Intervista all'autore del romanzo dedicato allo scultore
L'ultima notte di Antonio Canova nel racconto di Gabriele Dadati
Lo scrittore Gabriele Dadati a Possagno, con, sullo sfondo, il Tempio Canoviano
Samantha De Martin
25/05/2018
Roma - È un Canova inedito, vulnerabile, estremamente umano quello che emerge dalla penna di Gabriele Dadati, che, alla maniera di un delicato scalpello, affonda nel cuore dello scultore senza tempo per restituirci il respiro del marmo attraverso le sue immense figure. Ma anche una confessione sconvolgente, un cruccio inaspettato che pesa sul letto di morte del maestro, più della paura della morte stessa.
Nel romanzo edito da Baldini & Castoldi non ci si imbatte in erudite osservazioni da manuale che potrebbero risultare poco coinvolgenti agli occhi dei poco avvezzi ai tecnicismi dell’arte. Attorno al corpo del maestro, ormai vinto dalla malattia, l’armoniosa bellezza dei volti dei suoi capolavori si mescola con naturalezza all’olezzo di un vecchio morente, agli ultimi istanti di vita di un uomo logorato da un atroce senso di colpa.
Simile a quella di un attore che scende dal palco esausto, la vita dell’artista si consuma lentamente come una candela stanca al secondo piano di palazzo Francesconi, circondato da un niente siderale che preme contro le finestre di una stanza nella quale, nonostante la presenza dei più cari affetti, c’è posto solo per il ricordo, per una colpa, per l’ingombrante peccato di un adesso timido hybristés che schiude la propria umile anima al fratello, in una sorta di catartica liberazione prima dell’ultimo rantolo.
“Là fuori, Venezia era scura, capace di dimenticare qualsiasi cosa”.
L’ultima notte di Antonio Canova, quella del 10 ottobre 1822 si protrae fino alle sette e quarantatré minuti di domenica 13 ottobre, quando il maestro emana l’ultimo respiro, finalmente redento. In mezzo ci sono i ricordi e il lungo, appassionante excursus sul periodo trascorso a Fontainebleau alla corte di Napoleone per ritrarre la sua seconda sposa, Maria Luisa.
Durante quei giorni, particolarmente inquieti e nostalgici, avviene qualcosa a segnare per sempre la vita dello scultore e che lui stesso, mentre termina il suo tempo, vorrebbe confessare per liberarsene e andarsene in pace.
“Canova era un uomo del suo tempo ed era un uomo molto devoto - spiega Gabriele Dadati -. La sua confessione, che sostanzia il romanzo, è una confessione piena, sentita, di cuore. L’assoluzione che cerca non è un atto formale. Ritiene di avere una colpa che gli pesa e prima di andarsene deve lavarla da sé. Dalla consapevolezza di aver tanto operato nel mondo, invece, gli viene un conforto, un ristoro che restituisce senso alla sua esistenza. Il suo cruccio è quello di essere stato sterile, di non aver conosciuto l’amore. Ecco invece che, come Deucalione e Pirra, dalla pietra ha tratto uomini e donne”.
Ma perché Dadati, tra tutti i momenti della vita dell’artista, sceglie di soffermarsi proprio sui giorni a Fontainebleau?
“Si tratta di un momento storico decisivo - spiega l’autore -. Nel 1810 Canova è chiamato a corte a ritrarre Maria Luisa come Concordia, e cioè come colei che, rappresentando l’Austria, era allo stesso tempo sposa e pegno di pace. Ma soprattutto è chiamato a ritrarre colei che darà un futuro all’Impero con il suo ventre, che darà alla luce un nuovo Napoleone che possa ereditare l’Europa. Canova sa di essere al cospetto della storia e, caso più unico che raro, scrive delle paginette, oggi conservate a Bassano del Grappa, in cui racconta almeno in parte quanto vive nelle giornate a corte. Ecco, dunque: io ho voluto anche ripartire da lui, da quello che ci ha testimoniato, per amplificarlo, per dargli respiro. Per lui era importante, lo è stato anche per me”.
