Dal 10 febbraio alla Galleria Internazionale di Arte Moderna - Ca’ Pesaro, Venezia
I “Capricci veneziani” di Marco Petrus: una fantastica astrazione partendo dalle tele di Carpaccio
Marco Petrus, Capriccio n 26, 2019, Olio su tela, 90 × 120, cm
Eleonora Zamparutti
09/02/2023
Venezia - Lo studio del pittore Marco Petrus è a Isola, un quartiere popolare di Milano sfiorato dall’ombra dei grattacieli di Porta Nuova e punteggiato da numerosi studi di artisti e designer, boutique alla moda e ferramenta.
All’ingresso dello studio, sulla destra, incrocio lo sguardo profondo di un signore robusto, personalità forte che veglia su tutto. E' il ritratto in bianco e nero di Vitale Petrus, padre di Marco, classe ’34, pittore anche lui, mancato presto a soli 50 anni.
Vogliamo parlare insieme all’artista milanese Marco Petrus dei suoi ultimi lavori che dall'11 febbraio al 4 aprile 2023 saranno esposti a Ca’ Pesaro, la Galleria Internazionale di Arte moderna di Venezia, in una raccolta sotto il titolo di Capricci veneziani.
“Si tratta di un omaggio - si legge nel comunicato stampa - alla grande mostra su Vittore Carpaccio allestita a Palazzo Ducale. La nuova serie di dipinti prende spunto dalle linee, rigorosissime e misurate, delle tipiche braghe veneziane indossate da certe figure che animano le scene di alcuni teleri di Vittore Carpaccio e di Giovanni Mansueti, esposti nelle sale delle Gallerie dell’Accademia di Venezia.“
Vai alla Gallery:
Linee, colori e volumi nei lavori di Marco Petrus ispirati ai teleri di Carpaccio
L'artista milanese espone a Ca' Pesaro a Venezia i suoi recenti dipinti astratti.
I tuoi “capricci” sono un omaggio alla pittura veneziana? “A Venezia vado spesso, ho casa lì. Frequento molto i musei, le Gallerie dell'Accademia. Guardando le tele di Carpaccio e di Mansueti, io ho visto le braghe a strisce dei personaggi. E per scherzo ho fotografato dei dettagli, che poi ho messo via. Eravamo nel febbraio del 2016, i quadri della mostra sono stati realizzati tra il 2016 e il 2019. Ho cominciato a fare delle prove per vedere se l’idea poteva funzionare come progetto, e alla fine ha funzionato benissimo. Non c’era l’intenzione di evocare il Rinascimento veneziano, e nemmeno la pittura di Carpaccio, che pur mi piace molto, piuttosto una suggestione che mi ha permesso di sviluppare un discorso pittorico che ho intrapreso in quel periodo.” Marco Petrus, Capriccio n 21, 2019, Olio su tela, 90 × 120 cm
Come è venuta l’idea di proporre come titolo della raccolta “capricci”? “Per me il “capriccio” è un colpo d’occhio. Non c’è alcun riferimento al genere pittorico del ‘600 che riproduceva le rovine in modo fantasioso. Non si tratta neppure dei “capricci” di Goya che nei suoi dipinti dava uno spaccato della società del tempo. Mi piaceva il concetto di capriccio, la voglia improvvisa di dipingere quei motivi. E’ un’idea stravagante, fantasiosa. A me servono cose così, scattano nella mia mente meccanismi di questo tipo. Ho un approccio molto istintivo. Non ho una teoria o un concetto da sviluppare a priori. Prima faccio il quadro, e poi ci penso. C’è una dimensione di gioco molto evidente e un forte dialogo con gli artisti del Novecento, ma c’è anche tanto lavoro.”
Dove è arrivata la tua ricerca nei lavori che vedremo in mostra?
“I miei capricci sono delle ‘estroflessioni dipinte’ partendo dalle braghe dei personaggi dipinti nelle tele di Carpaccio e Mansueti. Artisti come Agostino Bonalumi, mettevano le sagome dietro la tela per dare l’idea della tridimensionalità. Ho voluto ricreare quello stesso effetto, però con la pittura. Salvatore Settis nella presentazione della mostra “Recycling Beauty” in corso alla Fondazione Prada, sostiene che l’arte deriva dall’arte vera, e non può prescindere da quello che c’è stato prima. I miei non sono lavori in prospettiva, non c’è disegno geometrico né un punto di fuga. I colori sono uno diverso dall’altro, sono tutte tinte piatte. I miei “capricci” sono il mio tentativo di fare delle disarmoniche armonie, di trovare un equilibrio nel caos.”
