, le tele di Vincent, sferzate da una pittura che esplode nella luce, dai ritratti, dai volti della gente comune, che più che una riproduzione della fisionomia, sono soprattutto un pretesto per incontrare l’anima dei soggetti rappresentati.
“Che cosa strana il tocco, il colpo del pennello all’aria aperta, esposti al vento, al sole, alla curiosità della gente. Si lavora come si può, si riempie il quadro alla disperata, ed è proprio facendo così che si coglie il vero, l’essenziale” scriveva il poeta del pennello.
In questo periodo in cui i quadri si caricano di un potere espressivo straordinario grazie alle pennellate fisiche e visive, Van Gogh stravolge il senso del colore, come si vede anche tra i prestiti di Vicenza, nella bella tela nella quale il cielo diventa giallo e i tronchi degli alberi azzurri.
In questa giostra di sensazioni che dagli entusiasmanti giorni di Arles precipitano verso il periodo della lotta contro la follia, le musiche di Remo Anzovino sono determinanti nell’accompagnare e scandire, con armonia vibrante, gli emblematici passaggi e le svolte, talvolta brusche, nella vita del maestro.
C’è un passaggio, in particolare, in cui l’ambientazione perde volutamente la sua coerenza storica per raccontare un periodo drammatico per l’artista, inserendo la vicenda tra gli inquietanti labirinti dell’ex manicomio di Mombello, piuttosto che collocarla, come da tradizione, nell’istituto per malattie mentali di Saint-Paul-de-Mausole a Saint-Rémy dove il pittore stesso aveva scelto di farsi ricoverare. Perché ciò che conta, adesso, non è la coerenza del luogo, ma la sua straordinaria potenza evocativa, la solitudine universale di un uomo, non solo dell’ artista, perseguitato da voci e visioni, impossibilitato a dedicarsi, anima e corpo, a quella pittura ormai divenuta astratta, a quell’unico viatico che gli consentirà di sopravvivere, anche se per poco, alla disperazione e allo sconforto.
Non c’è enfasi nella descrizione di quest’ultimo periodo di vita del pittore, che rischia talvolta di far scivolare molti nella banalità dei soliti cliché intorno ad una morte che resta ancora in parte misteriosa, ed ai disturbi mentali da cui Vincent era affetto. Ciò che conta infatti, e il film lo sottolinea, sono le opere straordinarie prodotte a Saint-Rémy, come Notte stellata.
“La vita passa così, il tempo non ritorna, ma io mi accanisco nel mio lavoro, e anche per questo so che anche le occasioni per lavorare non ritornano. Mi viene in mente quella frase di Delacroix che aveva trovato la pittura quando non aveva più né denti né fiato” scriveva l’artista.
Ed eccola “l’ultima stazione del viaggio forsennato di Vincent che cambiò 37 domicili in 37 anni”, Auvers-sur-Oise con l’umile Auberge Ravoux, che il maestro, come in un disperato ritorno alle origini prima del triste epilogo, raggiunse per trascorrere i suoi ultimi giorni, in quella campagna unica e pittoresca, tra i caratteristici tetti in paglia ritratti con pennellate più calme, libere ormai dagli arabeschi contorti e vorticanti di Saint-Rémy.
A questo punto, l'emozione con la quale lo spettatore si aggira ammaliato, già da metà film, tra i sentieri tracciati da Anzovino e dalla voce di Valeria Bruni Tedeschi, diventa davvero intensa. Adesso domina un senso di abbandono finale, racchiuso nelle grandi visioni orizzontali ritratte dal maestro, dove ritorna la sua passione per l’arte giapponese e dove i cieli si preparano ad accogliere la sua assunzione, simile una divina apoteosi, nell’olimpo dell’arte. E il Campo di grano con la pioggia, come spiega Goldin, “una vera e propria lastra tombale” dell’artista”, è quel paesaggio che accoglie la sua anima immortale, definitivamente.
“Chissà se nel suo ultimo giorno Vincent è passato qui accanto, nella strada di fianco alla chiesa, mentre andava all’appuntamento con la morte che lui stesso aveva fissato. Era festa. Da queste navate probabilmente venivano dei canti. Lo immagino allontanarsi come la contadina del suo quadro, di spalle, come per alzare tra noi e lui un muro di solitudine, prima di sparire”.
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