Nella stanza di Palazzo Frascesconi si incontrano le figure dei “due campioni di quel loro tempo, l’artista più grande e il più grande uomo pubblico”. Canova e Napoleone. “E quanto davvero avevano a che fare l’uno con l’altro gli almanacchi delle genti e il novero dei secoli non l’avrebbero mai saputo fino in fondo”.
Nell’ultima notte di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi il pensiero va a una donna, divenuta col passare dei giorni “l’imperatrice nera dell’imperatore nero”. “A Canova sembrava di conoscere l’anatomia della sua disperazione”. Ma soprattutto il suo cuore è rivolto a Bonaparte.
“Ho avvertito una fortissima comunanza tra Canova e Napoleone - confessa l'autore -. L’altro grande uomo del secolo era a sua volta rimasto orfano di padre da ragazzino e aveva atteso a lungo di dare alla luce un’erede, Napoleone II, il Re di Roma. Tuttavia, quando finalmente era successo, si era molto vicini al momento del crollo. Ancora poco e sarebbe arrivata Sant’Elena: l’Imperatore non avrebbe mai più rivisto suo figlio, cosa che pure desiderava moltissimo. Ecco: mi è parso che come Canova, anche Napoleone fosse un grande tronco senza radici e senza rami. Un colosso poggiato sulla rena. Solo che l’Impero viene subito spazzato via dalla storia, l’opera di Canova rimane e rimarrà. Ecco cosa li accomuna, ecco cosa li distanza. E in mezzo lei, Maria Luisa, l’Imperatrice poco più che bambina, nucleo incandescente attorno a cui ruotano questi due grandi in quei giorni del 1810 a Fontainebleau”.
Attraverso una scrittura limpida, agilmente percorsa da uno stile armonioso, cavalcata dall’umanità di un uomo che stuzzica le corde del cuore, Dadati è il sensibile corifeo che cuce il delicato intreccio tra anime con lo strale dell’arte.
“Sartori fece in modo che il fratello gli scivolasse tra le braccia, per poterlo cullare così come fa la Vergine nelle rappresentazioni più belle di compianto sul Cristo morto. Il corpo dello scultore andava a occupare una posa che da tempo l’attendeva”.
Quello che accompagna il lettore è uno spartito nel quale momenti di lirismo ed estrema poesia lasciano spazio ad attimi di suspense che rendono il racconto ora thriller, ora giallo, ora ovattato cantuccio in cui si consuma un delicato incontro tra cuori. Al centro di questo appassionato omaggio a Canova c’è un incontro avvenuto in un anno importante per l’autore piacentino classe 1982.
“Nel 2005 - spiega Dadati - iniziai a leggere e rileggere il Panegirico ad Antonio Canova, il più bel testo in lode dello scultore che sia mai stato scritto, cui Pietro Giordani aveva lavorato tra il 1810 e il 1848, anno della sua morte. L’avevo preso a oggetto della mia tesi di laurea e mi avrebbe accompagnato anche in seguito, perché nel 2008 ne avrei pubblicato un’edizione critica e commentata che mi avrebbe consentito di collaborare alla mostra di Forlì e di stendere anche qualche articolo più o meno accademico. In seguito la sete canoviana rimase viva. Nonostante avessi concluso il mio lavoro, continuavo a frequentare le sue opere in giro per l’Europa, ad acquistare cataloghi, a leggere articoli. Cosa c’era a ossessionarmi? Non lo capivo. Certo, la bellezza del suo lavoro. Ma non bastava a giustificare tutta quella febbre. L’ho capito solo nel 2012, di colpo: ad attirarmi, in lui, era la discontinuità. Non un padre, morto quando Antonio non aveva ancora compiuto quattro anni. Non un figlio. Una grandezza straordinaria, ma umanamente così onerosa. Confortata solo dal fratellastro, dagli amici, ma senza inizio e senza prosecuzione. Ecco cosa mi attraeva. Ecco cosa mi ossessionava. Per questo il mio Canova è così umano, credo”.