Marco Petrus, Capriccio n 8, 2016, Olio su tela, 180 × 120 cm (Particolare)
Ma tu sei famoso per i dipinti delle architetture… “Per 25 anni ho dipinto “architetture”, con un approccio sempre un po’ istintivo senza mai l’intento di rappresentare l’identità di un architetto o di una metropoli. Girando per le città, ho incamerato immagini e composizioni che poi ho trasposto in pittura. Ho costruito un metodo di lavoro che si autoalimentava sul viaggio, la ricerca, la pittura. C’è stato un periodo in cui ho fatto un po’ anche la toponomastica, soprattutto a Milano che è la città che conosco meglio e in cui vivo da sempre. Mi divertiva individuare il nome dell’architetto di un edificio, l’esatta ubicazione - tant’è che per la mostra alla Fondazione Portaluppi abbiamo realizzato un vero e proprio itinerario urbano con le schede degli architetti e degli edifici per farli conoscere.”
Come è evoluta la tua ricerca in questo ambito?
“Dopo un po’ di anni la formula mi era diventata stretta perché troppo ripetitiva. Subito dopo la mostra alla Triennale, che per me è stata una mini-antologica perché avevo messo dentro un po’ tutti i punti di vista e di visione che avevo elaborato nei venticinque anni precedenti, è arrivata l’occasione di fare una mostra a Napoli in un momento in cui non è che fossi in crisi, ma cominciavo a pensare di fare un passo diverso. Ed è nato il progetto di Scampia che mi ha portato ad affiancare dei quadri geometrici al quadro d’immagine. Ho iniziato a semplificare, a stilizzare ulteriormente le vele di Scampia che sono in un degrado allucinante e incomprensibile. Quando vedevo delle macchie di colore che potevano essere un graffito, un panno steso, una maceria, le interpretavo. Mi è venuta l’idea di inserire dei cubetti colorati. Da lì ho portato fuori la tavolozza che avevo utilizzato nel quadro di immagine, creando una sorta di dittico. Infatti in mostra i dipinti erano proposti accoppiati. E’ il passaggio all’astrazione. Io ho sempre avuto un seme astratto dentro. I miei quadri diventano delle forme, composizioni pittoriche chiaroscurali, compositive. Mentre dipingo astraggo e al tempo stesso mi vengono nuove suggestioni, memorie di Frank Stella, di Mondrian. E’ astrazione geometrica sì, ma rimane un’idea di volume, c’ho ancora dentro l’architettura.”
Vedi anche:
• Capricci veneziani
• Linee, colori e volumi nei lavori di Marco Petrus ispirati ai teleri di Carpaccio
All’ingresso dello studio, sulla destra, incrocio lo sguardo profondo di un signore robusto, personalità forte che veglia su tutto. E' il ritratto in bianco e nero di Vitale Petrus, padre di Marco, classe ’34, pittore anche lui, mancato presto a soli 50 anni.
Vogliamo parlare insieme all’artista milanese Marco Petrus dei suoi ultimi lavori che dall'11 febbraio al 4 aprile 2023 saranno esposti a Ca’ Pesaro, la Galleria Internazionale di Arte moderna di Venezia, in una raccolta sotto il titolo di Capricci veneziani.
“Si tratta di un omaggio - si legge nel comunicato stampa - alla grande mostra su Vittore Carpaccio allestita a Palazzo Ducale. La nuova serie di dipinti prende spunto dalle linee, rigorosissime e misurate, delle tipiche braghe veneziane indossate da certe figure che animano le scene di alcuni teleri di Vittore Carpaccio e di Giovanni Mansueti, esposti nelle sale delle Gallerie dell’Accademia di Venezia.“
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Linee, colori e volumi nei lavori di Marco Petrus ispirati ai teleri di Carpaccio
L'artista milanese espone a Ca' Pesaro a Venezia i suoi recenti dipinti astratti.