Dall’ultima notte di Antonio Canova al recentissimo viaggio a New York che celebra il genio di Possagno a distanza di quasi 200 anni, il passo è breve.
Mentre Dadati commenta il suo ultimo romanzo, dall’altra parte dell’Oceano inaugurano contemporaneamente tre mostre dedicate al maestro. La domanda, pertanto circa che cosa renda oggi questo artista estremamente attuale, sembra pertanto superflua, ma Dadati risponde con gentilezza. “Canova era amabile, come uomo e come artista. La bellezza delle sue opere è indubitabile e chiara. Ecco: in questi tempi feriti, in questi tempi frettolosi, la sua semplice grandezza ancora riusciamo ad afferrarla. Ho fatto del mio meglio per non tradire quello che ho capito di lui. La distanza è connaturata al fatto che un conto è la vita - così ricca - e un conto è la letteratura, che ce la mette tutta, ma è pur sempre una cosa fatta dagli uomini per gli uomini”.
Eppure, nonostante gli onori del mondo, il pensiero che affligge lo scalpello che rese immortali i muscoli di Ercole che scaglia Lica in mare, la delicata farfalla tra lintreccio di dita d Amore e Psiche, i capelli sciolti della Maddalena penitente, la leggiadria di Orfeo, Euridice, le Tre Grazie, seduce il lettore tenendolo agganciato fino alle ultime pagine. Tra queste si conserva il testamento dell’artista, già pronto da tempo, l’ultima volontà dello scultore consegnata al fratello Sartori: il tempio di Possagno sarebbe dovuto diventare la nuova chiesa del paese.
Il resto è una lettura d’un fiato che immerge e travolge, e dove l’arte è tela e spartito, con le sue incursioni delicate, calibrate, mai invadenti, che accolgono gli ultimi istanti di vita del poeta del marmo.
“Raccontami una storia - disse Canova in un sussurro. Sartori stava per chiedergli di scegliere. Ma poi preferì suggerire”. Quella “fu la fiaba della buona notte che Giovanni Battista Sartori, fratello uterino di Antonio Canova, fratello minore del più grande scultore al mondo, raccontò al termine di quella che era stata senz’altro la giornata più lunga della loro vita insieme”.
Leggi anche:
• Gabriele Dadati: L'ultima notte di Antonio Canova
• New York celebra il genio di Antonio Canova
• Le tempere restaurate di Canova presto a New York
• Il Washington di Canova è pronto al decollo
Nel romanzo edito da Baldini & Castoldi non ci si imbatte in erudite osservazioni da manuale che potrebbero risultare poco coinvolgenti agli occhi dei poco avvezzi ai tecnicismi dell’arte. Attorno al corpo del maestro, ormai vinto dalla malattia, l’armoniosa bellezza dei volti dei suoi capolavori si mescola con naturalezza all’olezzo di un vecchio morente, agli ultimi istanti di vita di un uomo logorato da un atroce senso di colpa.
Simile a quella di un attore che scende dal palco esausto, la vita dell’artista si consuma lentamente come una candela stanca al secondo piano di palazzo Francesconi, circondato da un niente siderale che preme contro le finestre di una stanza nella quale, nonostante la presenza dei più cari affetti, c’è posto solo per il ricordo, per una colpa, per l’ingombrante peccato di un adesso timido hybristés che schiude la propria umile anima al fratello, in una sorta di catartica liberazione prima dell’ultimo rantolo.
“Là fuori, Venezia era scura, capace di dimenticare qualsiasi cosa”.
L’ultima notte di Antonio Canova, quella del 10 ottobre 1822 si protrae fino alle sette e quarantatré minuti di domenica 13 ottobre, quando il maestro emana l’ultimo respiro, finalmente redento. In mezzo ci sono i ricordi e il lungo, appassionante excursus sul periodo trascorso a Fontainebleau alla corte di Napoleone per ritrarre la sua seconda sposa, Maria Luisa.