I tuoi “capricci” sono un omaggio alla pittura veneziana? “A Venezia vado spesso, ho casa lì. Frequento molto i musei, le Gallerie dell'Accademia. Guardando le tele di Carpaccio e di Mansueti, io ho visto le braghe a strisce dei personaggi. E per scherzo ho fotografato dei dettagli, che poi ho messo via. Eravamo nel febbraio del 2016, i quadri della mostra sono stati realizzati tra il 2016 e il 2019. Ho cominciato a fare delle prove per vedere se l’idea poteva funzionare come progetto, e alla fine ha funzionato benissimo. Non c’era l’intenzione di evocare il Rinascimento veneziano, e nemmeno la pittura di Carpaccio, che pur mi piace molto, piuttosto una suggestione che mi ha permesso di sviluppare un discorso pittorico che ho intrapreso in quel periodo.” Marco Petrus, Capriccio n 21, 2019, Olio su tela, 90 × 120 cm
Come è venuta l’idea di proporre come titolo della raccolta “capricci”? “Per me il “capriccio” è un colpo d’occhio. Non c’è alcun riferimento al genere pittorico del ‘600 che riproduceva le rovine in modo fantasioso. Non si tratta neppure dei “capricci” di Goya che nei suoi dipinti dava uno spaccato della società del tempo. Mi piaceva il concetto di capriccio, la voglia improvvisa di dipingere quei motivi. E’ un’idea stravagante, fantasiosa. A me servono cose così, scattano nella mia mente meccanismi di questo tipo. Ho un approccio molto istintivo. Non ho una teoria o un concetto da sviluppare a priori. Prima faccio il quadro, e poi ci penso. C’è una dimensione di gioco molto evidente e un forte dialogo con gli artisti del Novecento, ma c’è anche tanto lavoro.”
Dove è arrivata la tua ricerca nei lavori che vedremo in mostra?
“I miei capricci sono delle ‘estroflessioni dipinte’ partendo dalle braghe dei personaggi dipinti nelle tele di Carpaccio e Mansueti. Artisti come Agostino Bonalumi, mettevano le sagome dietro la tela per dare l’idea della tridimensionalità. Ho voluto ricreare quello stesso effetto, però con la pittura. Salvatore Settis nella presentazione della mostra “Recycling Beauty” in corso alla Fondazione Prada, sostiene che l’arte deriva dall’arte vera, e non può prescindere da quello che c’è stato prima. I miei non sono lavori in prospettiva, non c’è disegno geometrico né un punto di fuga. I colori sono uno diverso dall’altro, sono tutte tinte piatte. I miei “capricci” sono il mio tentativo di fare delle disarmoniche armonie, di trovare un equilibrio nel caos.”
Marco Petrus, Capriccio n 8, 2016, Olio su tela, 180 × 120 cm (Particolare)
Ma tu sei famoso per i dipinti delle architetture… “Per 25 anni ho dipinto “architetture”, con un approccio sempre un po’ istintivo senza mai l’intento di rappresentare l’identità di un architetto o di una metropoli. Girando per le città, ho incamerato immagini e composizioni che poi ho trasposto in pittura. Ho costruito un metodo di lavoro che si autoalimentava sul viaggio, la ricerca, la pittura. C’è stato un periodo in cui ho fatto un po’ anche la toponomastica, soprattutto a Milano che è la città che conosco meglio e in cui vivo da sempre. Mi divertiva individuare il nome dell’architetto di un edificio, l’esatta ubicazione - tant’è che per la mostra alla Fondazione Portaluppi abbiamo realizzato un vero e proprio itinerario urbano con le schede degli architetti e degli edifici per farli conoscere.”
Come è evoluta la tua ricerca in questo ambito?
“Dopo un po’ di anni la formula mi era diventata stretta perché troppo ripetitiva. Subito dopo la mostra alla Triennale, che per me è stata una mini-antologica perché avevo messo dentro un po’ tutti i punti di vista e di visione che avevo elaborato nei venticinque anni precedenti, è arrivata l’occasione di fare una mostra a Napoli in un momento in cui non è che fossi in crisi, ma cominciavo a pensare di fare un passo diverso. Ed è nato il progetto di Scampia che mi ha portato ad affiancare dei quadri geometrici al quadro d’immagine. Ho iniziato a semplificare, a stilizzare ulteriormente le vele di Scampia che sono in un degrado allucinante e incomprensibile. Quando vedevo delle macchie di colore che potevano essere un graffito, un panno steso, una maceria, le interpretavo. Mi è venuta l’idea di inserire dei cubetti colorati. Da lì ho portato fuori la tavolozza che avevo utilizzato nel quadro di immagine, creando una sorta di dittico. Infatti in mostra i dipinti erano proposti accoppiati. E’ il passaggio all’astrazione. Io ho sempre avuto un seme astratto dentro. I miei quadri diventano delle forme, composizioni pittoriche chiaroscurali, compositive. Mentre dipingo astraggo e al tempo stesso mi vengono nuove suggestioni, memorie di Frank Stella, di Mondrian. E’ astrazione geometrica sì, ma rimane un’idea di volume, c’ho ancora dentro l’architettura.”
Vedi anche:
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