Durante quei giorni, particolarmente inquieti e nostalgici, avviene qualcosa a segnare per sempre la vita dello scultore e che lui stesso, mentre termina il suo tempo, vorrebbe confessare per liberarsene e andarsene in pace.
“Canova era un uomo del suo tempo ed era un uomo molto devoto - spiega Gabriele Dadati -. La sua confessione, che sostanzia il romanzo, è una confessione piena, sentita, di cuore. L’assoluzione che cerca non è un atto formale. Ritiene di avere una colpa che gli pesa e prima di andarsene deve lavarla da sé. Dalla consapevolezza di aver tanto operato nel mondo, invece, gli viene un conforto, un ristoro che restituisce senso alla sua esistenza. Il suo cruccio è quello di essere stato sterile, di non aver conosciuto l’amore. Ecco invece che, come Deucalione e Pirra, dalla pietra ha tratto uomini e donne”.
Ma perché Dadati, tra tutti i momenti della vita dell’artista, sceglie di soffermarsi proprio sui giorni a Fontainebleau?
“Si tratta di un momento storico decisivo - spiega l’autore -. Nel 1810 Canova è chiamato a corte a ritrarre Maria Luisa come Concordia, e cioè come colei che, rappresentando l’Austria, era allo stesso tempo sposa e pegno di pace. Ma soprattutto è chiamato a ritrarre colei che darà un futuro all’Impero con il suo ventre, che darà alla luce un nuovo Napoleone che possa ereditare l’Europa. Canova sa di essere al cospetto della storia e, caso più unico che raro, scrive delle paginette, oggi conservate a Bassano del Grappa, in cui racconta almeno in parte quanto vive nelle giornate a corte. Ecco, dunque: io ho voluto anche ripartire da lui, da quello che ci ha testimoniato, per amplificarlo, per dargli respiro. Per lui era importante, lo è stato anche per me”.
Nella stanza di Palazzo Frascesconi si incontrano le figure dei “due campioni di quel loro tempo, l’artista più grande e il più grande uomo pubblico”. Canova e Napoleone. “E quanto davvero avevano a che fare l’uno con l’altro gli almanacchi delle genti e il novero dei secoli non l’avrebbero mai saputo fino in fondo”.
Nell’ultima notte di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi il pensiero va a una donna, divenuta col passare dei giorni “l’imperatrice nera dell’imperatore nero”. “A Canova sembrava di conoscere l’anatomia della sua disperazione”. Ma soprattutto il suo cuore è rivolto a Bonaparte.
“Ho avvertito una fortissima comunanza tra Canova e Napoleone - confessa l'autore -. L’altro grande uomo del secolo era a sua volta rimasto orfano di padre da ragazzino e aveva atteso a lungo di dare alla luce un’erede, Napoleone II, il Re di Roma. Tuttavia, quando finalmente era successo, si era molto vicini al momento del crollo. Ancora poco e sarebbe arrivata Sant’Elena: l’Imperatore non avrebbe mai più rivisto suo figlio, cosa che pure desiderava moltissimo. Ecco: mi è parso che come Canova, anche Napoleone fosse un grande tronco senza radici e senza rami. Un colosso poggiato sulla rena. Solo che l’Impero viene subito spazzato via dalla storia, l’opera di Canova rimane e rimarrà. Ecco cosa li accomuna, ecco cosa li distanza. E in mezzo lei, Maria Luisa, l’Imperatrice poco più che bambina, nucleo incandescente attorno a cui ruotano questi due grandi in quei giorni del 1810 a Fontainebleau”.
Attraverso una scrittura limpida, agilmente percorsa da uno stile armonioso, cavalcata dall’umanità di un uomo che stuzzica le corde del cuore, Dadati è il sensibile corifeo che cuce il delicato intreccio tra anime con lo strale dell’arte.
“Sartori fece in modo che il fratello gli scivolasse tra le braccia, per poterlo cullare così come fa la Vergine nelle rappresentazioni più belle di compianto sul Cristo morto. Il corpo dello scultore andava a occupare una posa che da tempo l’attendeva”.
Quello che accompagna il lettore è uno spartito nel quale momenti di lirismo ed estrema poesia lasciano spazio ad attimi di suspense che rendono il racconto ora thriller, ora giallo, ora ovattato cantuccio in cui si consuma un delicato incontro tra cuori. Al centro di questo appassionato omaggio a Canova c’è un incontro avvenuto in un anno importante per l’autore piacentino classe 1982.
“Nel 2005 - spiega Dadati - iniziai a leggere e rileggere il Panegirico ad Antonio Canova, il più bel testo in lode dello scultore che sia mai stato scritto, cui Pietro Giordani aveva lavorato tra il 1810 e il 1848, anno della sua morte. L’avevo preso a oggetto della mia tesi di laurea e mi avrebbe accompagnato anche in seguito, perché nel 2008 ne avrei pubblicato un’edizione critica e commentata che mi avrebbe consentito di collaborare alla mostra di Forlì e di stendere anche qualche articolo più o meno accademico. In seguito la sete canoviana rimase viva. Nonostante avessi concluso il mio lavoro, continuavo a frequentare le sue opere in giro per l’Europa, ad acquistare cataloghi, a leggere articoli. Cosa c’era a ossessionarmi? Non lo capivo. Certo, la bellezza del suo lavoro. Ma non bastava a giustificare tutta quella febbre. L’ho capito solo nel 2012, di colpo: ad attirarmi, in lui, era la discontinuità. Non un padre, morto quando Antonio non aveva ancora compiuto quattro anni. Non un figlio. Una grandezza straordinaria, ma umanamente così onerosa. Confortata solo dal fratellastro, dagli amici, ma senza inizio e senza prosecuzione. Ecco cosa mi attraeva. Ecco cosa mi ossessionava. Per questo il mio Canova è così umano, credo”.
Dall’ultima notte di Antonio Canova al recentissimo viaggio a New York che celebra il genio di Possagno a distanza di quasi 200 anni, il passo è breve.
Mentre Dadati commenta il suo ultimo romanzo, dall’altra parte dell’Oceano inaugurano contemporaneamente tre mostre dedicate al maestro. La domanda, pertanto circa che cosa renda oggi questo artista estremamente attuale, sembra pertanto superflua, ma Dadati risponde con gentilezza. “Canova era amabile, come uomo e come artista. La bellezza delle sue opere è indubitabile e chiara. Ecco: in questi tempi feriti, in questi tempi frettolosi, la sua semplice grandezza ancora riusciamo ad afferrarla. Ho fatto del mio meglio per non tradire quello che ho capito di lui. La distanza è connaturata al fatto che un conto è la vita - così ricca - e un conto è la letteratura, che ce la mette tutta, ma è pur sempre una cosa fatta dagli uomini per gli uomini”.
Eppure, nonostante gli onori del mondo, il pensiero che affligge lo scalpello che rese immortali i muscoli di Ercole che scaglia Lica in mare, la delicata farfalla tra lintreccio di dita d Amore e Psiche, i capelli sciolti della Maddalena penitente, la leggiadria di Orfeo, Euridice, le Tre Grazie, seduce il lettore tenendolo agganciato fino alle ultime pagine. Tra queste si conserva il testamento dell’artista, già pronto da tempo, l’ultima volontà dello scultore consegnata al fratello Sartori: il tempio di Possagno sarebbe dovuto diventare la nuova chiesa del paese.
Il resto è una lettura d’un fiato che immerge e travolge, e dove l’arte è tela e spartito, con le sue incursioni delicate, calibrate, mai invadenti, che accolgono gli ultimi istanti di vita del poeta del marmo.
“Raccontami una storia - disse Canova in un sussurro. Sartori stava per chiedergli di scegliere. Ma poi preferì suggerire”. Quella “fu la fiaba della buona notte che Giovanni Battista Sartori, fratello uterino di Antonio Canova, fratello minore del più grande scultore al mondo, raccontò al termine di quella che era stata senz’altro la giornata più lunga della loro vita insieme”.
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